Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/05/2011, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Israele deve tornare ai confini del 1967 ", a pag. 3, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Netanyahu dice no: Sarebbe a rischio la nostra sicurezza ".
Il titolo di questa pagina è preso da LIBERO.
Ecco i due articoli:
Maurizio Molinari - " Israele deve tornare ai confini del 1967 "
Maurizio Molinari Barack Obama
Sono i quattro pilastri della posizione americana sui «grandi cambiamenti in atto» grazie alle rivolte arabe che Barack Obama illustra parlando per quasi 60 minuti dalla Franklyn Room del dipartimento di Stato.
È il richiamo alla questione israelo-palestinese, che il Presidente fa sul finire del suo discorso, a suscitare le reazioni delle parti in causa. Obama ammette le «attese deluse» per il fallimento di due anni di negoziati - che hanno portato alle dimissioni dell’inviato George Mitchell - ma non si dà per sconfitto e rilancia in avanti la sfida per «raggiungere la soluzione di due Stati per due popoli», con uno Stato palestinese «smilitarizzato», avanzando una ricetta negoziale che terrà banco sin dall’incontro odierno alla Casa Bianca con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È la prima volta che un Presidente americano si assume la responsabilità di formulare un approccio negozioale, senza lasciarlo al Segretario di Stato o inviati speciali, ed ecco di cosa si tratta: «Serve un accordo su confini e sicurezza per rinviare a dopo i temi più emotivi di Gerusalemme e dei profughi palestinesi». E per confini Obama intende quelli «del 1967 con scambi di territori concordati fra le parti». L’intento è accelerare la pace ove possibile. Il rimprovero a Israele è di «aver ripreso la costruzione di insediamenti» e all’Autorità nazionale palestinese di «aver siglato un accordo con Hamas che non riconosce Israele» come di perseguire una dichiarazione di indipendenza attraverso l’Onu e non un accordo con la controparte. «Serviranno risposte nelle prossime settimane» chiede Obama, dimostrandosi convinto che «i cambiamenti in atto possono far accelerare la pace».
L’affondo nulla toglie al fatto che il focus è la primavera araba sospinta dal vento delle rivolte. È a questo tema che il capo della Casa Bianca dedica gran parte dell’intervento. A quasi sei mesi dal gesto di ribellione con cui un venditore di frutta tunisino innescò «un cambiamento straordinario», il Presidente sceglie di dare seguito al discorso al Cairo del giugno 2009 per illustrare «la risposta degli Usa a quanto sta avvenendo». Il discorso è tradotto simultaneamente in arabo, persiano ed ebraico affinché il messaggio sia lo stesso per tutta la regione. La premessa è la sconfitta di Osama bin Laden perché era «un assassino di massa che era contro la democrazia» ed «aveva già perso quando lo abbiamo trovato» perché le rivolte dal Cairo a Bengasi «chiedono democrazia, non perseguono la violenza» e «sono riuscite a ottenere più cambiamenti in sei mesi che il terrorismo in anni di stragi». Obama si rivolge alla «nuova generazione» composta dai «giovani di Sana’a che cantano “la notte sta finendo”» e dalle donne siriane «che ai primi colpi ricevuti hanno detto di aver provato dignità». Sono tali rivolte «a favore di diritti e libertà» a «offrire una storica opportunità» a Medio Oriente e Nord Africa che gli Usa si propongono di sostenere impegnandosi in tre direzioni: «Opposizione all’uso della violenza contro i civili, difesa dei diritti universali degli individui e sostegno alle riforme economiche».
Da qui l’approccio duro a despoti e dittatori. Se contro Gheddafi l’intervento militare è stato «necessario perché minacciava orrendi massacri», il monito al siriano Bashar Assad è di «smettere di sparare sulla gente, aprire le porte ad osservatori umanitari e consentire le riforme» cessando di «imitare l’Iran nelle tattiche di repressione». È l’occasione per indicare in Teheran la capitale che «per prima ha represso i manifestanti» nel giugno 2009, dimostrandosi «ipocrita» perché «reprime le rivolte in casa e esprime sostegno per quelle degli altri» come in Egitto. «Anche il popolo iraniano merita che le sue aspirazioni siano ascoltate» sostiene l’inquilino della Casa Bianca, rincarando la dose alla volta del regime di Teheran per «il sostegno al terrorismo» ed il programma nucleare che continua a dispetto dei divieti nelle risoluzioni dell’Onu.
Ai governanti di Yemen e Bahrein, alleati di Washington, Obama chiede di «mantenere le promesse di transizione» mentre è all’intera regione che si rivolge quando invoca «libertà di religione» per ogni minoranza, dagli sciiti in Bahrein ai copti in Egitto, così come «rispetto per i diritti delle donne perché ove ciò avviene c’è più prosperità».
Parlando delle rivolte, esalta il ruolo dei nuovi media: «La televisione satellitare e Internet forniscono una finestra su un mondo che fa progressi incredibili in luoghi come India, Indonesia e Brasile». L’accento è su «telefoni cellulari e le reti sociali che permettono ai giovani di collegarsi, facendo emergere una nuova generazione la cui voce ci dice che il cambiamento non può essere negato», sottolinea con un’enfasi voluta. Fra le novità positive include anche la «multietnica democrazia irachena» spiegando che «ha un ruolo da giocare» nel cambiamento in atto: una frase che rivaluta a posteriori il lavoro svolto dall’amministrazione Bush a Baghdad. Da qui il tassello a cui Obama tiene di più ovvero il sostegno allo sviluppo economico delle nascenti democrazie: aperture commerciali a Tunisia e Egitto, cancellazione di un miliardo di debito del Cairo e un piano di sviluppo redatto dall’Fmi che verrà approvato dal G8 della prossima settimana.
Aldo Baquis - " Netanyahu dice no: Sarebbe a rischio la nostra sicurezza "
Bibi Netanyahu Abu Mazen Hamas
Sorpresa e irrigidimento di Israele; apprezzamento dell’Anp; indignazione di Hamas: questi i sentimenti innescati dal presidente Barack Obama quando ieri ha enunciato la propria visione di pace in Medio Oriente basata sulla costituzione di uno Stato palestinese, indipendente e smilitarizzato, lungo le linee armistiziali in vigore fino alla guerra dei Sei giorni (1967), con scambi concordati di terreni con Israele.
Mentre il Presidente parlava, il premier Benyamin Netanyahu era in una saletta dell’aeroporto Ben Gurion (Tel Aviv) in partenza per Washington, dove oggi incontrerà Obama. Il discorso presidenziale a quanto pare lo ha colto di sorpresa, lo ha sbilanciato.
Poco prima del decollo Netanyahu ha polemizzato sia con Obama, sia con il presidente dell’Anp Abu Mazen. Al primo ha ricordato che nel 2004 il presidente
George Bush si era impegnato per iscritto con Ariel Sharon che gli Stati Uniti non avrebbero chiesto ad Israele un ritorno alle linee del 1967 «perché indifendibili». In quella lettera si esprimeva comprensione per la necessità di Israele di annettere, nel contesto di accordi di pace, alcune zone omogenee di insediamento in Cisgiordania a fini difensivi.
Il premier ha anche biasimato Abu Mazen per il suo recente accordo di riconciliazione con Hamas, «una organizzazione terroristica che punta alla distruzione di Israele». Secondo Netanyahu, Abu Mazen cerca di ottenere dall’Onu la proclamazione di uno Stato palestinese non a fini di pace, «ma al contrario per prolungare il conflitto».
Visto da Ramallah, il discorso di Obama invece è piaciuto. Hanno destato particolare emozione gli espliciti riferimenti americani alle linea del 1967, al concetto che «lo status quo non può durare all’infinito» e che i palestinesi hanno diritto a beneficiare di pace e giustizia. Perplessità è stata invece espressa per l’opposizione di Obama alla proclamazione all’Onu di uno Stato palestinese e per l’assenza nel discorso di un appello esplicito al congelamento degli insediamenti ebraici. Proprio ieri, mentre il Presidente parlava, il municipio di Gerusalemme ha autorizzato la costruzione di 1500 nuovi alloggi a Har Homa e Pisgat Zeev, due rioni ebraici che si trovano oltre le linee del 1967.
Da parte loro ai portavoce di Hamas sono bastati pochi minuti per stroncare l’intera visione di Obama «reo», ai loro occhi, di avere troppo a cuore le necessità di sicurezza di Israele. Ancora nei giorni scorsi un dirigente di Hamas, M a h m u d a-Zahar, ha stimato che i negoziati fra Anp e Israele sono del tutto futili e che l’unica opzione praticabile è quella della lotta armata a oltranza.
Malgrado la prima reazione irritata di Netanyahu e del suo entourage, il testo della Casa Bianca echeggiava diversi temi ricorrenti negli interventi del premier. Fra questi: la necessità di strette misure di sicurezza a difesa di Israele e di un ritiro solo graduale dalla Cisgiordania (dove abitano oltre 300 mila ebrei); l’opposizione alla proclamazione di uno Stato palestinese al di fuori di precise intese con Israele; il ritorno al tavolo dei negoziati; l’obbligo per Hamas di riconoscere Israele e dunque un atteggiamento di velato scetticismo (almeno in questa fase) verso gli accordi di riconciliazione palestinese.
Anche l’opzione di scambi di terreni, avanzata ieri da Obama, era già stata posta sul tavolo da Ehud Olmert. Lo stesso Netanyahu - che ieri ha ribadito la necessità per Israele di mantenere anche in futuro una presenza militare sul fiume Giordano - ha detto mercoledì alla Knesset, il parlamento israeliano, che Israele dovrà mantenere il controllo nelle zone omogenee di insediamento in Cisgiordania, ma ha lasciato intendere che per le colonie al di là della Barriera c’è di che parlare. Oggi, da Obama, Netanyahu cercherà di ribadire due concetti centrali: che i palestinesi devono riconoscere Israele come Stato ebraico (sbarrando definitivamente la possibilità di un ritorno in massa di profughi palestinesi) e che i futuri accordi di pace rappresenteranno la conclusione del conflitto. Senza questi pilastri essenziali, l’intero progetto di Obama rischia - secondo Israele - di restare sulla carta.
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