Il problema dei confini: realtà e sfide
di Mordechai Kedar
(traduzione di Angelo Pezzana)
Mordechai Kedar
Sono anni che leggo sui media internazionali, in special modo arabi, dei piani di invasione ai confini con Israele da parte dei rifugiati palestinesi da Gaza, Libano e Siria. Israele dovrebbe guardarsi dall'usare le armi contro gli invasori, scrivono, soprattutto se sono disarmati e non violenti. Ma finora questa realtà era solo un progetto.
La violenta contrapposizione della scorsa domenica ai confini israeliani è stata possibile grazie a diversi fattori, regionali e diplomatici.
Innanzi tutto grazie al progredire dello slogan "yes we can", credere che masse disarmate possono ribellarsi e sconfiggere i dittatori. Mettere innanzi il proprio corpo in segno di protesta è la nuova arma non convenzionale usata da giovani frustrati, disoccupati, uno strumento contro il quale il regime può trovarsi impotente. Tunisini, egiziani, yemeniti e siriani hanno usato e usano quest'arma contro i loro governanti. Adesso sono i palestinesi ad usarla contro Israele.
Il secondo fattore è rappresentato da Facebook e Twitter, attraverso i quali i manifestanti possono organizzarsi malgrado gli sforzi del regime di impedirlo, e dove le opposizioni possono mobilitare le masse senza il pericolo di rivelare le loro identità.
Il terzo fattore è il coinvolgimento di Siria e Libano nell'organizzazione degli attacchi ai confini con Israele, che non sarebbero stati possibili senza il loro consenso e relativo appoggio. Insieme, hanno cercato di trasferire su Israele i loro problemi interni, per allontanare l'attenzione delle televisioni da quanto accade in Siria, Libano e Gaza.
I siriani che abitano a Deraa urlavano davanti alle televisioni " speriamo che ci occupi Israele, perchè i militari siriani sono più crudeli dei soldati israeliani". Il regime siriano crede che i cadaveri vicino al confine israeliano faranno 'rinsavire' la popolazione di Deraa.
Il quarto elemento è il legame tra Siria, Libano e Gaza, e la loro connessione con l'Iran. Sono tre paesi sotto l'influenza degli ayatollah, e l'appuntamento del 15 maggio, la cosidetta naqba, è stata l'occasione migliore per attaccare Israele.
Ma non dobbiamo sottovalutare il fattore Israele, che ha un impatto importante verso il mondo arabo. Negli anni passati, gli arabi hanno capito che Israele, sotto pressioni internazionali, è disponibile a fare concessioni. Il Likud, che storicamente è sempre stato contrario ad uno stato palestinese, oggi ha cambiato idea. Gerusalemme città indivisa, una posizione che averva trovato sempre il consenso di tutti, è oggi oggetto di discussione. Persino il 'diritto' al ritorno dei rifugiati palestinesi - considerato politicamente da respingere in toto - oggi viene considerato da qualche politico della sinistra come argomento perlomeno oggetto di valutazione.
Quando i nemici di Israele si rendono conto che le pressioni internazionali funzionano e che la linea rossa da non oltrepassare si avvicina al colore bianco, spingono per ottenere nuove concessioni. Forti pressioni da parte dei rifugiati palestinesi, ad esempio, porteranno sicuramente molti israeliani su posizioni rinunciatarie.
L'immagine di Israele oggi, malgrado la seconda guerra del Libano del 2006 e l'operazione 'piombo fuso' a Gaza del 2008/9, è quella di uno stato debole, indeciso, uno stato che può essere scalfito dal rapporto Goldstone, uno stato dove il solo annuncio della costruzione di 1,600 case a Gerusalemme è sufficiente a sollevare le ire dell'inquilino della Casa Bianca. I paesi vicini sono certi che la società israeliana, almeno quella che vive stili di vita edonisti, pacifisti, post-sionisti di Tel Aviv, è pronta a svendere tutto quanto c'è di più sacro in cambio della pace nelle vie alla moda come Shenkin Street, avendo perduto la volontà di combattere.
Nello stesso tempo, agli occhi del mondo, Israele sta diventando uno stato infetto, grazie alla classica accusa antisemita amplificata dal senso di colpa dell'Europa per Shoah e colonialismo. Invece di battersi il petto, è più facile battere quello degli ebrei. Israele si aspetti quindi di veder arrivare nuovamente ondate di marciatori 'disarmati', una tecnica usata nella Libia di Gheddafi e nella Siria di Assad.
Gli scontri di domenica non saranno gli ultimi. Ce ne saranno altri. Ogni persona uccisa oggi, diventa il martire di domani, il cui funerale si trasformerà in protesta violenta, con nuove vittime, i martiri del giorno dopo. Israele deve soppesare con cura le proprie reazioni in questo nuovo confronto, deve essere diplomaticamente risoluta e militarmente decisa, ma anche sobria e misurata, un aumento significativo di vittime può solo esacerbare la situazione.
Da "BESA Center Perspectives Papers No. 139, May 17, 2011"
Mordechai Kedar fa parte del Centro Studi sul Medio Oriente e sull’Islam della Università Bar Ilan, Israele. Collabora a Informazione Corretta