Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/05/2011, a pag. 1-VI l'articolo di Luigi De Biase e Daniele Raineri dal titolo " Difesa dei civili, anzi, caccia al criminale. A che punto è la Libia ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 59, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " La Libia e la Siria, due pesi e due misure ", preceduta dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Luigi De Biase, Daniele Raineri : " Difesa dei civili, anzi, caccia al criminale. A che punto è la Libia"
Luigi De Biase, Daniele Raineri, Muhammar Gheddafi
Ocampo in campo. L’ultimo colpetto lo ha dato José Luis Moreno Ocampo, il procuratore generale della Corte dell’Aja, il tribunale che si occupa di crimini di guerra. Martedì pomeriggio ha chiesto un mandato di cattura per Muammar Gheddafi, per suo figlio Saif al Islam e per il capo dei servizi segreti della Libia, Abdullah al Senoussi. “Le prove dimostrano che Gheddafi ha personalmente ordinato attacchi contro civili libici inermi”, ha detto Ocampo, magistrato argentino di 59 anni, conosciuto per l’inchiesta contro il presidente del Sudan, Omar al Bashir. Sinora, la guerra di Libia si è retta sulla risoluzione Onu 1.973, che attribuisce agli alleati il compito di difendere i civili dagli attacchi dell’esercito regolare. Alcuni governi – soprattutto quelli di Russia e Cina – credono che le consegne siano state superate più di una volta, e citano i bombardamenti contro installazioni non militari avvenuti nelle ultime settimane a Tripoli. In uno di questi ha perso la vita anche un figlio del colonnello Gheddafi, Saif al Arab, che non aveva alcun incarico nell’esercito libico. Oggi gli alleati sanno che i raid aerei non bastano a sconfiggere le forze del rais: per questo, cercano di allargare i bordi del loro mandato attraverso il sostegno ai ribelli di Bengasi, che sono ormai considerati gli unici interlocutori credibili nel paese – si è parlato di fornire loro armi, di sicuro riceveranno aiuti finanziari. La richiesta di Ocampo offre la base per chiedere una risoluzione più profonda all’Onu e fa scivolare l’obiettivo di questa missione: dalla difesa dei civili alla fine di Gheddafi e del suo clan.
Perduti sulla via per Djerba. Un altro uomo di Gheddafi, il fedele ministro del Petrolio Shukri Ghanem, è scappato da Tripoli nel fine settimana, abbandonando così il clan del rais. Ghanem si aggiunge alla lista di ufficiali libici che hanno preferito l’esilio alla prospettiva di una fine poco gloriosa fra i palazzi della loro vecchia capitale. Prima di lui lo ha fatto anche l’ex ministro degli Esteri Musa Kusa, il mediatore che avrebbe dovuto guidare i colloqui di pace con i ribelli di Bengasi. Sia Kusa sia Ghanem hanno raggiunto Djerba, nella vicina Tunisia: secondo alcuni aveva il compito di trattare la resa del suo leader, ma qualcosa deve averlo convinto a cambiare opinione. Il ministro dell’Interno tunisino, Néji Zairi, ha annunciato in serata che Ghanem ha voluto prendere le distanze dal regime. Un portavoce del governo di Tripoli ha fatto sapere che la lotta contro i ribelli “non dipende dai singoli”, ma la tensione nei confronti dei vicini cresce giorni dopo giorno. Lungo la linea di confine con la Tunisia, alcuni paesi europei hanno già fissato strutture di accoglienza per i rifugiati e – forse – gruppi di specialisti pronti a intervenire, mentre Djerba è diventato il punto di passaggio per le trattative e gli scambi che stanno sgretolando il clan di Gheddafi.
Quattro razzi fuori controllo. Questo non significa che il colonnello si sia già arreso al destino. Nel messaggio alla nazione della scorsa settimana ha fatto sapere che si trova in un posto in cui “non può essere colpito”. La Farnesina sospetta che sia lontano da Tripoli, ma il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha detto ieri di non avere grandi indizi sul suo attuale rifugio. Nel pomeriggio, intanto, quattro razzi Grad di produzione russa sono caduti ieri sulla Tunisia, a pochi chilometri dal confine con la Libia. I razzi sono precipitati vicino al valico di Dehiba Wazin e non hanno fatto vittime. L’episodio mostra che i combattimenti a ovest di Tripoli stanno diventando più intensi. I ribelli e gli alleati stanno stringendo una tenaglia intorno alla capitale, attaccano da oriente e da occidente, ieri ci sarebbero stati scontri anche alla periferia di Tripoli. Non è un buon segno per Gheddafi.
Una notte a Tunisi. Per ora la Tunisia accetta la parte di vicino coscienzioso della Libia disastrata, offrendo rifugio ai profughi e occasioni d’incontro ai mediatori. Ma il paese sta per entrare – di nuovo – in una fase turbolenta d’instabilità. Il 24 luglio ci saranno le elezioni, e il partito in posizione migliore per affrontarle è Ennahda, il partito islamico, che ha alle spalle anni di esperienza semiclandestina, numerosi aderenti e un formidabile armamentario ideologico. Uno stratega elettorale della laica Alleanza repubblicana confida al New York Times di essere disperato. “Votare così presto è un favore a Ennahda e un suicidio per noi. Finiremo come in Iran”. Ennahda è più forte nell’interno, area di sentimenti religiosi più forti, mentre la costa è territorio dei lealisti dell’ex presidente Ben Ali, decisamente più indulgenti con la modernità. Lo scenario ricorda quello egiziano, dall’altra parte della Libia, oppure quello algerino degli anni Novanta. I militari si sono già fatti sorprendere a dire che in caso di vittoria islamista sarà necessario riprendere il potere con un golpe.
I tunnel segreti del rais. Quando a marzo i ribelli hanno preso il controllo della città di al Beida, hanno scoperto sotto il palazzo estivo del rais un complesso di tunnel e camere che gli inviati che hanno visitato definiscono “un bunker nucleare”. Nascosto dietro a cinque porte “d’acciaio spesso 18 centimetri”, il covo sotterraneo garantiva a Gheddafi un rifugio sicuro contro i bombardamenti ed era stato costruito, come notano gli abitanti, “tutto da stranieri, di noi non si fidava”. Secondo il Telegraph, una rete di tunnel simile ma più vasta permetterebbe a Gheddafi di spostarsi sotto Tripoli, tra alcuni punti chiave della città. Gli inviati occidentali raccontano che quando il rais è comparso per parlare davanti alle telecamere all’Hotel Rixos, nessuno lo ha visto arrivare, anche se l’albergo era circondato da giornalisti e curiosi fuori e dentro. Lo staff dell’hotel parla di un collegamento segreto tra la sala delle conferenze. Sul retro, una rampa vasta abbastanza per una macchina che sprofonda nel buio ha attirato l’attenzione degli inviati, ma le risposte sono state vaghe e implausibili. La Nato, interrogata sul punto, ha detto di essere a conoscenza della rete di passaggi perché è stata costruita da imprese occidentali.
La resa quotidiana. A meno che una bomba Nato non lo colga infine nel suo rifugio “irraggiungibile”, Muammar Gheddafi ha in mente una transizione graduale, non la resa defintiva di cui ogni giorno da due emsi si sente parlare, senza che si riesca a sapere se sia più vicina. Chi gli è vicino parla di un’ “uscita dignitosa”, vorrebbe diventare un padre della patria carismatico e ancora presente, sul modello dell’imperatore giapponese a Tokyo o del cubano Fidel Castro. Il che presuppone la divisione implicita del paese in due nuovi stati, la Cirenaica in mano al Consiglio dei ribelli – e con il petrolio – e la Tripolitania sotto i discendenti del rais – con alleanze africane e la capacità di creare problemi a tempo indeterminato.
Non è la Raf. La guerra in Libia s’inserisce nello psicodramma dei tagli alla Difesa in Gran Bretagna, che si sente ancora impero ma è costretta dai tempi austeri a spogliarsi della sua potenza militare. Questa settimana parecchio malumore è stato scatenato dalla notizia che sono gli americani a fornire la sicurezza dall’alto alle navi britanniche con uno dei loro aerei spia Orion, che vola sulla costa libica alla ricerca di potenziali minacce. Il punto è che a marzo Londra ha distrutto e trasformato in metallo di recupero nove aerei da sorveglianza Nimrod mai usati del valore di quattro miliardi di sterline, sono stati commissionati nel 1993 e sarebbero dovuti entrare in servizio il prossimo anno, nel 2012. “Il progetto era troppo costoso da ultimare e da mantenere, così abbiamo risparmiato due miliardi di sterline”, hanno detto al ministero della Difesa, “non potevamo nemmeno venderli, perché gli unici a comprarli sarebbero paesi che vorremmo non li avessero”. Doversi appoggiare agli americani, ora, brucia. Il senso di essere una potenza bellica in declino – che nei primi giorni di guerra ha quasi bruciato tutta la sua riserva di missili – attanaglia il pubblico inglese. E il fatto che un conflitto che doveva essere lampo non si sia ancora risolto peggiora di giorno in giorno la situazione.
I tentativi del Cremlino. Tuttavia, gli alleati sono ancora convinti che l’opzione militare sia quella più efficace per risolvere la crisi in Libia. La Russia, uno dei paesi più critici nei confronti di questa missione, ha cercato di raggiungere un compromesso con gli uomini di Gheddafi. Gli inviati del rais hanno raggiunto Mosca ieri, e hanno affermato di essere disposti ad accettare la fine delle ostilità – a patto che i bombardamenti finiscano subito. In questo modo, il Cremlino cerca di tutelare i suoi interessi a Tripoli e di evitare un nuovo scontro con l’occidente. La Russia non si è opposta alla risoluzione 1.973, ma si sente “imbrogliata” dalla campagna militare in corso. Una tregua ora potrebbe risparmiare uno scontro imminente all’Onu.
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " La Libia e la Siria, due pesi e due misure "
Un Sergio Romano stranamente equilibrato analizza le motivazioni che stanno alla base delle reazioni tiepide delle democrazie occidentali di fronte alla repressione delle manifestazioni in Siria.
In un articolo apparso sull’Economist viene citata la risposta di Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, circa il diverso atteggiamento di Usa e Nato nei confronti della crisi libica rispetto a quella siriana. Carney sottolinea le peculiarità della crisi libica spiegando come lo scenario di un imminente massacro abbia portato la comunità internazionale, inclusa la Lega Araba, a favorire un intervento militare. La logica sottostante l’intervento militare sembra dunque legittima, ma fa riflettere sulla sua mancanza di applicazione nel caso della Siria. Come spiega il fatto che i carri armati nelle piazze e le centinaia di manifestanti uccisi non abbiano ancora smosso la comunità internazionale ad andare oltre l’embargo sulla fornitura di armi o le blande misure restrittive contro alcune personalità del regime? Possiamo forse parlare di due pesi e due misure?
Daniele Susicky
daniele.susicky@gmail.com
Caro Susicky, N ella politica internazionale non esistono eguali pesi ed eguali misure per tutte le crisi che mettono in discussione gli equilibri di una regione. La coerenza a cui i governi devono ispirarsi non è quella degli argomenti, spesso adattati alle circostanze, ma quella degli interessi. Nel caso da lei prospettato, Libia e Siria hanno posto agli Stati Uniti e all’Europa problemi alquanto diversi. Nel caso della Libia è stato chiaro sin dalle prime manifestazioni contro Gheddafi che l’intervento occidentale non si sarebbe scontrato con l’esplicita opposizione dei Paesi arabi. Nel corso del suo lungo regno Gheddafi era riuscito a irritare quasi tutti i capi di Stato e di governo del Mediterraneo meridionale e non poteva contare in quel momento su alcun autorevole avvocato difensore. Persino la Lega Araba si dichiarò favorevole all’instaurazione di una zona d’interdizione al volo («no fly zone» ) nei cieli della Libia. Il caso della Siria è alquanto diverso. Il Paese della famiglia Assad ha uno Stato molto più complesso e raffinato della Libia tribale in cui Gheddafi ha instaurato il suo potere personale. In Siria esistono un partito politico (il Baath) che dispone di una ramificata rete nazionale; una minoranza religiosa (gli alauiti) che è da sempre una solida base del potere presidenziale e a cui appartengono quasi tutti gli ufficiali dell’esercito; una cerchia di imprenditori e finanzieri che devono la loro fortuna al regime. Certo la Siria non è una democrazia ed è tuttora governata con leggi d’emergenza che Basher Al Assad ha più volte promesso di abrogare. Ma appartiene, con Algeria, Marocco e Tunisia, a quel gruppo di Paesi arabi in cui i cristiani godono di maggiori diritti. Non è tutto. Mentre la Libia era isolata, la Siria è circondata da amici su cui può contare o che non hanno alcun interesse al brusco collasso del suo regime: l’Iran, Hezbollah in Libano, Hamas nella striscia di Gaza, la Turchia di Recep Erdogan al di là di una frontiera che si estende per 800 chilometri. Persino Israele, probabilmente, preferisce la Siria com’è piuttosto che un Paese in cui gli islamisti avrebbero una maggiore influenza. Fra i due Stati vi è una frontiera contestata (le alture del Golan), ma è una delle poche frontiere medio orientali in cui gli unici incidenti, da molti anni, siano quelli scoppiati negli scorsi giorni, vale a dire dopo l’inizio della crisi siriana. Queste sono alcune delle ragioni, caro Susicky, per cui l’Occidente non ha ritenuto opportuno fare alla Siria ciò che ha fatto alla Libia. La Nato sta già combattendo una guerra lunga e costosa che non sta dando i risultati desiderati. Perché dovrebbe farne un’altra?
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