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Il Foglio Rassegna Stampa
17.05.2011 Quando un avvocato ragiona nel modo giusto
Ritratto dell'avvocato Ben Brafman, di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 17 maggio 2011
Pagina: 5
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Ben Brafman, il piccolo re della 'celebrity justice' che proverà a salvare Strauss-Kahn»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/05/2011, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Ben Brafman, il piccolo re della 'celebrity justice' che proverà a salvare Strauss-Kahn ".


Giulio Meotti, Ben Brafman

Non entriamo nel merito della colpevolezza o meno di Dominique Strauss-Kahn, segnaliamo il ritratto che Giulio Meotti fa del suo avvocato, Ben Brafman e la frase con cui rifiutò di difendere Yasser Arafat dall'accusa di terrorismo: "Non sono la persona adatta, va difeso da qualcuno che nel proprio cuore non pensi che Arafat meriti di essere ucciso. Io lo penso”.
Ecco l'articolo:

Per spiegare la propria dimestichezza con i peggiori assistiti, Ben Brafman tira spesso in ballo la statura: “Io sono, letteralmente, terra-terra”. E’ lui il piccolo principe del foro americano che Dominique Strauss-Kahn ha scelto per difendersi dall’accusa di stupro di una cameriera d’albergo (per la legge americana rischia fino a venticinque anni di carcere). Se – come ha annunciato ieri Brafman – Strauss-Kahn si dichiarerà “innocente”, la procura distrettuale di Manhattan presenterà le prove preliminari a suo carico a porte chiuse a un Grand Jury. Se questo riterrà che gli indizi sono sufficienti, formalizzerà l’atto di accusa. Altrimenti potrà scegliere di non procedere. Non si conosce ancora la strategia difensiva di Brafman, ma si parla già di un alibi: l’economista francese avrebbe lasciato il Sofitel di New York un’ora prima della violenza. Brafman sarebbe al lavoro anche per dimostrare che la presunta vittima potesse avere degli “interessi materiali” nello sporgere denuncia. “Molte delle persone che vengono da me sono in situazioni veramente, veramente disperate”, ha detto Brafman, che il New York Magazine ha chiamato “piccolo grande uomo”, in omaggio alla perfidia legale con cui è riuscito a trarre d’impaccio personalità pubbliche spacciate in partenza con qualunque altro penalista. Brafman ama definirsi “l’ebreo basso”. Si dice che sia l’erede di quello straordinario avvocato che fu Johnnie Cochran, che ha evitato il patibolo a O. J. Simpson. L’esperto di legge della Cnn e del New Yorker, Jeffrey Tobin, ha definito Brafman “il miglior avvocato che abbia mai visto”. C’è un caso andato male nella sua impressionante lista di successi e non depone a favore di Strauss-Kahn. Si tratta di Richard Zinaman, dentista di Central Park West condannato per aver abusato sessualmente di tre pazienti. “Sono stato l’avvocato di Michael Jackson prima di tornare sulla terra”, ha detto Brafman sempre tirando in ballo l’altezza, dopo essere riuscito a far scagionare la pop star dalle accuse di pedofilia. Fu allora che Brafman si costruì la fama di re della “celebrity justice”. Il processo a Jackson era diventato la madre di tutti i processi al successo, all’arroganza del potere e al divismo. C’è l’imbarazzo della scelta nella lista di casi imbarazzanti per l’avvocato, da businessmen accusati di lavorare per il cartello di Cali a poliziotti accusati di razzismo e omicidio. Nello studio di Brafman c’è una fila di libri di memorie, come raccontò il New York Magazine in un gran ritratto, tutti scritti da suoi ex assistiti. I titoli parlano da soli: “Gangland”, “Mafia Cop”, “Last Days of the Sicilians” e “The Boys From New Jersey”. Brafman è riuscito a portare ad appena due anni la condanna in un caso disperato come Plaxico Burress, il campione di football americano che se ne andava in giro per locali con una pistola e che finì per spararsi a una gamba. Ha fatto addirittura scagionare il rapper Sean Combs, sebbene anche lui fosse entrato armato in un nightclub e si fosse messo a sparare in aria. In aula, Brafman ha esordito così: “Signori e signore della giuria, questo è Sean ‘Puff Daddy’ Combs. Potete chiamarlo Sean, potete chiamarlo Mr. Combs, potete chiamarlo Puff Daddy, o soltanto Puffy. Ma non potete chiamarlo colpevole”. In una recente intervista al sito lawline.com, Brafman ha detto che il suo obiettivo è “lasciare vivi e funzionanti i miei clienti quando tutto crolla attorno a loro”. E ancora: “Penso di aver salvato dal suicidio più gente io di ogni psichiatra sulla terra”. A chi lo accusa di difendere i peggiori, Brafman replica: “Chi dice così è perché non sa come difendere questa gente”. Brafman è anche l’unico avvocato d’America che salta le udienze quando arriva Shabbath, giorno sacro agli ebrei: “I principi del giudaismo che rispetto di più sono condividere i propri doni, dare alla gente il beneficio del dubbio e vivere con onestà. E’ più che sufficiente. Anche per un penalista. Non è sufficiente essere un buon cittadino rispettoso della legge, si deve essere giusti”. “Quando ho difeso con successo Puff Daddy, una delle più note celebrità del mondo dell’hip-hop, il verdetto è stato annunciato a New York in un tardo pomeriggio di venerdì (quando un ebreo ortodosso smette di lavorare e torna a casa, ndr). Shabbath si stava rapidamente avvicinando, così ho lasciato il palazzo di giustizia, dove centinaia di giornalisti aspettavano di discutere il verdetto. Ero molto consapevole del fatto che ogni parola che avrei detto sarebbe stata citata in tutto il mondo, ma anche ben consapevole che era già molto tardi”. Brafman ha guardato le decine di telecamere presenti e scandito: “E’ una vittoria incredibile, e io sono, ovviamente, molto felice per Puffy e la sua famiglia. Ma sto andando alla sinagoga, Shabbath è in arrivo!”. Quanto al suo metodo come avvocato, lo ha ben sintetizzato Paul Schechtman, veterano delle corti federali che ha avuto molte volte a che fare con l’avvocato: “Quello che fa Ben è avvolgere i clienti della propria stessa credibilità; i giurati arrivano alla conclusione che l’imputato non può essere così malvagio se Ben li difende” (New York magazine). Brafman è uno showman del foro, capacità che gli deriva dall’aver lavorato da giovanissimo come comico nelle feste di bar mitzvah, la cerimonia ebraica che segna la maturità religiosa. Figlio di sopravvissuti all’Olocausto, Brafman è cresciuto a Brooklyn e giurisprudenza non l’ha studiata ad Harvard, come il penalista Alan Dershowitz, ovvero nella più cara e prestigiosa facoltà di legge d’America. Brafman viene da una famiglia di ebrei poverissimi trapiantati in America da uno shtetl dell’est Europa. Così è finito alla Ohio Northern University Law School. E’ cresciuto in quella bomba multietnica che è il quartiere di Crown Heights, dove gli scontri fra ebrei, polacchi, irlandesi e afroamericani erano all’ordine del giorno: “I guai ti trovavano anche senza cercarli, così ho sviluppato una forza mentale”, ha detto Brafman. Sua madre, Rose, è fuggita dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti a soli sedici anni, l’unica a salvarsi della vastissima famiglia. Il padre, Sol, è fuggito da Vienna poco dopo la Kristallnacht, la “notte dei cristalli”. Sol ha sfamato la famiglia lavorando in una fabbrica di vestiti e Brafman ha dovuto iniziare presto a lavorare. Ad appena dieci anni puliva i tavoli di un vecchio albergo di Brooklyn. Anche la famiglia si è fatta la povertà. Con la moglie e i due figli Brafman all’inizio ha vissuto in un bilocale a Forest Hills, mentre oggi risiede in una lussuosa villa a Long Island. I detrattori, moltissimi da quando Brafman è diventato il più celebre penalista d’America, lo accusano di essere un cinico spietato, un “bastardo” che passa falsi leaks alla stampa per demolire gli avversari. Una corte lo ha riconosciuto colpevole di aver cercato in modo “scurrile” di danneggiare la credibilità dei testimoni. Altri lo accusano di lavorare sulla giuria per convincerla “che non c’è nulla di serio”. Quando aprì il suo studio a Manhattan, nel 1980, Brafman se ne andò in giro per gli studi legali ripetendo a tutti: “Se ci sono casi con cui non volete avere nulla a che fare, chiamatemi”. E si è fatto la fama di penalista in casi indifendibili. “Io e mia moglie andiamo avanti e indietro da Israele come la gente qui va nel New Jersey”, ha detto per spiegare il proprio attaccamento allo stato ebraico. Quando il Belgio minacciò di portare in giudizio il premier israeliano Ariel Sharon per “crimini di guerra”, Brafman si offrì di difenderlo: “Potrei vincere anche in coma, Sharon ha fatto quello che doveva per difendere il suo popolo”. E non certo spinto da una parcella milionaria, Brafman ha difeso gli ebrei di Hebron demonizzati dalla stampa liberal: “In ogni generazione ci sono quelli che hanno combattuto, nel ghetto di Varsavia, a Masada, e a Hebron, uno dei luoghi più santi del mondo”. Quando gli chiesero di difendere Yasser Arafat dall’accusa di terrorismo, Ben Brafman declinò così l’avventura garantista: “Non sono la persona adatta, va difeso da qualcuno che nel proprio cuore non pensi che Arafat meriti di essere ucciso. Io lo penso”.

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