Usa-Pakistan: i rapporti continuano a deteriorarsi Analisi di Luigi De Biase, Daniele Raineri, Pio Pompa, Maleeha Lodhi
Testata: Il Foglio Data: 13 maggio 2011 Pagina: 3 Autore: Daniele Raineri - Luigi De Biase - Pio Pompa - Redazione del Foglio Titolo: «Il raid contro Osama è l’inizio della guerra contro il Pakistan? - I segnali ignorati su Abbottabad - La versione di una dama pachistana»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/05/2011, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri, Luigi De Biase dal titolo " Il raid contro Osama è l’inizio della guerra contro il Pakistan? ", l'articolo di Pio Pompa dal titolo " I segnali ignorati su Abbottabad ", l'articolo dal titolo " La versione di una dama pachistana ". Ecco i pezzi:
Luigi De Biase - Daniele Raineri : " Il raid contro Osama è l’inizio della guerra contro il Pakistan? "
Luigi De Biase - Daniele Raineri
Dichiarazione di guerra ai generali. L’operazione per uccidere Bin Laden è l’assalto dell’America contro l’establishment militare pachistano, dice Vali Nasr, autore di analisi rispettatissime sulle relazioni tra Washington e i paesi islamici. Va bene il trionfo contro il responsabile dell’11 settembre, va bene la commemorazione a Ground Zero, va bene la “miniera d’oro” d’informazioni sui terroristi trovata fra le carte e gli hard disk, ma sono cose che appartengono al passato. La Casa Bianca guarda al Pakistan del presente come a un film horror: l’alleanza alla luce del sole tra intelligence e talebani, l’appoggio quasi ufficiale ai gruppi terroristi, i ministri cristiani ammazzati dalle proprie guardie del corpo. E’ cominciata una guerra di stoccate reciproche. Eccone quattro. La Casa Bianca ha confermato di avere voluto attaccare con ben 79 Navy Seal, perché potessero combattere contro le truppe pachistane che si fossero messe in mezzo. Islamabad ha replicato congelando le relazioni militari con gli americani in Afghanistan per due giorni e poi ha bruciato il nome del capo della Cia in Pakistan, per la seconda volta in cinque mesi – ma ha dato quello sbagliato: apposta? Al Congresso americano la discussione sugli aiuti al Pakistan – se sia urgente tagliarli – diventa da prima pagina. E Islamabad sta negando agli americani l’accesso alle mogli di Bin Laden, senza darne ragione.
Starà bruciando ancora più sigarette del solito e avrà due occhiaie ancora più livide l’eminenza grigia del Pakistan, il generale che governa la vita del paese, Ashfaq Pervez Kayani. Il suo esercito prima del raid di Abbottabad era l’istituzione più rispettata e potente, ora ha subito un’umiliazione irrimediabile. Elicotteri stranieri che volano fino a poca distanza dalla capitale e poi escono dallo spazio aereo senza essere intercettati? E se avessero occupato i siti nucleari? E se fossero stati elicotteri indiani, venuti a prendersi i responsabili dell’attacco di Mumbai? Il Pakistan ha l’ossessione della propria vulnerabilità, si sente una striscia sottile davanti al gigante indiano e ai suoi due milioni di carristi appena al di là del confine. E ora si è scoperto ancora più nudo di quanto credeva di essere. Per questo, la prima reazione, invece che d’imbarazzo per la villeggiatura di Osama, è stata un ultimatum agli Stati Uniti. Il generale avrebbe voluto tanto essere amico dell’America, dove ha pure fatto l’Accademia militare. Ma sente, dal fondo del suo pozzo di paranoie, che è meglio scommettere sulla vittoria finale dei cattivi, talebani in Afghanistan e guerriglia estremista in Kashmir, e sul disimpegno dei buoni, che tanto prima o poi se ne andranno. Ieri, le immagini da Kabul del presidente Hamid Karzai che stringeva la mano del premier indiano Manmohan Singh (che ha promesso 500 milioni di dollari di aiuti) gli avranno fatto salire la voglia di cento voltafaccia e di mille altri complotti. Il generale è ancora indeciso se sacrificare il suo sodale e capo dei servizi segreti, Ahmed Shuja Pasha. Se lo facesse, sarebbe come ammettere che l’Isi è stato come minimo inefficiente sulla presenza di Bin Laden.
Il Parlamento prega per Bin Laden. Persino Imran Khan, una leggenda del cricket prestata alla politica, pensa che sia il momento di rivedere i rapporti con Washington. “La più grande lezione è che dobbiamo camminare sulle nostre gambe – ha detto Khan dopo l’uccisione di Bin Laden – D’ora in avanti dovremmo r i f i u t a r e ogni aiuto americano, anche quelli economici”. Khan non ha la fama dell’estremista, ha una moglie che ama la moda ed è popolare nel Punjab, la regione più ricca e più moderna del Pakistan, per questo le sue parole sono il metro migliore per capire che cosa accade oggi a Islamabad. Le fazioni sono due: ci sono quelli contrari ai rapporti con Washington e quelli molto contrari. Il numero due del Parlamento, Maulvi Asmatullah, ha organizzato una preghiera per ricordare Bin Laden, e il capo del governo, Yousuf Raza Gilani, ha dovuto affrontare critiche e proteste quando ha detto che il raid di Abbottabad “non alienerà” le relazioni con l’America.
Nello stomaco dell’Isi. Il premier Gilani, ha ribadito in settimana che il paese non aveva alcuna informazione sul rifugio di Bin Laden, e ha escluso che i suoi servizi segreti (Isi) sapessero del raid contro il leader di al Qaida. Il presidente della Repubblica, Asif Ali Zardari, è categorico sul primo punto ma pare meno sicuro del secondo. Barack Obama ha fatto capire di avere deciso l’operazione Geronimo senza consultare Islamabad. A dodici giorni dagli spari nella villa di Abbottabad, nessuno è ancora riuscito a spiegare se l’Isi conoscesse il rifugio di Osama o i piani americani. Il comandante dell’agenzia, Ahmed Shuja Pasha, incontra regolarmente i colleghi della Cia, ma fra i suoi uomini ci sono centinaia di ufficiali che coltivano sentimenti anti indiani e anti americani. L’Isi non ha una struttura unitaria ed è conosciuto soprattutto per gli intrighi, per i contatti con i ribelli pashtun che si muovono lungo la frontiera afghana e per il sostegno a numerosi gruppi armati della regione – nel 2008 ha fornito supporto all’attacco a Mumbai, nel quale furono uccise oltre 160 persone. Il vero problema di Shuja Pasha è la guerra sporca contro il grande nemico del Pakistan, che non è al Qaida bensì l’India. Quello è il punto fermo intorno al quale ruotano tutte le altre decisioni: è così che si comprendono i rapporti con i talebani, alleati preziosi nel caso di una guerra contro l’India, e i continui tentativi di tenere Nuova Delhi sotto pressione. Neppure l’eventuale via libera al raid di Abbottabad – se mai fosse arrivato – sfuggirebbe a questa logica. Navy Seal contro Guardia Nera. Non era mai successo che un raid americano arrivasse così in profondità dentro il Pakistan. Ma il gioco delle verginelle scandalizzate dalla “violazione di sovranità di uno stato alleato” non regge, perché negli anni passati ci sono stati altri raid americani – a cui non si diede troppa pubblicità, ma l’informazione circolava liberamente. Nel gennaio 2006 squadre speciali americane attaccarono con gli elicotteri il campo della cosiddetta Guardia Nera, il corpo internazionale di pretoriani di Bin Laden, a Danda Saidgai, in montagna, ma il capo non era più con loro (era, sappiamo adesso, già a guardare la televisione con le finestre oscurate da tappeti nel rifugio civilizzato di Abbottabad). Le squadre erano guidate dall’allora sconosciuto generale Stanley Mc- Chrystal, poi asceso per poco agli onori della cronaca come comandante in Afghanistan prima di essere dimesso per colpa di un articolo pubblicato su Rolling Stone. McChrystal aveva l’autorità di decidere anche da solo un raid dentro il Pakistan in caso di obiettivi grossi grazie a un ordine esecutivo, l’“al Qaida Network Exord”, firmato da George W. Bush. Lo stesso mese, i droni americani hanno mancato per un soffio il numero due di al Qaida, l’egiziano al Zawahiri, nel villaggio di montagna di Damadola, nell’agenzia federale del Bajaur. Era appena finita una cena-riunione ad alto livello, furono uccisi cinque capi dell’organizzazione. Rumors d’intelligence dicono che oltre alle squadre speciali d’osservatori pachistani, i cosiddetti “Gruppi ragno”, sul posto fossero presenti anche osservatori americani per guidare i missili.
Un elicottero invisibile. Per adesso la crisi fra gli Stati Uniti e il Pakistan si muove sul piano della diplomazia, ma rischia di avere conseguenze militari. Il raid di Abbottabad è costato ai Navy Seal un elicottero, che è precipitato nel corso dell’operazione ed è stato distrutto, come richiedono le procedure, prima di lasciare la zona. Le fotografie dei resti, in particolare quelle dell’elica, sono finite su tutti i giornali e hanno alimentato per giorni le speculazioni di molti esperti, che ritenevano di avere di fronte i resti di un nuovo velivolo fantasma. Alcuni analisti hanno concluso che l’elicottero era in realtà una versione modificata del classico Blackhawk, lo stesso usato in un celebre film di Ridley Scott, “Black Hawk Down” – il che significa niente segreti indecifrabili. Eppure, nei giorni scorsi, si è diffusa la voce che i Servizi pachistani avessero intenzione di cedere i resti dell’elicottero all’esercito cinese, ansioso di colmare in fretta il ritardo tecnologico che lo separa dagli Stati Uniti. A Pechino hanno sempre mostrato grande curiosità per le armi americane: pare che la carcassa di un F-117 abbattuto in Serbia durante la Guerra dei Balcani fosse custodito nelle stanze dell’ambasciata cinese di Belgrado, la stessa che fu bombardata “per errore” dai caccia della Nato nello stesso conflitto. Il Pakistan ha già fatto un favore simile alla Cina in passato, come dice un senatore americano, Dana Rohrabacher. Nel 1998 passarono ai vicini un missile Tomahawk che era stato recuperato dai talebani, i cinesi lo smembrarono e lo ricomposero pazientemente per individuare ogni suo punto di forza e ogni debolezza. Per fermare le voci sul nuovo scambio è dovuto intervenire niente meno che l’ambasciatore pachistano a Washington, Husain Haqqani, secondo il quale il governo di Islamabad “non ha intenzione di condividere alcuna tecnologia con i cinesi, e i cinesi non hanno avanzato alcuna richiesta in proposito”.
Il timore più grande è che le forze speciali americane prima o poi prendano in custodia non terroristi, ma l’arsenale atomico del Pakistan. La diffidenza non è cominciata la scorsa settimana, dopo la notizia della morte di Bin Laden. Gli Stati Uniti non hanno mai nascosto i dubbi sul paese, considerato un partner decisivo ma anche temibile per le sue armi nucleari. Il programma atomico di Islamabad è cominciato negli anni Settanta grazie ad Abdul Qadeer Khan, che ha venduto i suoi segreti dalla Corea del nord all’Iran. Oggi il paese ha almeno cento testate e un timore spaventoso: quello di restare senza il proprio arsenale, una circostanza che interromperebbe l’equilibrio di forze con l’arcinemico India.
Pio Pompa : " I segnali ignorati su Abbottabad "
Pio Pompa
Può essere definita singolare la richiesta avanzata da Barack Obama di un’inchiesta, affidata al governo pachistano, sul fatto che ci sia stato “un qualche tipo di sostegno a Bin Laden all’interno del Pakistan” e per accertare “da chi e da che cosa questa rete di sostegno fosse composta”. Washington è da lungo tempo al corrente, anche sulla scorta di report provenienti da diversi servizi di intelligence collegati, sulla consistente presenza di elementi filotalebani nelle varie articolazioni degli apparati di sicurezza pachistani, compresi i loro vertici, e a partire dall’Isi. Una realtà, questa, di certo non incidentale e tanto meno riconducibile alla sola circostanza delle oggettive connivenze e coperture che hanno consentito a Bin Laden di trovare rifugio ad Abbottabad. Il compound era già indicato, nei rapporti di intelligence, come una delle tante “case sicure” approntate dall’Isi, per nascondere terroristi attraverso cui mantenere contatti segreti con importanti esponenti talebani e i corrieri qaidisti impegnati nella diffusione delle direttive indirizzate ai nuclei jihadisti attivi in altri teatri di crisi. Ma l’aspetto più delicato attiene alle informative Humint (Human Intelligence), fornite e / o riscontrate da taluni servizi collegati dal 2005 in poi, secondo cui il capo di al Qaida potesse nascondersi in una delle “case sicure” dell’Isi dislocate nell’hinterland di Islamabad e, in particolare, in alcune città satellite, compresa Abbottabad. I report in questione non hanno avuto alcun seguito, colpiti dal combinato disposto di un incomprensibile scetticismo e dall’ostinazione in ricerche senza esito in assenza delle quali, forse, la cattura di Bin Laden avrebbe potuto arrivare prima. Ne discende un quadro controverso che non attiene soltanto al governo pachistano ma anche alle dinamiche che hanno attraversato l’intelligence statunitense sulle quali dovranno attentamente riflettere Obama e il successore di Leon Panetta, David Petraeus, per consolidare l’opera di annientamento di al Qaida.
" La versione diuna dama pachistana "
Maleeha Lodhi, ex ambasciatrice pachistana a Washington
Londra. “In passato i rapporti fra Islamabad e Washington hanno subito alti e bassi, a seconda della percezione americana della nostra potenziale utilità nei loro interessi. Mai come ora ci sono stati scambi tanto furiosi, a tutti i livelli, accompagnati da una pessima impressione reciproca”. Così parla Maleeha Lodhi, ex ambasciatrice pachistana a Washington e Alto commissario a Londra sotto tre governi diversi, una delle voci più ascoltate nella diplomazia internazionale (nel 1994 è stata nominata da Time tra le cento persone più influenti del pianeta). Prima donna direttrice in Asia di un quotidiano importante (The Muslim), seguito da The News, Lodhi è ora special advisor di due enti importanti, lo Jang Group e le reti tv della Geo. Di passaggio a Londra alcuni giorni fa, ha presentato all’International institute for strategic studies il suo ultimo libro, “Pakistan: Beyond the ‘Crisis State’”. Lodhi fa del suo meglio per ridimensionare “tutti i luoghi comuni sul vero stato del Pakistan”, ammette la cronica debolezza e corruzione della classe dirigente politica e amministrativa, rivendica “le magnifiche forze della società civile che, insieme a una delle realtà mediatiche più originali e combattive in Asia, riescono a dare un dinamismo e una varietà al dibattito pubblico su ogni argomento”. Autodefinendosi “agguerrita terzomondista”, Lodhi considera tutti gli aiuti stranieri un “malcelato tentativo di comprarsi l’influenza politica”. Senza condannare troppo Barack Obama per il raid ad Abbottabad, rivendica orgogliosa “la sovranità territoriale indiscutibile”, evitando però di parlare del ruolo giocato dalle varie correnti dei servizi segreti di Islamabad. Ineggiando a Pechino quale “nostro unico vero amico internazionale, che non interferisce nei nostri affari”, definisce Londra (che pure fornisce diversi miliardi di sterline in aiuti) “una voce ormai del tutto irrilevante”, mentre crede che la morte di Osama possa essere lo “spartiacque” con cui i rapporti con Washington e Kabul possano essere “resettati”, in modo da essere trattati “da veri partner, senza ingerenze né sotterfugi”.
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