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Il Foglio Rassegna Stampa
10.05.2011 Il ruolo dell'Iran nella repressione in Siria
analisi di Carlo Panella, redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 10 maggio 2011
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella - La redazione del Foglio
Titolo: «L’Iran aiuta la Siria a schiacciare la rivolta, ma l’ispirazione è Pinochet - Hillary, ma che stai a di’ sulla 'svolta riformista' della Siria?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/05/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "  L’Iran aiuta la Siria a schiacciare la rivolta, ma l’ispirazione è Pinochet", a pag. 3, l'articolo dal titolo " Hillary, ma che stai a di’ sulla 'svolta riformista' della Siria? ".
Ecco i due pezzi:

Carlo Panella - " L’Iran aiuta la Siria a schiacciare la rivolta, ma l’ispirazione è Pinochet "


Carlo Panella

Roma. La notizia del forte appoggio da parte dell’Iran alle milizie siriane che stanno reprimendo il contagio della rivolta araba, anticipata a marzo da fonti giornalistiche, è stata confermata ieri al Time da un ambasciatore occidentale a Damasco: “Sappiamo per certo che stanno garantendo loro addestramento e armi; è probabile che anche Hezbollah collabori perché teme che venga meno il suo principale fornitore; registriamo un consistente aumento del numero di agenti iraniani inviati in Siria dall’inizio delle proteste, lo scorso marzo, ed è seguito un maggior ricorso a retate casa per casa e ad arresti di massa, simili a quelli avvenuti in Iran durante l’Onda verde del 2009”. L’apporto dell’esperienza pluridecennale dei quadri militari del regime degli ayatollah nel reprimere i movimenti di opposizione, aggiornati con metodi più scientifici e moderni sperimentati nella riuscita repressione del movimento di protesta nel 2009, spiega la grande differenza dello scenario siriano di oggi rispetto a quello delle rivolte della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen e della Libia dei mesi scorsi. Non soltanto le usuali maniere forti, sparatorie ad alzo zero e cecchini sui tetti contro i manifestanti nelle strade e nelle piazze, non soltanto occupazione delle città con consistenti reparti di carri armati e blindati, ma anche la novità dei rastrellamenti quartiere per quartiere e casa per casa, delle torture sistematiche ai manifestanti feriti ricoverati negli ospedali per farsi rivelare le liste degli oppositori, dell’assedio militare alle città con sospensione di tutte le forniture di acqua, energia elettrica e anche viveri. Oggi, infine, la novità dell’ammassamento di centinaia di rastrellati e arrestati negli stadi: come nel Cile di Pinochet. Un contesto ben più drammatico e feroce di quello libico che a febbraio ha provocato la reazione della comunità internazionale e dell’Onu, di cui peraltro non esisteva alcun riscontro obiettivo tranne i proclami retorici di al Jazeera, senza immagini, mentre invece sono ormai copiose le immagini di sparatorie, morti e incidenti provenienti dalla Siria. L’asse Damasco-Teheran, che si è consolidato e integrato sotto il profilo militare durante la guerra Iran-Iraq tra il 1980 e il 1988, oggi è saldamente presidiato e difeso dai “consiglieri” pasdaran perché la possibile caduta del regime di Bashar el Assad costituirebbe un vulnus esiziale per la Repubblica islamica, che infatti definisce le manifestazioni in corso in Siria “un complotto dell’occidente”. A Damasco hanno sede e centrale operativa tutti i gruppi della grande galassia terrorista ed estremista che fanno capo o sono appoggiati dal regime iraniano (Hamas, Fplp, Fdlp, Jihad islamico e Hezbollah) e soprattutto ha sede la centrale operativa dei Pasdaran per le azioni terroristiche all’estero e delle operazioni clandestine. Senza la collaborazione di un governo amico e confinante come è quello siriano, l’Iran non potrebbe organizzare le “triangolazioni”, soprattutto quelle con l’alleato venezuelano Hugo Chávez, che gli sono indispensabili sia per aggirare le sanzioni economiche deliberate dall’Onu, sia per far transitare stock clandestini di uranio e componenti missilistici dalla Corea del nord, vuoi per smistare i consistenti armamenti forniti a Hamas e Hezbollah. In questo contesto, l’interesse dei Pasdaran iraniani a sedare la ribellione di Latakia è totale: il 2 marzo scorso infatti, Mahmoud Ahmadinejad e Bashar el Assad hanno firmato il protocollo che avvia i lavori, subito iniziati, per trasformarne il porto in una grande base militare per la marina iraniana, in grado di ospitare navi da guerra, sommergibili e batterie lanciamissili antinave e antiaeree. Secondo l’intelligence israeliana, che ha denunciato l’accordo, all’interno della base troveranno posto anche un migliaio di uomini del corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniana. Proprio a Latakia erano dirette le due navi militari iraniane che a fine marzo – con grande clamore internazionale – hanno passato il Canale di Suez per dirigersi nel Mediterraneo. Il fatto ulteriormente preoccupante è che la base iraniana nel porto di Latakia sarà adiacente alla base militare russa che lo stesso Bashar el Assad ha concordato di costruire – e i cui lavori sono già iniziati –- durante il viaggio di Dmitri Medvedev a Damasco (il primo di un premier “sovietico- russo” nella storia) il 10 maggio scorso. Sempre più preoccupanti intanto le notizie che le organizzazioni per i diritti umani riescono a veicolare fuori dalla Siria tramite Internet: a Homs, dove è in corso un rastrellamento dei quartieri, mentre il centro è presidiato da otto carri armati e tutti i negozi e le banche sono chiusi per ordine del governo, ci sono stati ieri 12 morti. Sempre a Homs è stato tratto in arresto e condotto in prigione un ragazzino di dieci anni. Tecnica appresa anche questa dai “consiglieri” iraniani per indurre i genitori a collaborare e a tradire eventuali amici tra gli oppositori. Incidenti ieri nel quartiere di Muadamiya a Damasco, in cui osservatori riferiscono che sono stati sentiti spari contro i manifestanti ma di cui non si può sapere di più perché l’esercito ha tagliato le linee telefoniche via filo e via cellula. A Deraa, città che guida la rivolta da sei settimane, un altro attivista ha riferito di “tantissimi arresti arbitrari nei giorni scorsi; ora le forze di sicurezza usano le scuole e lo stadio come prigioni a cielo aperto”.

" Hillary, ma che stai a di’ sulla 'svolta riformista' della Siria? "


Hillary Clinton, Bashar al Assad

Roma. Hillary Clinton ha sbagliato clamorosamente la sua analisi a fronte della rivolta in Tunisia, tanto che il 17 gennaio disse che gli Stati Uniti “non prendono posizione” nel conflitto tra i manifestanti e il regime tunisino, come quando, poche settimane dopo, con Ben Ali già in esilio, a fronte delle prime proteste di piazza Tahrir, ha definito Hosni Mubarak: “Un caro amico di famiglia”. L’impeto inaspettato della rivolta araba ha preso di sorpresa tutti gli analisti, e può sicuramente essere preso a scusante per gli svarioni. Ma ormai sono passati mesi, le dinamiche del sommovimento nei paesi arabi sono ormai chiare e il capo della diplomazia americana, quantomeno, dovrebbe avere compreso che è meglio essere prudenti, molto prudenti a fronte della ribellione che ora sconvolge la Siria. Invece, domenica, in contemporanea con la notizia che la vittima tima numero 800 degli scherani siriani era un bambino di 12 anni, selvaggiamente picchiato dai sicari del regime, la Clinton, intervistata da Lucia Annunziata, si è avventurata in affermazioni sconcertanti: “Non abbiamo dati certi, ma sappiamo che la Siria può ancora varare riforme; nessuno invece credeva che Gheddafi lo avrebbe fatto; la gente ritiene ci sia un percorso possibile con la Siria, per questo continuiamo insieme ai nostri alleati a fare pressioni”. Si può comprendere che la Clinton intenda difendere oggi la decisione di partecipare alla guerra in Libia, contro il regime di Muammar Gheddafi. E anche che abbia difficoltà a smentire la “nuova” strategia dei Democratici nei confronti della Siria. Ma non dovrebbe perdere il contatto con la realtà. Punto cruciale delle critiche rivolte sin dal 2007 dall’opposizione all’Amministrazione Bush, che aveva interrotto nel 2005 le relazioni diplomatiche con Damasco, era proprio la circa il potenziale “riformismo” di Bashar el Assad. “Riformismo” su cui i Democratici intendevano puntare per incrinarne l’alleanza con l’Iran, differenziandosi così dall’approccio frontale seguito da George W. Bush. Una divaricazione di strategie che ebbe la sua prima, clamorosa, sortita col viaggio che Nancy Pelosi, allora presidente della Camera dei rappresentanti, effettuò a Damasco il 4 aprile 2007. In aperta e inusuale polemica con la politica estera dell’Amministrazione in carica, la Pelosi accreditò in quell’occasione il dittatore siriano come interlocutore affidabile. Molte sono state in seguito le visite a Damasco di esponenti democratici, e molti gli appelli di Hillary Clinton perché la Siria si allontanasse dall’Iran. Invano. Seguendo sempre questa strategia, Barack Obama ha riaperto il 17 gennaio con Robert Ford l’ambasciata di Damasco. Mossa avventata, a poche settimane dal contagio della rivolta araba alla Siria. Il fatto è, infatti, che a tutte queste aperture e appelli non è mai seguito nessun riscontro, tanto che il 25 febbraio 2010 Mahmoud Ahmadinejad e Bashar el Assad tennero una conferenza congiunta in cui fecero più volte ridere i giornalisti siriani e iraniani presenti dileggiando con sarcasmo il segretario di stato americano: “Hillary Clinton ci chiede di aumentare la distanza tra i nostri due paesi, ma questo è impossibile, perché tra Siria e Iran non c’è alcuna distanza!”. Peraltro, non è alle viste nessuna delle riforme promesse dal dittatore siriano e da lui ribadite in più discorsi televisivi nei primi giorni della rivolta di Deraa. L’unico provvedimento preso è stata l’abolizione delle leggi di emergenza in vigore dal 1963. Subito però seguita dalla applicazione della legge marziale, dalla messa sotto assedio con i carri armati e col taglio di acqua, luce, telefoni e viveri delle città ribelli.

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