Egitto, un luogo pericoloso per i cristiani Commenti di Redazione del Foglio, Vittorio Emanuele Parsi, Alberto Negri
Testata:Il Foglio - Avvenire - Il Sole 24 Ore Autore: Redazione del Foglio - Vittorio Emanuele Parsi - Alberto Negri Titolo: «Cosa accade ai cristiani nell’Egitto eccitato dall’islamismo - Nell'Egitto post-Mubarak il rischio dell'uniformità intollerante - L'illusione democratica della primavera araba»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/05/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Cosa accade ai cristiani nell’Egitto eccitato dall’islamismo ". Da AVVENIRE, a pag. 2, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Nell'Egitto post-Mubarak il rischio dell'uniformità intollerante" . Dal SOLE 24 ORE, a pag. 17, l'articolo di Alberto Negri dal titolo " L'illusione democratica della primavera araba ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Cosa accade ai cristiani nell’Egitto eccitato dall’islamismo "
Roma. “Senza la mano pesante di Mubarak, l’anomisità settaria a lungo repressa è esplosa con ferocia crescente”, ha commentato il New York Times sull’ultima tornata di attacchi ai cristiani d’Egitto che ha lasciato dodici morti. Nel 1911, con l’assassinio dell’allora primo ministro egiziano, il cristiano Botrous Ghali Pasha, i copti chiesero la fine delle discriminazioni. E’ passato un secolo e le violenze fra musulmani e cristiani hanno sempre continuato a dominare l’Egitto. Venerdì scorso, il Foglio aveva scritto che per la prima volta il Congresso degli Stati Uniti ha inserito il Cairo fra i paesi persecutori dei cristiani, al pari di Iran e Arabia Saudita. “La violenza anticristiana pone dubbi sulla transizione egiziana alla democrazia”, ha scandito il Los Angeles Times. E l’analista di medio oriente Barry Rubin scrive che “i cristiani egiziani sono destinati all’estinzione”. I disordini di domenica sono avvenuti nel quartiere di Imbaba, lo stesso in cui si sono recati i dirigenti dei Fratelli musulmani per annunciare che avrebbero imposto la sharia una volta saliti al potere per vie democratiche. “L’odio non è nuovo, ma prima i salafiti avevano paura della polizia di Mubarak”, ha detto l’esponente copto David Saleeb. Uno dei maggiori giornali egiziani, Al Masri Al Youm, scrive che dalla caduta di Mubarak è aumentato l’esilio di cristiani. “Siamo alla svolta, i cristiani hanno paura dei fanatici nelle moschee”, dice Naguib Gabriel dell’Egyptian Federation of Human Rights. Rafic Greiche, capo ufficio stampa della chiesa cattolica egiziana, dichiara che da mesi i leader musulmani lanciano ogni giorno messaggi di propaganda contro i cristiani su tv, giornali e Internet: “I leader islamici definiscono i cristiani ‘infedeli’”. Durante il referendum costituzionale la Euhro, ong attiva nel monitoraggio elettorale, aveva segnalato che nei seggi le sezioni erano divise fra cristiani e musulmani. I Fratelli musulmani avevano annunciato che chi era per votare per il “sì”, stava con l’islam e contro i cristiani, che invece volevano la cancellazione della sharia come fonte di legge. I copti avevano risposto marciando al grido di “civil!” “civil!”, a voler testimoniare la necessità di difendere lo stato dal settarismo islamista. Nel villaggio di Soul, una giovane musulmana aveva “confessato” alla famiglia di essere innamorata di un cristiano. Il padre della ragazza si era rifiutato di uccidere il giovane copto, come prevedeva la sharia. Così il ragazzo è stato ucciso da un cugino. Poi dodicimila copti sono stati costretti a barricarsi nelle case, mentre veniva bruciata la chiesa. Il regime militare ha dovuto annullare la nomina di un governatore cristiano a Qena, la città dove gli islamisti hanno tagliato l’orecchio a un cristiano, Ayman Anwar Mitri. Funzionario di un istituto universitario locale, Mitri aveva affittato un appartamento a due sorelle musulmane. Dopo nove mesi, ha appreso che le due donne erano state accusate di prostituzione. Gli islamisti l’hanno fatto inginocchiare e gli hanno tagliato l’orecchio. “Abbiamo applicato la sharia”, hanno dichiarato all’arrivo della polizia. Il governatore cristiano della provincia di Qena, Emad Mikhail, è stato assalito al grido di “maiale infedele”. Un prete copto è stato ucciso ad Assiut al grido di “Allahu akbar”. Il 23 marzo islamisti hanno circondato la chiesa di San Giorgio e ottenuto la sospensione della costruzione di una nuova ala dell’edificio (una fatwa dei Fratelli musulmani dichiara “illegittima” la costruzione di nuove chiese). Il 28 marzo c’è stato l’attacco al negozio di liquori di Kasr El Bassil di proprietà di copti. Il 5 aprile poi l’assalto alla chiesa di San Giovanni a Kamadeer in corso di ristrutturazione. L’11 aprile lo sceicco jihadista Al Khatib Al Baghdadi ha emesso una fatwa che dichiara “lecito” lo stillicidio di sangue cristiano.
L’ennesima violenza perpetrata contro i copti in Egitto ci ricorda una cosa molto semplice: è ancora lunga la strada per l'affermazione della democrazia nel mondo arabo e più in generale dove l'islam è religione ampiamente maggioritaria. Gli eventi rivoluzionari dei mesi scorsi, che hanno scosso il Maghreb da un torpore pluridecennale, restano evidentemente segnali incoraggianti per una possibile convergenza intorno ad alcuni principi politici universali tra le due sponde del Mediterraneo, che sarebbe sbagliato sottovalutare. Ma i nuovi attacchi contro i cristiani verificatisi nelle scorse ore forniscono importanti indicazioni su come il processo di avvicinamento tra queste due realtà resti accidentato e per nulla scontato. In particolare, emergono due elementi. Sul lato della domanda politica, occorre rilevare come la richiesta di uniformità, la diffidenza verso ciò che è avvertito come estraneo e diverso — contro la quale ha ammonito il Papa a Venezia domenica scorsa — è purtroppo un atteggiamento che non conosce frontiere di appartenenza etnica o religiosa. Ogni volta che una parte più o meno rilevante di una società si avverte minacciata o a rischio, la probabilità che la richiesta di uniformità (siamo uguali perché non presentiamo differenze) prenda il posto della richiesta di conformità (siamo uguali perché obbediamo alle medesime leggi) diventa più elevata. Ciò risulta particolarmente vero per quelle società che siano state a lungo espropriate della propria sovranità e sottoposte a un regime autoritario, e che difficilmente possono vedere nelle leggi qualcosa di diverso dallo stipite del privilegio: le leggi non si applicano agli eletti' , a chi ha relazioni importanti (per i quali vige la legge privata, il privilegio) ma solo alle moltitudini. Così, quando il regime crolla, difficile stupirsi che quelle moltitudini siano insensibili a un messaggio che le inviti a uniformare il mondo a chi si percepisce come una maggioranza che finalmente può divenire totalità. Questa tendenza, intollerante e insieme impaurita, può più o meno facilmente essere corretta o invece venire alimentata in funzione dell'offerta politica che incontra, ed è questo il secondo elemento critico. Dopo la caduta del regime di Mubarak, in Egitto tale offerta risulta essere ancora estremamente confusa. Da un lato, abbiamo l'esercito, che pero appare sempre più frammentato a mano a mano che il mantenimento complessivo delle sue posizioni privilegiate di potere, prestigio e benessere si fa più complicato. Dall'altro, troviamo i Fratelli musulmani, la cui azione politica è sempre meno timidamente protesa alla conquista del centro del potere, anche a costo di venire a patti con una frazione dell'establishment militare, e che sembrano semmai inclini a un corporativismo inclusivo, piuttosto che a una democrazia di ispirazione anche solo vagamente liberale. Questa inclinazione implica che, nei confronti dei gruppi di interesse e le associazioni professionali, possa essere perseguita una certa dialettica, volta ad assicurare quelle alleanze necessarie alla conquista delle istituzioni politiche dello Stato: a condizione però che i possibili accordi non tocchino il nocciolo identitario" del movimento, che nel caso dei Fratelli musulmani si colloca non tanto nel campo politico, quanto in quello religioso o, per meglio dire, di una certa interpretazione del religioso applicato alla società. In uno scenario politico caratterizzato da incertezza e dinamismo, tipico di tutte le fasi più o meno schiettamente rivoluzionarie, gli accordi tra i soggetti politici e i loro potenziali alleati è molto probabile che avvengano a spese degli interlocutori più deboli: ovvero di quelli che, per caratteristiche che gli sono propone o che gli vengono ascritte, sono più difficilmente integrabili dai soggetti che aspirano a spartirsi l'egemonia nel nuovo sistema politico. E questo rende oggi la posizione dei copti in Egitto estremamente vulnerabile. In una simile temperie, non stupisce, dolorosamente, che la tutela della vasta e originaria minoranza cristiana non rappresenti una priorità per le autorità di transizione egiziane, probabilmente anche attente ad accreditarsi verso un movimento che aspira a una neoislamizzazione dello spazio pubblico. Non stupisce ma, evidentemente, non è per questo meno inaccettabile.
Il SOLE 24 ORE - Alberto Negri : " L'illusione democratica della primavera araba"
Alberto Negri
L'Occidente, che ha sempre qualche paura da coltivare, teme che saranno gli islamici a occupare il palcoscenico dopo le rivolte nel mondo arabo. Anche noi, insieme agli altri, abbiamo raccontato che regimi sfibrati e autoritari sono crollati sull'ondata travolgente di un'indignazione popolare in cui gli integralisti hanno avuto un ruolo marginale. Il futuro delle rivolte arabe, da Avenue Bourghiba a Piazza Tahrir, potrebbe però non corrispondere a quanto abbiamo voluto sperare e immaginare per la Tunisia, l'Egitto e, un domani, per Libia o Siria. E per le ragioni stesse che hanno portato al crollo dei vecchi regimi.
Tutti i motivi politici ed economici delle crisi di Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e degli Assad, gravano ancora sul mondo arabo: nel 2011 il Nordafrica (più la Siria e la Giordania) rappresenta meno del 2% dell'economia mondiale. Tunisia ed Egitto aspettano quindi con impazienza, e noi qui in Europa, le prossime elezioni, quanto mai incerte, per capire se riusciranno a imboccare la strada di una democrazia che somigli alla nostra. La risposta è nei fatti: questa prospettiva deformante è già un'illusione. Per motivi storici e attuali non ci potrà essere che una democrazia diversa e magari anche poca oppure, in qualche caso sfortunato, nessuna democrazia. In primo luogo perché oggi il potere è detenuto in Egitto e in Tunisia dalle forze armate che dichiaratamente intendono guidare i prossimi eventi.
A Tunisi i militari hanno lanciato il loro avvertimento al partito fondamentalista Ennahda, guidato da Rashid Gannouchi, e non vogliono cedere il controllo agli islamici neppure se vincono alle urne. Gannouchi aveva dichiarato al suo rientro in patria dopo l'esilio che non avrebbe concorso per la presidenza ma non è bastato: Ennahda se vuole restare nella legalità deve accontentarsi di una rappresentanza minoritaria, altrimenti, minacciano, ci sarà un colpo di stato. E per essere chiari il primo ministro Essebsi ha annunciato un possibile rinvio delle elezioni previste il 24 luglio. Il coprifuoco, dopo gli scontri a Tunisi, è stata la risposta di un apparato securitario in cui giocano un ruolo ancora determinante le forze vicine al deposto presidente Ben Ali e a un regime durato una generazione.
In Egitto i generali svolgono un ruolo esplicito come garanti da oltre mezzo secolo del potere. Con l'anziano Mohammed Tantawi occupano la presidenza e hanno imposto un referendum sulle modifiche alla costituzione, approvato dalla maggioranza, che conferma l'impianto precedente, con un posto rilevante destinato alla legge islamica. Mentre la Tunisia è uno stato laico dai tempi del fondatore della repubblica Bourghiba, l'Egitto si ispira alla sharia nello statuto individuale della persona. La tolleranza nei confronti dei cristiani, una minoranza del 10% su 80 milioni, è di facciata più che di sostanza. E il riposizionamento in politica estera del Cairo, con l'avvicinamento all'Iran e al resto del mondo musulmano, potrebbe approfondire la distanza con i princìpi secolaristi. I generali sanno, inoltre, che i Fratelli Musulmani, legalizzati dopo decenni, verranno premiati dagli elettori ma anche da un sistema che ha bisogno di loro per contenere le spinte salafite degli islamici ed esercitare un controllo politico sulla popolazione. Nessun partito laico ha loro capacità di penetrazione sociale: quindi sono essenziali alla nuova democrazia egiziana.
Perché i fondamentalisti sono ancora lì e costituiscono un attore importante anche se non sono stati il motore delle rivolte? Questi regimi sono crollati per un duplice fallimento: quello del modello di sviluppo uscito dalla decolonizzazione e dei successivi tentativi di riforme e smantellamento dello statalismo. È vero che è abortito anche il progetto dei gruppi jihadisti di ribaltarli con la forza e con il sangue, come avrebbe voluto al-Qaida. Ma i movimenti e i partiti musulmani fondamentalisti che si sono allontanati dalle soluzioni violente e dalle teorie più radicali hanno saputo adattarsi meglio ai cambiamenti di quelli laici gestiti dal potere. Hanno anche preso ispirazione dal successo dell'Akp di Erdogan in Turchia, non a caso diventato un leader popolare nel mondo arabo. Ma non è detto che sarà il modello musulmano moderato dell'Akp a prevalere in Tunisia o Egitto: ogni Paese fa storia a sé.
La democrazia all'europea può influire sui certi princìpi legati al pluralismo e alla libertà di espressione in generale ma non è un traguardo. Anche perché l'Europa per i giovani arabi del Mediterraneo resta un sogno irraggiungibile, dentro e fuori. Sono stati i protagonisti delle rivolte ma continuano a ingrossare le file degli haragà, dei clandestini, coloro che bruciano la carta d'identità sperando di trovarne una diversa sull'altra sponda.
Ma c'è di più. La crisi economica che sta travolgendo il Mediterraneo, innescata dall'aumento dei prezzi energetici e alimentari, continua. Quanti milioni di poveri avremo quest'anno sulla sponda Sud a causa proprio delle rivolte o della guerra in Libia? Forse il 10-15% in più, se va bene, con un aumento del tasso disoccupazione giovanile che è già tre-quattro volte superiore a quello delle nostre parti.
Si dibatte molto di dare soldi agli insorti libici, di piani Marshall taumaturgici che non vedono mai la luce se non sulla carta: l'Europa, e pure quell'ineffabile Alleanza Atlantica che pattuglia inutilmente l'ex mare nostrum, è in realtà uno spettatore delle rivoluzioni, un convitato di pietra che si rianima soltanto in vertici inutili quanto spettrali. Agita modelli di democrazia inattuabili e fa ben poco: e le sue paure, non senza ragione, aumentano.
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