Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/05/2011, a pag. 39, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "Italia e Israele: quando l’ispirazione supera ogni mare".

Ermanno Tedeschi
C’ è una domanda che prima o poi facciamo tutti, quando andiamo a intervistare Amos Oz, Yehoshua o qualsiasi scrittore israeliano: perché le vostre opere piacciono tanto agli italiani? C’è una risposta, suppergiù la stessa, che qualche settimana fa Oz ci ha riassunto così: «Forse perché abbiamo linguaggi diversi ma ci affacciamo sullo stesso mare» . È lo stesso mare che un gallerista italiano, Ermanno Tedeschi, ha deciso d’attraversare per tentare nell’arte un’operazione simile a quella già sperimentata in letteratura: contaminare quei linguaggi, shakerarli, restituirli oltreconfine. «Volevo aprire una quarta galleria a New York — racconta lui, che a 14 anni già veniva volontario nei kibbutz—. Poi una sera a Gerusalemme, guardando il Muro del Pianto, mi sono detto: e se lo facessi qui?» . L’ha fatto: il 6 giugno a Neve Tzedek, nel trendissimo quartiere del Bauhaus di Tel Aviv che ha appena spinto Madonna a comprar casa, con l’inaugurazione di ET Gallery e della collettiva World, l'arte italiana getta l’àncora in Israele. Per restarci. Sono anni che ci lavora, Tedeschi. «Gallerista, anche» , lo definisce Arturo Schwarz nell’introduzione al catalogo, con una virgola duchampiana. Nipote di quel Professor Ermanno che Bassani narrava nel Giardino dei Finzi-Contini, assessore liberale a Torino, già presidente degli Amici del Museo di Tel Aviv, ora alla Fondazione Elio Toaff, Tedeschi ha avuto molti lavori e un solo amore: «A 18 anni ho comprato la mia prima opera, un De Paris. Da dieci, non faccio altro» . Da tempo scommette sugli israeliani, «artisti spesso sconosciuti in Europa, ma che hanno grande valenza di qualità e d’espressione» . È stato il primo a portare da noi Menashe Kadishman e le sue pecore: «Oggi lo conoscono tutti, una sua opera è stata donata anche al Papa. Ma ce n’è voluto: ha presente — domanda ironico— Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi, lui e la moglie che vanno alla Biennale e, poveretti, si trovano in mezzo al gregge colorato di Kadishman senza capire che cosa sia? Ecco, vorrei che per l’arte israeliana finisse quell’incomprensione» . A Neve Tzedek, 14 artisti fino a settembre, fra giapponesi e coreani, la scommessa è soprattutto sulle installazioni, le pitture, le sculture, i video degli italiani: i vortici di barchette di Riccardo Gusmaroli, la poesia dell’infanzia di Valerio Berruti («uno che viene dalle Langhe e lavora con nulla» ), i ritratti iconici di Barbara Nahmad, la cabala di Tobia Ravà, le luci d’un israeliano a Roma come Shay Frisch Peri. «È un progetto culturale, per ora senza guardare troppo al mercato. Se vogliamo un’arte che si mescoli, Neve Tzedek è la vetrina perfetta per dare respiro internazionale a questa scelta» . Il più vecchio quartiere di Tel Aviv, uno spazio riadattato con Jenny Hannuna, case basse a metà fra la Jaffa araba e la nuova Città Bianca: è qui che abita l’Israele più laico e aperto, geloso di un’identità eppure pronto a sporcarsi con le culture d’un Paese costruito dagl’immigrati di 80 Paesi diversi. Il titolo World, scelto da Luca Beatrice, è la traduzione di questo mondo: «Vogliamo che l’arte sia ponte— dice Tedeschi —. Ospiteremo anche artisti palestinesi. Il linguaggio globale comincia così, sconfinando nei territori, scavalcando barriere, facendo circolare persone e idee» . Un giorno, disse Yehoshua al giuliano Claudio Magris: beato te che sei cresciuto lungo una barriera, anch’io ho una gran voglia di confini territoriali per sentirmi a casa mia… Gli rispose Magris: vero, caro Abraham, ma se voi ebrei siete diventati il simbolo dell’universale umano, è anche perché avete imparato ad attraversare tutti i ponti.
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