Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 08/05/2011, a pag. 12, l'articolo di Evelyn Duffy dal titolo " Tutto partì da una telefonata, così la Cia ha scovato Osama ". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Valerio Pellizzari dal titolo " Pakistan-America. Dopo il raid è guerra di spie ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'intervista di Ennio Caretto a Vincent Cannistraro dal titolo " Il capo era ancora lui. Da lì ordinava gli attacchi ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 14, l'articolo di Moises Naim dal titolo " Al-Qaida 2.0 più idea che gruppo ".
La REPUBBLICA - Evelyn Duffy : " Tutto partì da una telefonata, così la Cia ha scovato Osama "
«Sono di nuovo con quelli di prima». Poi una pausa, come se l´amico avesse capito il senso di quelle parole, che cioè Kuwaiti era tornato nella cerchia più vicina a Bin Laden e si trovava forse proprio a fianco del leader di Al Qaeda.
L´amico rispose: «Che dio vi assista».
Quando gli agenti dell´intelligence Usa vennero a conoscenza di questo colloquio seppero di essere giunti alla fase decisiva della lunga caccia al fondatore di Al Qaeda. La telefonata li condusse ad una insolita costruzione circondata da un alto muro di cinta ad Abbottabad, 35 miglia a nord della capitale pachistana.
Nelle parole di un funzionario Usa informato sulle azioni di intelligence che hanno portato al raid contro il compound di lunedì mattina, «è qui che inizia il film sulla caccia a Bin Laden».
La telefonata, e varie altre informazioni, hanno dato al Presidente Obama la sicurezza necessaria per dare il via a una missione politicamente rischiosa per catturare o uccidere Bin Laden, una decisione presa dal presidente nonostante i dissensi espressi in seno al gruppo dei suoi consiglieri per la sicurezza nazionale e alle stime variabili circa le probabilità che Bin Laden si trovasse nel compound.
I funzionari che si sono espressi circa i dati di intelligence raccolti e su come è maturata la decisione della casa Bianca hanno posto come condizione di restare anonimi.
Le agenzie di intelligence Usa cercavano Kuwaiti da quattro anni almeno. La telefonata con l´amico fornì loro il numero del cellulare del corriere. Grazie all´impiego di un gran numero di fonti umane e tecnologiche, seguirono Kuwaiti fino al covo di Bin Laden. L´edificio principale, privo di allacciamento telefonico e internet, era impenetrabile agli strumenti di intercettazione utilizzati dalla Agenzia per la Sicurezza Nazionale.
Gli agenti Usa scoprirono con stupore che, per telefonare, Kuwaiti o altri uscivano dal compound e si allontanavano in auto viaggiando per circa un´ora e mezza prima di inserire la sola batteria nel cellulare. Nel momento in cui accendevano il cellulare, infatti, potevano essere localizzati, cosa, ovviamente, da evitare in ogni modo.
Studiando le immagini del covo, l´intelligence notò che un uomo usciva quasi ogni giorno a passeggiare nel terreno circostante la casa per un´ora o due. Camminava avanti e indietro, giorno dopo giorno e ben presto gli analisti presero a chiamarlo "the pacer", letteralmente "quello che va su e giù". Le immagini raccolte non consentirono mai di vederlo chiaramente in volto.
Gli uomini dell´intelligence erano restii a usare altri strumenti di sorveglianza tecnologica o umana che avrebbero potuto portare sì ad un´identificazione, ma correndo il rischio di essere scoperti. "The pacer" non lasciò mai il compound. Il suo comportamento routinario faceva pensare quasi che si trattasse di un prigioniero.
"The pacer" era bin Laden? Un´esca? Una beffa? Un inganno?
Bin Laden era alto almeno uno e novantacinque e l´uomo, dalla falcata, sembrava alto. La Casa Bianca chiese alla National Geospatial-Intelligence Agency, che fornisce e analizza le immagini inviate dai satelliti, di determinarne la statura. La risposta fu tra il metro e settantasette e i due metri e sette.
Secondo una fonte diversa, l´agenzia fornì una stima più precisa, ma comunque poco affidabile per la scarsità di informazioni circa le dimensioni delle finestre dell´edificio e lo spessore dei muri del compound, che sarebbero serviti come riferimento per determinare la reale altezza dell´uomo.
In un incontro alla Casa Bianca, il direttore della Cia, Leon Panetta, spiegò a Obama e ai vertici della sicurezza nazionale che la regola dell´intelligence è continuare l´attività fino a quando si sono ottenute tutte le possibili informazioni su un bersaglio, in questo caso il compound di Abbottabad.
Panetta disse che si era ormai arrivati a quel punto, sostenendo che gli uomini che seguivano gli spostamenti dei residenti del compound vedevano "the pacer" quasi ogni giorno, ma non erano in grado di stabilire con certezza che si trattasse di Bin Laden. Panetta osservò che non erano disponibili dati di spionaggio elettronico e sostenne che era troppo rischioso inviare una spia o avvicinarsi ulteriormente con strumentazioni elettroniche.
L´agenzia fornì allora una postazione sicura a Abbottabad per un piccolo team di agenti incaricati di controllare il compound nei mesi precedenti al raid.
Obama e i suoi consiglieri discussero varie opzioni. Una prevedeva il lancio di un missile da parte di un drone, Predator o Reaper. Un attacco simile era a basso rischio, ma se avesse colpito in pieno l´obiettivo "the pacer" poteva finire polverizzato e non si sarebbe mai avuta la certezza di aver ucciso Bin Laden. Se invece fosse fallito, come è già accaduto per attacchi ad obiettivi di alta importanza, Bin Laden o chiunque vivesse nel compound sarebbe fuggito e gli Usa avrebbero dovuto riprendere la caccia da zero.
Panetta incaricò il vice ammiraglio della marina William H. McRaven, che era stato a capo del Comando Congiunto Operazioni Speciali (Jsoc) per quasi tre anni, di elaborare un piano sul terreno, noto in seguito come "l´opzione McRaven".
McRaven aveva intensificato i raid delle squadre speciali, soprattutto in Afghanistan. Nei primi due anni del suo incarico il cosiddetto jackpot, il pieno successo delle operazioni, passò dal 35 per cento all´80 per cento.
La decisione di McRaven di assegnare l´azione ai Navy Seals, un´unità delle Operazioni Speciali con grande esperienza in incursioni su obiettivi di alta importanza, è stata fondamentale. I Seals sono rapidi nel fare irruzione e nell´abbandonare il sito del raid, spesso uccidendo chiunque incontrino. Gran parte dei membri del commando impiegato nel raid contro Bin Laden hanno esperienza di una decina o più di missioni in zone di guerra.
Dagli studi condotti dalle agenzie di intelligence sulla vita all´interno del compound, emerse che era periodicamente frequentato da una dozzina di donne e bambini.
I Seals ricevettero ordini precisi di non sparare alle donne o ai bambini, a meno che non costituissero una chiara minaccia o fossero armati (nel corso della missione è stata uccisa una donna e una delle mogli di bin Laden è stata ferita ad una gamba da un colpo d´arma da fuoco). Secondo una fonte ufficiale, Bin Laden doveva essere catturato «se si fosse palesemente arreso».
Il rischio per i Seals cresce con la durata dell´azione. La filosofia del commando è questa: «Spara a quello che vedi. È pieno dì cattivi lì dentro». In base alle stime, la possibilità che Bin Laden si trovasse nel compound variavano dal 60 all´80 per cento. Michael Leiter, capo del Centro Nazionale Antiterrorismo, era molto più cauto. Nel corso di un incontro alla Casa Bianca stabilì la probabilità al 40 per cento.
Quando gli venne obiettato che si trattava di una bassa possibilità di successo rispose: «È vero, ma è il 38% in più rispetto a prima».
Varie fonti sostengono che i consiglieri per la sicurezza nazionale di Obama non erano tutti d´accordo sulla scelta dell´opzione McRaven. Il presidente ha approvato il raid alle 8.20 del mattino di venerdì.
Durante l´attacco uno degli elicotteri Black Hawk è andato in stallo, ma il pilota è riuscito a portarlo a terra. L´atterraggio ha però provocato danni al mezzo, e i Seals sono stati costretti a rinunciare al piano in base al quale un commando si sarebbe calato da un Blackhawk per entrare dal tetto nell´edificio principale. Invece entrambi i commando hanno fatto irruzione nel compound da terra.
La Casa Bianca ha dichiarato inizialmente che Bin Laden era morto sotto i colpi di arma da fuoco perché si era impegnato in un conflitto a fuoco e opponeva resistenza. In seguito il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha detto che Bin Laden non era armato, ma ha ribadito che ha opposto una qualche forma di resistenza. Carney ed altri hanno rifiutato di specificare con esattezza il genere di resistenza che lo sceicco avrebbe opposto, benché sia stata riferita la presenza di armi nella stanza in cui è stato ucciso.
A detta di una fonte autorevole delle Operazioni Speciali, i Seals eviteranno d´ora in avanti di fornire maggiori dettagli sul raid per impedire la divulgazione di metodologie decisive per il successo delle loro azioni. I singoli partecipanti al raid non rilasceranno interviste e avrebbero firmato accordi per cui si impegnano a non divulgare informazioni sulle loro attività. «Vogliono serrare i ranghi e tornare al lavoro».
I Seals hanno prelevato dozzine di chiavette Usb e vari hard disk che sono ora al vaglio dell´intelligence per ricavarne informazioni su Al Qaeda, in particolare per localizzare Ayman Al Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden. Ma pare che questo delicato lavoro sia reso più arduo dal timore che utilizzando password errate si possano innescare programmi di protezione che cancellano ogni tipo di dato.
Nella "Situation Room" della Casa Bianca, domenica sera, il presidente e i suoi consulenti per la sicurezza nazionale hanno visto un video del raid privo di audio.
Quando il cadavere di Bin Laden è stato composto, è stato chiesto a uno dei Seals di stendersi accanto al corpo per comparare la statura. Il membro del commando era alto un metro e ottantatre. Il corpo era svariati centimetri più alto.
A questa notizia Obama, rivolto ai suoi consiglieri, ha esclamato: «Per questa operazione abbiamo dato un elicottero da sessanta milioni di dollari e non potevamo permetterci di comprare un metro a nastro?».
La STAMPA - Valerio Pellizzari : " Pakistan-America. Dopo il raid è guerra di spie "
I radar pachistani erano spenti quando gli elicotteri americani andarono a catturare Bin Laden». Questa è l’ultima verità nella storia di Abbottabad, attribuita direttamente al comandante delle forze aeree, e raccontata con vari dettagli tecnici per spiegare che questi congegni sono di diversa potenza, che hanno una vita variabile dai tre ai nove anni, che alcuni servono a proteggere le frontiere e che quelli meno potenti servono solo all’addestramento. Quindi gli americani non avevano oscurato le difese elettroniche del Pakistan, avevano trovato la porta aperta. Ma anche questa rivelazione, come ormai succede ogni giorno, è stata poi smentita da un portavoce. O forse aveva ragione il generale Gul, ex capo dell’intelligence e vero sostenitore dei talebani, che aveva subito dichiarato: «Quattro elicotteri americani erano decollati quella notte da Tarbela». Quella base, vicina alla grande diga omonima, è in territorio pachistano.
È stata smentita anche la partenza per Washington avvenuta venerdì del generale Pasha, capo dell’Isi, dei servizi segreti, con lo scopo di discutere la situazione con i colleghi americani, i quali hanno anticipato che comunque chiederanno i nomi degli agenti probabili protettori di Obama. Lo stesso generale aveva smentito in precedenza di avere mai detto ad «Asia Times» che i pachistani avevano partecipato alla cattura di Osama.
In sostanza è come se i militari avessero cominciato a creare una cortina fumogena per evitare il fuoco incrociato che dall’interno e dall’esterno li sta incalzando in quello che qualcuno al senato nei giorni scorsi ha definito «un disastro himalaiano», con riferimento all’altezza di quelle montagne, ma forse anche alla velocità con cui la neve si scioglie. Forse vogliono approfittare di quel fumo anche il presidente, il primo ministro e il capo di stato maggiore che ieri hanno avuto un vertice.
Ma per reagire alle accuse di inefficienza, o di complicità, e condividere le colpe con il potere politico, i militari hanno sollevato la questione dei settemila visti di ingresso concessi a cittadini americani, senza che lo spionaggio avesse controllato queste richieste. Nell’elenco c’è, secondo un ambasciatore pachistano che non smentisce le sue affermazioni poche ore dopo averle rilasciate, un numero oscillante tra 1500 e 3000 agenti Usa che si muovono nel paese in piena impunità. Anche un giornalista degli Emirati Arabi, uno dei tre Paesi che riconosceva il governo del mullah Omar, stima in almeno 1500 queste presenze opache, in competizione se non in contrasto con gli uomini dell’Isi.
Il rappresentante di questa compagine più noto, ma anche più detestato dai pachistani, è Rymond Davis, un ex uomo dei reparti speciali, poi passato alla compagnia privata di sicurezza Blackwater, reclutato dalla Cia, e arrivato qui con un passaporto diplomatico. Nel traffico congestionato di Lahore uccise due persone sparando alla schiena, e fuggendo poi verso il consolato, lasciandosi dietro cento bossoli, un passamontagna nero, e un pezzo di bandiera americana.
Nella contestazione alle spie si è inserito dall’Afghanistan Amrullah Saleh, capo dei servizi in quel Paese negli anni recenti e oggi in pensione forzata. Sostiene di avere avvisato a suo tempo Karzai che il mullah Omar era protetto in una casa dell’Isi a Karachi, e che questa informazione aveva portato quasi allo scontro fisico tra il presidente afgano e il suo collega Musharraf che reagiva dicendo: «Siete venuti per insegnare a me generale di carriera come si fa lo spionaggio?».
Sicuramente i militari hanno in mano due carte: i resti dell’elicottero americano, non più invisibile se i radar erano spenti, e le tre mogli con i nove figli di Bin Laden. Gli americani non potranno incontrare queste persone se non ci sarà l’autorizzazione scritta dei rispettivi Paesi di origine. Ma intanto una delle donne, Amal, yemenita, 29 anni, ferita dal commando, avrebbe raccontato ai suoi protettori pachistani che Osama era in buona salute, che non aveva bisogno della dialisi, e che prima di trasferirsi alla fine del 2005 nella residenza dove poi è stato ucciso, aveva vissuto per due anni e mezzo in un villaggio, nel distretto di Haripur, vicino ad Abbottabad. La notte dell’attacco erano andati a dormire e poco dopo sentirono il rumore e le esplosioni. È l’ultima persona che ha sentito, e capito, le sue parole.
Intanto dalla casa della cattura escono, distillate con sapienza mercantile, sempre nuove immagini. Chi le ha scattate, chi le vende, chi le compra, quanto le paga, è un altro capitolo di questa storia.
CORRIERE della SERA - Ennio Caretto : " Il capo era ancora lui. Da lì ordinava gli attacchi "
Vincent Cannistraro
«Nessuno di noi ha mai creduto che Bin Laden fosse ormai soltanto un simbolo, un’icona del terrorismo islamico, la sua ispirazione. Bin Laden non ha comandato le operazioni di Al Qaeda per un paio d’anni subito dopo i bombardamenti in Afghanistan, quando fu costretto a porsi al riparo sulle montagne del Pakistan. Ma verso il 2003 ha ripreso le redini della sua organizzazione, e il suo vice Al Zahawiri ne è stato il portavoce. I proclami e gli attentati di Al Qaeda sono opera sua. Dalla villa presso Islamabad, Bin Laden ha diretto i suoi uomini con mano ferma. L’unica differenza rispetto al passato è stata la lentezza con cui ha trasmesso gli ordini: due settimane, perché ha dovuto ricorrere ai suoi corrieri di fiducia, non potendo usare il computer né il telefono per non tradire il suo nascondiglio» . Vincent Cannistraro, l’ex direttore dell’antiterrorismo della Cia, va ancora oltre. «Nell’archivio di Bin Laden, la Cia ha trovato direttive e piani contro cui è già intervenuta. Ha nelle sue mani istruzioni da lui inviate alle cellule di Al Qaeda in alcuni Paesi. Ha nomi di nuovi leader e seguaci. Anche il Pentagono si sta muovendo con urgenza. Ciò che si è scoperto è tanto importante quanto l’uccisione di Bin Laden. L’America sferrerà duri colpi al terrorismo» . Cannistraro, che negli anni Ottanta lavorò per la Cia in Italia, e negli anni Novanta fu distaccato alla Casa Bianca, aggiunge che ci sarà un «repulisti» nei servizi segreti e nelle forze armate pachistani, «dove qualcuno ha aiutato Bin Laden» . Ma il leader di Al Qaeda non era ammalato ed emarginato? «È uno dei tanti falsi miti che lo circondavano. Bin Laden non ha mai avuto bisogno di dialisi, come hanno scritto i giornali. Fu avvelenato dai servizi segreti sauditi negli anni Novanta ma sopravvisse e guarì completamente. Nella sua villa in Pakistan non ha potuto ospitare guardie del corpo, aiutanti ecc. per non destare sospetti, era privo praticamente di un apparato di sicurezza. Ma si è sempre mantenuto in stretto contatto con l’intera organizzazione, sia pure con tempi più lunghi, come ho detto» . La Cia e il Pentagono pubblicheranno altri video o documenti sulla attività terroristica di Bin Laden? «È possibile, è bene che il mondo sappia che meditava altre stragi dopo quelle delle Torri Gemelle di Manhattan del 2001. Credo che la Cia e il Pentagono abbiano già segnalato ai nostri più fidi alleati il contenuto delle parti del suo archivio che li riguardano direttamente. L’America non era il solo Paese nel mirino. Nei suoi progetti il 2011 sarebbe stato un anno drammatico per tutti noi» . È certo della complicità di qualche 007 o militare pachistano nella sparizione di Bin Laden dopo il 2001? «Sì. La Cia sa già di chi si tratta e ha chiesto che ne rispondano alla giustizia. Ignoro se siano ex membri dei servizi segreti e delle forze armate o membri attivi. Ma tra i primi io ne conobbi personalmente uno, Ahmed Guld, dello spionaggio militare. Negli anni Novanta feci la spola per conto della Casa Bianca tra Washington e Islamabad, e mi resi conto delle sue simpatie per gli estremisti islamici» . Crede che il Pakistan prenderà misure contro costoro? «Spero di sì. Ufficialmente, il Pakistan denuncia la nostra violazione della sua sovranità con il raid clandestino della Navy Seal. Ma dietro le quinte ci fa capire che non vuole guastare i rapporti con noi. Ci aspettiamo una purga di agenti dell’Isi e di ufficiali dell’esercito per complicità o negligenza. Le proteste pachistane sono una facciata, celano un imbarazzo enorme. Penso che il governo sia stato colto di sorpresa, come la grande maggioranza della popolazione» . E Washington? Salvaguarderà i rapporti con Islamabad? «Per noi apprendere che Bin Laden era ospite di un Paese alleato è stato un trauma. Per un decennio il leader di Al Qaeda ha rappresentato il pericolo più grave per la nostra sicurezza e quella dell’Europa, e per la stabilità dell’Asia centrale del Medio Oriente e del Golfo Persico. Ma noi abbiamo bisogno dell’appoggio del Pakistan per sconfiggere o contenere efficacemente il terrorismo e per proteggere l’Afghanistan. Confido che supereremo anche questa crisi» . Un’ultima domanda: quali saranno a suo parere le ripercussioni della morte di Bin Laden sul conflitto afghano? «È sbagliato pensare che il terrorismo diminuirà e che i talebani ne prenderanno le distanze. Mi aspetto anzi una serie di offensive, proprio nel nome del leader di Al Qaeda, che però non avranno grande effetto. Anche qui, più tardi, il Pakistan potrebbe aiutarci a pacificare il Paese e a disimpegnarci gradualmente. Ma ci vorrà tempo per chiudere un’epoca e per incominciarne un’altra» .
Il SOLE 24 ORE - Moises Naim : " Al-Qaida 2.0 più idea che gruppo "
Moises Naim
Sia Osama bin Laden sia la "sua" al-Qaida erano del secolo scorso. L'Al-Qaida di oggi e chiunque sia il successore di Bin Laden sono l'edizione del XXI secolo: al-Qaida versione 2.0. Questa nuova versione ha capacità e limiti molto diversi e affronta sfide strategiche altrettanto diverse rispetto all'organizzazione che bin Laden fondò nel 1988.
È chiaro che gli spettacolari attacchi del 2001 avvennero in questo secolo e che Osama è appena deceduto, ma le idee e le circostanze che hanno plasmato lui stesso e la sua organizzazione appartenevano al XX secolo.
Nel decennio successivo agli attentati dell'11 settembre molto è cambiato nel mondo e all'interno della stessa al-Qaida: l'organizzazione e i leader operativi, la provenienza dei suoi membri e le fonti di finanziamento, i principali teatri d'azione, oltre alle tattiche, ai nemici e ai concorrenti.
L'al-Qaida originale era un'organizzazione operativa che, sebbene funzionasse tramite cellule indipendenti, manteneva un alto livello di centralizzazione. Chi, come e quando attaccare, il reperimento e la gestione del denaro, il reclutamento e la promozione dei leader e le decisioni più importanti erano nelle mani di bin Laden, del suo vice Ayman al Zawahiri e di un piccolo gruppo di luogotenenti.
Invece la nuova al-Qaida è più che altro un'ispirazione piuttosto che un'organizzazione che agisce secondo ordini impartiti da una sede centrale. La sua influenza e il suo futuro non risiedono più nelle sue capacità in qualità di organizzazione, bensì nell'abilità di ispirare i nuovi jihadisti a organizzarsi, addestrarsi, pianificare e agire in modo autonomo contro bersagli che essi stessi scelgono.
Questo non significa che la "vecchia" al-Qaida sia sparita. Ne avremo notizie nei prossimi giorni e mesi quando cercherà di dimostrare al mondo che la morte di bin Laden non comporta la sua morte in qualità d'istituzione. Qualche tempo fa, la polizia tedesca ha arrestato un immigrato di origine marocchina il quale, grazie ad al-Qaida, si era recato al confine tra il Pakistan e l'Afghanistan per esercitarsi nell'uso degli esplosivi.
Ma questo non è più il profilo ideale per al-Qaida 2.0. Il suo terrorista ideale è nato e vive ancora negli Stati Uniti o in Europa e, agendo per proprio conto e senza aver intrattenuto nessun contatto diretto con l'organizzazione, fa esplodere, in nome di al-Qaida, una bomba in un luogo affollato in qualche importante città.
Il problema che affronta al-Qaida per il reclutamento di questi volontari è la presenza di nuovi e sorprendenti concorrenti: i movimenti anti-dittatoriali del mondo arabo.
Prima, il messaggio di al-Qaida era più semplice: lottiamo contro i dittatori repressivi e miscredenti nei Paesi arabi, coloro che costringono i propri popoli alla miseria mentre loro si arricchiscono grazie alla congiura con l'odiato, e ancora più miscredente, impero statunitense.
Per un giovane disoccupato, senza futuro e senza altri canali in cui convogliare le proprie energie, frustrazioni e speranze, questo appello alla lotta era irresistibile. Oggi, quello stesso giovane ha l'alternativa di lottare ma non per uccidere innocenti in altri Paesi, bensì per cambiare le cose nel proprio. E la ricompensa la può intravedere qui e adesso, e non in un aldilà popolato dai martiri suicidi di al-Qaida.
L'altro problema di al-Qaida è la necessità di "salvaguardare il proprio posto" nel mondo islamico. Un'organizzazione che ha assassinato più musulmani che statunitensi o europei ha molto da spiegare.
Un nuovo svantaggio consiste nel fatto che, mentre l'al-Qaida del XX secolo ha potuto contare sull'appoggio entusiasta ed esplicito di alcuni Paesi, come l'Afghanistan dei talebani o il finanziamento di taluni Governi, per esempio, oggi allearsi apertamente con al-Qaida è un pessimo affare. Le acrobazie del Governo pachistano per spiegare l'ubicazione del rifugio di bin Laden o le contraddizioni dei leader di Hamas in merito ad al-Qaida rivelano la radioattività politica che ha assunto tale organizzazione.
Nel caso di Hamas, il suo leader Ismail Haniyeh ha denunciato l'operazione contro Bin Laden affermando che «condannava l'omicidio di qualsiasi guerriero musulmano», nonostante nei giorni precedenti avesse ordinato un attacco simile contro una cellula di al-Qaida a Gaza, in cui sono rimasti vittime due dei suoi membri.
Il minore appoggio governativo ad al-Qaida non significa che il suo raggio geografico si sia ristretto. Dall'Algeria alla Cecenia e dalla Somalia all'Indonesia, la globalizzazione delle cellule di al-Qaida è andata avanti, nonostante sia stata sempre meno sostenuta dai Governi o dai suoi alleati all'interno di essi. In sintesi: al-Qaida 2.0 continuerà a essere una minaccia. Seppur sminuita, screditata e sostituita da idee e leader più attraenti.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, Stampa, Corriere della Sera, Sole 24 Ore, cliccare sulle e-mail sottostanti