Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/05/2011, a pag. III, l'articolo di Peter Berger dal titolo "Finire la guerra".
Peter Berger
La morte di Osama bin Laden pone una domanda inevitabile: che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan? La risposta, ovviamente, è che la missione afghana riguarda qualcosa di più grande e ambizioso della semplice eliminazione dei leader di al Qaida – molti dei quali, in ogni caso, sono in Pakistan, dove viveva lo stesso Bin Laden quando gli Stati Uniti sono riusciti finalmente a stanarlo. No, la missione in Afghanistan non riguarda soltanto l’uccisione dei membri di al Qaida, riguarda la stabilizzazione del paese in modo tale che non possa mai più essere il focolaio di estremismo che è stato fino al 2001, con tutti quei problemi di sicurezza nazionale e di rispetto dei diritti umani. In cambio però sorgono altre questioni: vale la pena prolungare una guerra che è andata avanti per quasi dieci anni per questo obiettivo più vasto? E forse, la domanda più difficile di tutte: anche se valesse la pena combattere per questo risultato, è veramente possibile ottenerlo?
A Washington, negli ultimi anni, il consenso dominante che si è formato negli ultimi anni risponde all’ultima domanda con un sonoro no. Per anni, la guerra in Afghanistan è stata dipinta come un fallimento senza speranze. Ci hanno detto che il governo di Kabul è corrotto e rapace. Che l’esercito afghano è un casino totale. Che i legami tribali sono più forti di quelli nazionali. Che i talebani diventano più forti ogni giorno. Tutto questo ha reso la decisione del presidente americano, Barack Obama, dello scorso autunno piuttosto bizzarra – almeno in superficie.
Da tempo Obama aveva promesso che le truppe americane avrebbero lasciato l’Afghanistan nell’estate del 2011. Come il vice presidente, Joe Biden, ha spiegato: “Nel luglio 2011, vedrete moltissime persone lasciare le proprie postazioni. Potete scommetterci.” Ma poi, in una sola settimana, a novembre, la Casa Bianca ha annunciato un cambiamento di rotta: le truppe americane rimarranno in Afghanistan su larga scala per altri tre anni, fino al 2014. Soltanto una manciata di giornalisti h arealizzato appieno la magnitudine della notizia. Il New York Times in un articolo ha definito il nuovo approccio “un cambiamento di tono”, un’etichetta curiosa per indicare altri anni di guerra. Ma, mentre sembrava che gli americani avessero a malapena notato ciò che era accaduto, a Kabul la notizia è stata recepita. A dicembre, poche settimane dopo l’annuncio di Obama, ho incontrato Hedayat Amin Arsala, un ministro di alto rango del governo afghano e confidente del presidente Hamid Karzai. Eravamo seduti in una stanza grande come un campo da basket con un candeliere massiccio in un palazzo del Novecento nel centro di Kabul. Arsala era rimasto deluso dall’iniziale piano di Obama di cominciare il ritiro delle truppe a partire dal 2011.
“Non ne ero contento”, ricorda Arsala scegliendo le parole con cautela. “Dava all’opposizione l’impressione che se avessero continuato a imbracciare i loro fucili, alla fine avrebbero potuto vincere”. Arsala, che parlando esprimeva l’opinione di molti afghani, sia dentro sia fuori dal governo, era sollevato dal fatto che Obama avesse deciso un’inversione di rotta. E sperava che il presidente americano si spingesse anche più in là e siglasse un accordo di lungo termine con l’Afghanistan, in modo che le truppe potessero rimanere nel paese fino al 2015 se non più a lungo. “Tra adesso e il 2014, ci lavoreremo con gli Stati Uniti”, mi disse. Diversi altri ufficiali americani e afghani hanno confermato un accordo di questo tipo è in lavorazione. Poi questo mese è arrivata l’uccisione di Osama bin Laden – e mentre gli americani gioivano, molti afghani erano, secondo il Times, preoccupati che il successo dell’operazione avrebbe accelerato la ritirata dei soldati americani. “Questa situazione non dovrebbe essere usata per giustificare un disimpegno anticipato”, ha ammonito un ufficiale afghano.
Cosa succede? Primo, Obama ha concluso che vale la pena combattere una guerra considerata largamente fallimentare. Poi, gli afghani hanno fatto sapere di essere contenti che gli Stati Uniti sarebbero rimasti laggiù. Adesso, dopo la morte di Bin Laden, ricordano agli Stati Uniti che si aspettano che mantengano le promesse fatte. E’ forse il caso di un presidente americano cocciuto – che non vuole ammettere la sconfitta ed è raggirato dagli alleati afghani – che gioca di Peter Bergen al rialzo su un’impresa completamente fallita? Oppure è possibile che la guerra in Afghanistan stia sul serio riuscendo? In ogni caso, è di aiuto dare un po’ di contesto storico. A dispetto di tutti i problemi dell’Afghanistan, il paese ha fatto molta strada da quando lo visitai per la prima volta quasi due decenni fa.
Sono arrivato a Kabul nel 1993, quando il paese era un mosaico di conflitti maligni tra milizie etniche quartiere per quartiere, in stile Mogadiscio. Il primo ministro, Gulbuddin Hekmatyar, scaricava costantemente raffiche di centinaia di missili che avevano l’abitudine sfortunata di cadere sulle teste dei cittadini innocenti di Kabul invece che sui nemici. Ho visto bambini di dieci anni combattere a fianco dei miliziani. Viaggiare di notte era fuori discussione, bande di ogni tipo vagavano per la campagna rapinando e sequestrando a loro volere. Centinaia di migliaia di afghani morivano, e anche di più fuggivano dal paese. Ho visitato di nuovo il paese nel 1997, un anno dopo che i talebani avevano conquistato il potere. Questa volta le strade erano silenziose e le donne coperte da capo a piedi. Feroci talebani con turbante nero, guardiani della pubblica morale, giravano per le città a bordo di veloci pick up, fermandosi per aggredire, picchiare o arrestare gli uomini le cui barbe erano della lunghezza sbagliata e le donne i cui piedi erano visibili. Un giorno, vidi un uomo per terra, accartocciato sotto i colpi di bastone di una guardia talebana. L’uomo non aveva pregato all’ora esatta.
Nell’Afghanistan dei talebani i giorni passavano con estrema lentezza. Non c’era niente da fare, alcun posto dove andare. Non c’era musica da sentire, non c’erano film e non c’era alcuna forma di intrattenimento. L’economia era in caduta libera. Kabul era una città fantasma, con soltanto 500,000 mila abitanti rimasti. Gli altri se ne erano andati. Le strade erano quasi senza macchine. Gli unici sguardi veloci che sono riuscito a dare alle donne erano quando queste si dileguavano nelle strade vuote, come spettri vestiti con burqa blu. Quando sono tornato a Kabul nell’inverso del 1999, ero il solo ospite nell’unico hotel funzionante nella città, un Intercontinental che da lungo tempo aveva smesso di avere qualsiasi cosa a che fare con il marchio che portava. Non c’era né il riscaldamento né l’acqua calda e neanche i telefoni funzionavano. Sono stato così fortunato da avere una delle uniche stanze con le finestre lasciate intatte dalla guerra.
Quando ho visitato gli ufficiali del governo afghano ci sedevamo tremando nelle stanze senza riscaldamento dei loro ministeri mentre mi spiegavano quanto Osama bin Laden fosse un uomo incompreso. Oggi, Kabul ha tre milioni di abitanti. Ci sono ristoranti, bar e locali pubblici – e le persone sono amichevoli (tra i giornalisti c’è un segreto che fa sentire molti in colpa: lavorare a Kabul è, beh, divertente). Un decennio fa, soltanto il nove per cento degli afghani aveva accesso alle cure mediche di base, oggi la percentuale è salita all’85 per cento. Sotto i talebani, un milione di bambini (quasi tutti maschi) andava a scuola, adesso sono circa sette milioni (più di un terzo di queste ragazze, una proporzione che è in crescita). Prima dell’occupazione americana, l’Afghanistan aveva un sistema telefonico a malapena funzionante. Oggi, un afghano su tre possiede un cellulare.
Gli afghani prima non avevano accesso ai media tranne la radio talebana “Voce della sharia”. Adesso ci sono, come dice la Bbc, “una moltitudine di stazioni radio, dozzine di canali televisivi e oltre a un centinaio di testate”. Più di cinque milioni di rifugiati afghani sono ritornati a casa. Kabul è diventata così affollata da macchine e persone che lo smog è diventato statisticamente più letale della guerra. Anche l’economia dell’Afghanitan è in piena ripresa. Grazie ai miglioramenti che la Nato e gli Stati Uniti hanno portato, la crescita del pil tra il 2009 e il 2010 è stata del 22 per cento. Questo è soltanto l’inizio. Secondo un accurato studio pubblicato qualche mese fa dal Pentagono, giacimenti minerari non sfruttati dal valore di 900 miliardi aspettano di essere portati alla luce in Afghanistan, compresa una riserva di litio bastevole a rendere il paese uno dei maggiori esportatori mondiali di materiale grezzo per batterie. I cinesi hanno già pagato tre miliardi di dollari per avere i diritti su una miniera di rame vicino a Kabul e l’anno scorso Jp Morgan ha fatto un accordo sullo sfruttamento di una miniera d’oro nel nord dell’Afghanistan per un valore di 50 milioni di dollari. Non c’è da stupirsi quindi che il 70 per cento degli afghani abbia detto ai sondaggisti della Bbc che il paese sta andando adesso nella giusta direzione (per avere un confronto, in un sondaggio condotto dal New York Times e da Cbs in aprile il 70 per cento degli americani ha detto che gli Stati Uniti stanno andando nella direzione sbagliata).
E’ anche il motivo per cui a sorpresa gli afghani giudicano positivamente i militari americani anche dopo un decennio di occupazione disordinata: il 68 per cento sono favorevoli ai militari, secondo un sondaggio condotto dalla Bbc e l’Abc pubblicato nel gennaio del 2010 (per contro, gli iracheni erano favorevoli alla presenza militare americana nel loro paese soltanto al 22 per cento). E’ vero che la sicurezza complessiva è di recente peggiorata in Afghanistan, ma molto è dovuto all’aumento delle operazioni militari. E’ quello che è successo all’inizio del “surge” in Iraq.
L’Afghanistan rimane un posto più sicuro di paesi come la Russia o il Messico, dove la tensione politica e la violenza criminale uccidono in proporzione più persone. Oggi gli abitanti di New Orleans hanno una possibilità cinque volte maggiore di essere assassinati che i civili afghani di essere uccisi in guerra. Anche un deprimente studio della Rand che analizza il successo degli insorti conteneva scoperte incoraggianti. Una delle più importanti è la realizzazione che, quando un governo ha in proporzione una forza significativamente superiore (9:1 o maggiore), questo rapporto “è fortemente correlato con il successo” nello sconfiggere gli insorti. La proiezione della forza dell’esercito afghano e della polizia è di 375,000 uomini, la forza dei talebani è stimata a circa un decimo di questa.
Queste cifre non prendono in considerazione le forze militari straniere, cinque volte questa, che sostengono il governo afghano. C’è di più: secondo lo studio del Rand, “contrariamente alla concezione popolare, gli insorti non possono vincere tentando semplicemente di sopravvivere più a lungo del governo. Infatti, nel lungo periodo, i governi tendono a vincere più spesso che a essere sconfitti.” Se da un punto di vista il lungo termine può essere troppo esteso – al governo colombiano ci sono voluti più di quattro decenni per sconfiggere una volta per tutte il Farc – rimane il fatto che il tempo gioca contro gli insorti, specialmente in vista del rinnovato impegno degli Stati Uniti. Anche se la promessa della Casa Bianca di rimanere in Afghanistan sembra decisiva, le voci che chiedono il ritiro sono in aumento costante.
Un esempio clamoroso del nuovo consenso in crescita è emerso qualche mese fa, quando l’ambasciatore di Gorge W. Bush in India, Robert Blackwill, ha scritto in Foreign Affairs che “Washington dovrebbe accettare che i talebani inevitabilmente controlleranno la maggior parte della zona Pashtu nel sud e nell’est del paese”. Dicendo ciò sosteneva di fatto la spartizione dell’Afghanistan come “la migliore alternativa possibile al fallimento strategico”. La proposta era semplicemente l’espressione più estrema di sentimenti che sono adesso comuni nell’establishment della politica estera americana: basta con l’Afghanistan, facciamocene una ragione. La spartizione e il ritiro suonano come soluzioni semplici e allettanti; ma sembra che Blackwill e altri non siano in grado di afferrare appieno i problemi che tali proposte comportano. Per prima cosa, con chi negozieremmo la spartizione? I cosiddetti “moderati” nel movimento talebano si sono riconciliati ormai da tempo con il governo afghano. I combattenti talebani rimasti si sono divisi in numerosi gruppi, uno più estremista dell’altro.
E chi ci garantisce che i talebani onoreranno la loro parte del patto? Accordi tra il governo pachistano e i talebani in Waziristan e nello Swat sono stati meramente i preludi a “emirati” brutali fondati dai talebani, che da quelli sono ripartiti per muovere alla conquista di altro territorio nelle aree vicine. I costi umani della spartizione o del ritiro sarebbero orrendi. Quando i talebani presero il controllo della meta turistica pachistana di Swat, tra il 2008 e il 2009, imposero un regno di terrore, decapitarono poliziotti e lasciarono i loro corpi a marcire in pubblico, bruciarono scuole femminili e frustavano in pubblico le donne accusate di adulterio.
E finalmente, ci sono i costi strategici. Sì, Osama bin Laden è morto, ma al Qaida esiste ancora e non c’è alcuna ragione di credere che un governo talebano ricostituito sarebbe meno ospitale nei confronti di al Qaida deileader talebani degli anni ’90. Dopo l’11 settembre, il Mullah Omar ha perso tutto per proteggere Bin Laden e da quel giorno non ha mai detto niente per distanziarsi da quella decisione fatale. Di certo, soltanto perché sarebbe meglio vincere in Afghanistan non significa che ci riusciremo. Ma, quando vedo i segnali positivi che stanno emergendo dal paese, e quando confronto questi indicatori con le conseguenze che avrebbe una ritirata veloce, penso che la scelta migliore per gli Stati Uniti sia restare.
Durante una guerra, le percezioni tendono a rimanere indietro di una distanza considerevole rispetto alla realtà. In Afghanistan, si è pensato ai nostri sforzi come a un successo per molti anni anche quando le cose, negli ultimi anni, sono iniziate a peggiorare sul campo. Oggi, pare che abbiamo il problema opposto: ci sono dei miglioramenti che sono però rinnegati perché la narrativa dominante è quella della sconfitta. Rimanere in Afghanistan non è la decisione politica più facile: la guerra continuerà a essere controversa e sarà criticata sia da destra sia da sinistra. Da un certo punto di vista potrebbe anche mettere in pericolo la rielezione di Obama. Nonostante tutto però, il presidente ha fatto la sua decisione e sembra che gli rimarrà fedele. Questo, sono convinto, è un fattore positivo per l’Afghanistan. Un giorno, spero, realizzeremo che è stato positivo per gli Stati Uniti.
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