Interrogatori di Guantanamo decisivi per catturare Osama bin Laden analisi di Alan Dershowitz, Daniele Rainei, Luigi De Biase, Alberto Negri
Testata:Il Foglio - La Stampa - Il Sole 24 Ore Autore: Daniele Raineri - Luigi De Biase - Alan Dershowitz - Alberto Negri Titolo: «Bin Laden confidential. La lunga caccia a Osama è partita da lontano - Interrogatori decisivi. Legittimi, se servono a salvare molte vite - Il business di al-Qaida resiste»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 04/05/2011, a pag. 1-III, l'articolo di Daniele Raineri e Luigi De Biase dal titolo " Bin Laden confidential. La lunga caccia a Osama è partita da lontano". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Alan Dershowitz dal titolo " Interrogatori decisivi. Legittimi, se servono a salvare molte vite ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 8, l'articolo di Alberto Negri dal titolo " Il business di al-Qaida resiste ". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Alan Dershowitz : " Interrogatori decisivi. Legittimi, se servono a salvare molte vite "
Alan Dershowitz
Ci sono due opinioni sul ruolo che gli interrogatori condotti nel carcere di Guantanamo hanno avuto per consentire l’eliminazione di Osama bin Laden. Da un lato c’è chi ritiene che siano stati determinanti per indirizzare gli investigatori verso il rifugio pakistano del leader di Al Qaeda, dall’altro invece c’è chi obietta che determinante è stato il ruolo dell’intelligence, riuscita a mettere al posto giusto tutti i tasselli del mosaico. Non credo giungeremo a un accordo e i dissensi rimarranno nel tempo anche perché molti dettagli dell’operazione resteranno coperti dal segreto.
Per quanto mi riguarda, ritengo che gli interrogatori di Guantanamo siano stati decisivi. A volte sono stati condotti con il «waterboarding» e io sono contrario alla tortura nei confronti dei detenuti, ma quando si tratta di ottenere informazioni capaci di salvare la vita di innumerevoli civili allora è legittimo adoperare anche tecniche di interrogatorio dure, pur di avere le informazioni utili a scongiurare il peggio.
Sulla pericolosità di Osama bin Laden per la collettività nessuno poteva avere dubbi e dunque qualsiasi tecnica di interrogatorio per arrivare alla sua cattura o eliminazione è stata a mio avviso legittima.
C’è anche chi contesta al presidente la legittimità di aver ordinato di uccidere Osama Bin Laden ma non sono d’accordo con tali obiezioni. Bin Laden era un soldato in guerra contro di noi e in guerra i soldati nemici si uccidono. Se durante la Seconda Guerra Mondiale avessimo potuto, avremmo volentieri eliminato Adolf Hitler. Barack Obama è il comandante in capo delle forze armate che ha ordinato un’operazione militare contro un pericoloso nemico e dunque si tratta di un atto legittimo. Ciò che mi sorprende è il fatto che a dare il loro plauso all’esecuzione mirata di Bin Laden siano i governi europei, penso alla Francia, alla Gran Bretagna o all’Italia, come anche un giornale come il «New York Times», che quando simili attacchi contro i terroristi li lanciava Israele facevano a gara nel condannarli, parlando senza fondamento di azioni illegittime e diritti violati. Se un terrorista uccide i civili di una nazione, tale nazione ha diritto di difendersi considerandolo un obiettivo legittimo di una guerra che quello ha iniziato.
Il FOGLIO - Daniele Raineri, Luigi De Biase : " Bin Laden confidential. La lunga caccia a Osama è partita da lontano "
Daniele Raineri, Luigi De Biase
Da Guantanamo a Geronimo. L’operazione Geronimo, il raid di quaranta specialisti dei Navy Seal con cui l’esercito americano ha ucciso Osama bin Laden, non è partita da una caserma sul territorio del Pakistan ma da Guantanamo, il carcere di massima sicurezza che la Casa Bianca ha voluto per combattere il terrorismo quando il presidente era ancora George W. Bush. E’ un particolare nitido nei rapporti degli ufficiali che hanno partecipato al colpo di Abbottabad, a partire da Barack Obama, il successore di Bush alla Casa Bianca, lo stesso uomo che ha lottato a lungo per chiudere la prigione – salvo poi riconoscerne l’efficacia, prima in maniera implicita e ora decisamente esplicita. Come racconta il New York Times, è stato dopo il 2002, quando gli agenti della Cia hanno cominciato a radunare i prigionieri di al Qaida nelle proprie carceri, che i servizi segreti sono riusciti a raccogliere i primi indizi sul rifugio segreto di Bin Laden. I lunghi interrogatori agli operativi della rete terroristica – denunciati più volte dai quotidiani liberal e dalle organizzazioni umanitarie per le pratiche al limite della legge – hanno permesso di ricostruire la mappa degli uomini vicini all’emiro e la catena di servitori e messaggeri che si è mossa per anni intorno a lui. In questa lunga caccia gli analisti della Cia hanno raccolto e confrontato migliaia di informazioni in arrivo da Guantanamo e dalle prigioni segrete seminate fra l’Afghanistan, la Thailandia e l’Europa dell’est. Già nel 2005 il Washington Post aveva descritto l’esistenza di “siti neri” in un paese europeo e di un’installazione militare conosciuta con il nome in codice di “Salt Pit” che si trovava in Afghanistan e aveva ospitato decine di terroristi. Le confessioni e i silenzi messi insieme al termine degli interrogatori sono stati il punto di partenza per il piano che, lunedì mattina, ha portato quattro elicotteri americani sopra una villa ben protetta alla periferia di Abbottabad, nel nord del Pakistan, l’ultimo rifugio di Osama bin Laden. Il messaggero venuto dal Kuwait. Tutto è partito nel 2005 con il nome di un uomo, Abu Ahmad, un terrorista del Kuwait che alcuni prigionieri hanno identificato come il messaggero di Bin Laden. Gli uomini della Cia hanno ricostruito la sua storia pezzo dopo pezzo, unendo qualche prova e tanti frammenti, ma hanno impiegato quasi due anni per comprendere chi fosse veramente. Ci sono riusciti appena hanno avuto la possibilità di incontrare due comandanti di al Qaida: Khalid Sheikh Mohammed, il grande stratega dell’attacco alle Torri gemelle, e Abu Faraj al Libi, un capo operativo della rete. Durante gli interrogatori, i due hanno giurato di non aver mai sentito il nome del messaggero. Le loro parole hanno convinto gli investigatori che la pista fosse valida. Khalid Sheikh Mohammed, come Abu Ahmad, è originario del Kuwait. Secondo Riduan Isomuddin, un terrorista indonesiano rinchiuso in un carcere della Thailandia, i connazionali si conoscevano bene. Khalid Sheikh Mohammed si sarebbe rivolto proprio ad Abu Ahmad per trovare un rifugio sicuro a Karachi, nel sud del Pakistan, assieme alla moglie: era impossibile che non avesse mai sentito il suo nome. Seguendo gli spostamenti di Ahmad, la Cia ha stabilito anche il suo ruolo nella struttura di al Qaida, dall’attacco alle Torri gemelle sino agli incarichi ricoperti negli ultimi mesi. Un portavoce dell’Amministrazione americana ha fatto sapere ieri che le informazioni sul suo conto non state raccolte usando il waterboarding, una tecnica che simula l’affogamento ed è paragonata alla tortura. Il messaggero ha combattuto a Tora Bora, uno dei santuari di al Qaida in Afghanistan, ma ha anche addestrato Maad al Qatani, il ventesimo dirottatore dell’11 settembre, quello che non ha colpito perché non ha ottenuto il permesso di entrare negli Stati Uniti. E ha inavvertitamente condotto alla villa di Bin Laden i Navy Seal, che lo hanno spiato per mesi, lo hanno seguito mentre si muoveva a bordo di una jeep bianca fra le strade della città, lo hanno pedinato dal cielo senza che se ne potesse accorgere. Nella storia di Abu Ahmad c’è ancora un mistero: il Pentagono non ha ancora fatto sapere se è morto durante il raid, se è riuscito a fuggire, o se si trova in una base americana. L’archivio segreto dell’emiro. L’altro mistero riguarda i computer di Bin Laden e l’altro materiale che i Navy Seal hanno trovato e sequestrato nella villa di Abbottabad. A Washington pensano che quei dati siano un tesoro, al punto che John Brennan, il consigliere della Casa Bianca per la sicurezza, ritiene che gli Stati Uniti siano oggi in grado di sconfiggere al Qaida una volta per tutte. “Il colpo che abbiamo portato a termine ha ridotto la capacità del network – ha detto ieri Brennan alla Cnn – Ora per loro sarà molto più difficile operare sia in Pakistan, sia fuori dai suoi confini”. Uno “strike team” è entrato in azione nel rifugio di Bin Laden e ha sottratto computer, hard disk, dvd e documenti che appartenevano con ogni probabilità al leader carismatico di al Qaida, e che sono considerati un “vena aurifera”, come scrive la rivista web Politico. Il materiale è esaminato in queste ore in una località segreta dell’Afghanistan e arriverà nei prossimi giorni a Washington. “Centinaia di esperti sono già pronti a lavorarci su – ha rivelato al Politico una fonte della Cia – Riuscite a immaginare che cosa c’è nell’archivio di Osama? Saremmo soddisfatti anche se riuscissimo a decifrare soltanto il dieci per cento di quelle informazioni”. Operazione Cannonball. Le informazioni raccolte a Guantanamo e nelle prigioni segrete non sono l’unica svolta nella lunga caccia a Bin Laden. Nel 2005, le tracce dell’emiro sono sempre più labili e stanno per sparire del tutto. Non ci sono più elementi utili. La reazione è l’operazione Cannonball. Il capo delle operazioni clandestine, Jose A. Rodriguez Jr, nomina un nuovo capo del Centro antiterrorismo, il cui nome è segreto, e spedisce “dozzine” di altri agenti operativi in Pakistan. Al quartier generale di Langley in Virginia non c’è lo spazio per ospitare un altro centro di comando, così si decide di alzare un tendone climatizzato fuori dalla caffetteria, per ospitare la squadra dedicata alla caccia di Bin Laden. In Pakistan, la nuova operazione è portata avanti da veterani richiamati da altre parti del mondo ma anche da novellini appena usciti dalla “Fattoria”, il centro d’addestramento dell’agenzia a Camp Peary, in Virginia. L’operazione Cannonball, su ordine dell’Amministrazione Bush, inaugura anche la collaborazione tra le squadre speciali militari e i civili dei servizi segreti. Si progettano raid clandestini a terra, come quello che domenica ha eliminato Bin Laden, ma non sono compiuti (a eccezione, forse, di un raid nel 2007 contro un campo dove vivono alcune guardie del corpo del leader qaidista). Il lavoro sporco è lasciato ai droni dal cielo, ma a terra la rete di spie in azione diventa fittissima e da quel momento continua a crescere. “Con più agenti sul campo – scrive il New York Times – la Cia ottiene finalmente il nome di famiglia del corriere. Con quello in mano, possono andare da uno dei più grandi strumenti d’indagine a loro disposizione: la National Security Agency comincia a intercettare le chiamate telefoniche e le e-mail fra la famiglia dell’uomo e chiunque dentro il Pakistan. Grazie a questa procedura, ottengono il suo nome completo”. E’ il 2006, piena era Bush. Il 20 settembre, alla Cnn, il presidente repubblicano dice: “Se scoprissimo Osama in Pakistan, manderei le truppe a prenderlo”. Il presidente Musharraf risponde tremando: “Non ci piacerebbe dare il permesso a questa cosa”. Tutti fermi, Davis è in cella. Come se già il caso non fosse complicato – c’è da seguire i corrieri di al Qaida in un ambiente ostile e straniero, senza farsi scoprire – il 27 gennaio un contractor americano della Cia, Raymond Davis, combina un disastro. A un semaforo di Lahore è affiancato e superato da due uomini a bordo di una motocicletta, uno ha in mano una pistola, Davis estrae la propria, spara cinque colpi attraverso il parabrezza e li uccide entrambi. Poi esce dalla macchina e scatta fotografie ai due corpi: non sembra la storia di una rapina normale finita male. Chiama via radio i rinforzi, pochi minuti dopo una Land Cruiser Toyota con targa contraffatta e quattro agenti della Cia a bordo arriva di corsa sul posto, ma c’è un ingorgo, salta lo spartitraffico per fare prima, uccide un motociclista che sta arrivando in senso contrario. I quattro occupanti non possono prelevare Davis, lui finisce in prigione. Nicholas Kristof, sul New York Times, si chiede se c’è una correlazione tra quello che stava facendo Davis e l’operazione per eliminare “Geronimo” Bin Laden. Non si sa quale fosse la sua missione, ma si sa che da quel momento scoppia una guerra tra i servizi segreti pachistani e quelli americani. I primi chiedono che la Cia: 1) dimezzi il numero dei propri agenti al lavoro sul campo; 2) metta a parte l’Isi, i servizi segreti di Islamabad, delle informazioni in suo possesso. Entrambe le cose farebbero fallire sicuramente la caccia a Bin Laden. I pachistani forse hanno capito che gli americani stanno stringendo sul bersaglio grosso? L’unica cosa certa è che con Davis in cella la Cia non può dare il via libera: lo staff di Obama teme che qualsiasi attacco militare per catturare o uccidere il capo di al Qaida potrebbe provocare una reazione rabbiosa del governo del Pakistan e mettere in pericolo la vita dell’americano in cella. Per tre settimane, persino le operazioni quasi quotidiane dei droni americani sulle aree tribali si fermano. Circa 330 agenti americani fanno i bagagli per lasciare il paese. Poi, grazie all’intervento dei sauditi che mediano e pagano un milione e mezzo di dollari alle famiglie dei due uccisi, Davis è libero un paio d’ore dopo la condanna per omicidio. Non ci sono più intoppi, l’operazione può proseguire. I cacciatori del Jsoc. L’uomo a cui il presidente Obama fino a quattro giorni fa telefonava con ansia per sapere a che punto erano i preparativi per l’operazione Geronimo è il generale William H. McRaven, capo del Jsoc, il comando unificato delle operazioni speciali. Questo è un pezzo di Newsweek del 2004: “Il nuovo lavoro di McRaven non potrebbe essere più in cima di così alla lista di cose da fare del presidente George W. Bush per il 2004, anno d’elezioni: inchiodare Osama bin Laden”. Questa era la missione, questo è quello che il comandante ha fatto, seppure con sette anni di ritardo e sotto un altro presidente. McRaven è stato tra gli autori della strategia antiterrorismo nella Casa Bianca di Bush nel dopo 11 settembre e ha scritto anche un libro – di pubblico dominio – sulle operazioni chirurgiche delle forze speciali, dal raid nazista per liberare Benito Mussolini nel 1943 al raid israeliano su Entebbe nel 1976. La sua tesi di laurea oggi è una lettura obbligatoria per gli ufficiali dei corpi d’élite. Scriveva ancora Newsweek nel 2004: l’unità di McRaven “rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo nell’arte della guerra, un puro ibrido di intelligence civile e potenza di fuoco militare. A oggi è la miscela più ambiziosa di agenti Cia, forze speciali e aviazione”. Il Jsoc comandato da McRaven e che ha ucciso Bin Laden era la luce degli occhi di Bush, che l’aveva definito “awesome”, fantastico, del vice Dick Cheney e del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Cheney e Rumsfeld furono anche criticati perché si rivolgevano direttamente al Jsoc, saltando la tradizionale catena di comando militare. Il loro ammiraglio è un ex Seal della Marina: questo spiega la scelta domenica scorsa di mandare i suoi uomini a coprirsi di gloria ad Abbottabad, e non i rivali della Delta Force.
Il SOLE 24 ORE - Alberto Negri : " Il business di al-Qaida resiste "
Osama bin Laden
Quando Osama Bin Laden arriva in Afghanistan e comincia a scavare con i bulldozer dell'azienda di famiglia i tunnel per i mujaheddin anti-sovietici è ancora un amico dell'America, ben inserito nell'establishment internazionale.
Suo padre Muhammad, muratore dell'Hadramaut yemenita diventato un magnate dell'edilizia, aveva lasciato a suoi 54 figli un'eredità di 11 miliardi di dollari e il Bin Laden Group: a ogni maschio spettava una quota sugli utili del 2,2 per cento (metà alle femmine, secondo la legge islamica). Dal 1970 al 1994 Osama incassa 24 milioni di dollari di dividendi.
Osama dunque era ricco quando nasceva al-Qaida ma non nella misura grottesca che gli è stata attribuita. Per questo si è sempre dato da fare a raccogliere fondi. Soltanto lui poteva vantare un certo tipo di contatti ad alto livello: rampollo di una famiglia legata alla monarchia saudita, incontrava principi, presidenti e generali.
È interessante, per capire nel tempo le dimensioni finanziarie del network, il racconto che fece a Islamabad Kahlid Khawaja, ex capo del famoso Afghan Bureau dell'Isi, i servi militari pakistani. «Con il generale Hamid Gul organizzai un fronte di partiti per contrastare il premier Benazir Bhutto: fu il suo avversario Nawaz Sharif a chiedermi di vedere Osama». Ci furono cinque incontri ma fu storico quello al Green Palace di Medina.
Osama gli chiese se amasse la Jihad: «Certamente», rispose Sharif. Bin Laden allora gli tagliò davanti tre diverse porzioni di riso: «Questa è la più grande: rappresenta l'amore che nutri per i tuoi figli, questa di dimensioni inferiori è l'amore per i tuoi genitori, la più piccola indica la tua devozione per la Jihad». «Sharif chiedeva a Osama un contributo di otto milioni e mezzo di dollari; ne ricevette qualcuno di meno ma in compenso fu introdotto alla corte saudita che poi lo ha sempre protetto».
Con ingenti fondi a disposizione, Bin Laden , prima ancora di comprarsi il Mullah Omar e di organizzare gli attentati dell'11 settembre, aveva portato dalla sua parte politici e generali. L'ex capo di stato maggiore Aslam Beg disse senza difficoltà che Osama aveva foraggiato la sua campagna elettorale.
Per molti anni la principale fonte di finanziamento di Bin Laden è stato l'establishment saudita, con l'appoggio convinto del principe Turki al Feisal, allora capo dei servizi, ambasciatore in Usa e prossimo ministro degli Esteri. I sauditi in seguito ripudieranno Osama, fino a rifiutarne persino il cadavere ma allora lo sostenevano: «Per ogni dollaro fornito dall'America ai mujaheddin un altro veniva messo a disposizione dall'Arabia Saudita», racconta nelle sue memorie il generale pakistano Mohammed Yousaf.
L'holding Bin Laden della guerriglia afghana, a fine anni 80, aveva un bilancio ragguardevole: 600 milioni di dollari, in gran parte donazioni di privati e fondazioni saudite.
Ma dopo l'11 settembre al-Qaida diventa decisamente meno ricca e Bin Laden non può più esercitare il suo ruolo di fund raiser: alla vigilia delle Due Torri la Cia stima un “fatturato” di 30 milioni di dollari, di cui la metà ai talebani. Osama restava un simbolo ma non era più così importante, anche dal punto di vista economico.
Al-Qaida rappresenta comunque una svolta strategica nella storia dell'Islam militante e del terrorismo. In primo luogo la Jihad si espande su scala mondiale e non si limita al Dar Islam, la terra musulmana. Poi c'è la dimensione transnazionale: per colpire ha reclutato nelle comunità islamiche di tutto il mondo e tra gli immigrati.
Bin Laden non è l'ideatore della Jihad ma un “imprenditore” del terrorismo che con le sue doti di organizzatore ha creato un marchio multinazionale. Un ruolo importante è rivestito sicuramente dagli ex militanti dell'Afghanistan che rappresentano le liasons con i gruppi afghani e pakistani: sono stati loro in molti casi a fare lo start-up, l'avvio, delle nuove fabbriche della Jihad.
È questa la storia dell'al-qaidismo. Si spiega così la nascita di sigle che rivendicano attentati, dallo Yemen al Nordafrica, mentre alcuni gruppi terroristici, partendo da basi locali e sfruttando le aree grigie, economiche e politiche, lasciate libere da stati semi-falliti, creano dei network per stringere rapporti internazionali utili a procurarsi armi e finanziamenti. I metodi di Osama, la sua storia di “terrorista di successo”, sono stati imitati e costituiscono un tragico modello, anche se, forse, non facilmente replicabile.
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