Chi era Osama bin Laden Ritratti di Giulio Meotti, Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 03 maggio 2011 Pagina: 7 Autore: Giulio Meotti - Carlo Panella Titolo: «Le sure di Osama Bin Laden - L'asso del male»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/05/2011, a pag. III, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Le sure di Osama Bin Laden ", a pag. II, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " L'asso del male ". Ecco i pezzi:
Giulio Meotti - " Le sure di Osama Bin Laden "
Giulio Meotti
Nell’annunciare la grande operazione che ha portato alla morte del capo di al Qaida, il presidente americano Barack Obama ha affermato: “Osama bin Laden non era un leader islamico”. Obama ha ragione quando ricorda che il leader terrorista ha seminato morte e macerie soprattutto fra i musulmani (delle 40 mila persone uccise per mano di al Qaida in vent’anni gran parte erano civili islamici). Ma il piede di Bin Laden affondava molto addentro alla tradizione jihadista che è parte integrante della storia primigenia dell’islam. Ieri Hamas, da Gaza, ha pianto Bin Laden come “guerriero santo”. Affermare che Bin Laden non c’entra nulla, ma proprio nulla, con l’islam significa negare che nell’islam sia in corso una guerra teologica devastante. Significa prediligere la seconda risposta della celebre domanda posta dal grecista americano Victor Davis Hanson: “I terroristi di al Qaida sono impegnati in una guerra per distruggere la cultura occidentale oppure sono soltanto una banda di criminali a cui è andata bene l’11 settembre?”. I movimenti jihadisti oggi si rifanno intenzionalmente ai combattenti jihadisti del passato, e di continuo rievocano le loro gesta. Tutti i bollettini di Bin Laden ricalcavano detti sapienzali islamici. “Oh Allah, sconfiggi il politeismo e i politeisti, esibisci al mondo la bandiera del monoteismo, punisci i pervertiti”, recitava un proclama di al Qaida contro le elezioni in Iraq nel 2004. Fonte: un detto di Ibn al Mawsiliayah dell’XI secolo: “Oh Allah, innalza il vessillo dell’islam e sconfiggi il politeismo”. Gli Hadith (le sentenze del Profeta), la Sunna (la tradizione) e il Corano medesimo parlano di tolleranza e fratellanza, della protezione di vedove e orfani, dell’obbligo dell’elemosina, della giusta spartizione del bottino e dello “sforzo” di capire l’Altro. Ma i rivoluzionari qaidisti e gli islamisti attingono a piene mani anche dal bagaglio di guerra e sottomissione che risuona, con vigore, dal grande libro sacro. Anche fisicamente si dice che Bin Laden ambisse a emulare i padri dell’islam. Indossava spesso una veste bianca con un leggerissimo mantello color cammello drappeggiato sulle spalle. Parlava con una voce monotona, soporifica, agitando l’indice lungo e ossuto. Tramite messaggi in falsetto Bin Laden si rivolgeva ai giovani islamici dall’Asia Minore al Golfo e al Subcontinente indiano. Il magnifico saggio di Steve Coll “The Bin Ladens” ci trasmette un uomo che ripeteva come i versetti del Corano andassero recitati nelle mani a coppa e sfregati sul proprio corpo, così che il loro potere potesse essere, letteralmente, incorporato. Ai suoi fedelissimi, nascosti nelle grotte di Tora Bora, la “montagna bianca” composta da cunicoli scoperti nell’antichità e riutilizzati durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Bin Laden era solito ripetere dal Corano “la sura della caverna”. Parla di sette pastori che, non volendo abiurare la fede, preferirono essere murati vivi dentro una grotta situata nell’odierna Turchia. Secondo la leggenda, tre secoli dopo la grotta fu scoperta e i dormienti si risvegliarono, convinti di aver dormito una sola notte. Bin Laden faceva leva sulla costellazione d’immagini che la caverna evoca nei musulmani per sostenere la resistenza fra quelle grotte formate da quarzi straordinariamente duri. Come ha spiegato Lawrence Wright nel libro “Le altissime torri” (Adelphi), Bin Laden diceva che “in questa guerra “i credenti sono aiutati dalle mani invisibili degli angeli” e che “i corpi dei martiri non si decompongono, ma rimangono puri e odorosi”. “Uccidere gli idolatri ovunque si trovino” e “combattere coloro che non credono in Dio finché non paghino il tributo uno per uno” sono soltanto due fra i tanti versetti del Corano citati nei discorsi del capo di Al Qaida. Alcuni studiosi islamici spiegano queste ingiunzioni dicendo che valgono soltanto nel caso di una guerra iniziata dagli “infedeli”, o quando i musulmani sono perseguitati, o l’islam stesso si trova minacciato. Ma quel che conta è che Bin Laden e gli islamisti radicali fossero persuasi che il jihad non finisce mai. La vita e la morte di Osama bin Laden sono il frutto dell’esaltazione islamista della morte a scapito della vita. Nel manifesto del 1995 con il quale ruppe con la casa reale Saud, Bin Laden costruì il suo ragionamento legalistico tutto sul Corano e sui commentari dei dotti islamici, secondo i quali un re può essere tacciato di essere un “infedele”. Agli occhi di Bin Laden, il fatto che il re saudita tollerasse leggi fatte dall’uomo e la presenza di truppe infedeli dimostrava che il sovrano era apostata e andava rovesciato. L’anno dopo, sul giornale londinese Al Quds al Arabi, uscì il testo della fatwa emessa dal “Fronte islamico internazionale per il jihad contro gli ebrei e i crociati”. La lettera era firmata da Bin Laden (a titolo individuale); Ayman al Zawahiri in quanto leader del gruppo egiziano al jihad che aveva ucciso Anwar al Sadat; da Rifai Taha in quanto leader del Gruppo islamico; dallo sceicco Mir Hamzah, segretario della pakistana Jamiat-ul-Ulema; da Fazlur Rahman, capo della pakistana Harakat al Ansar; e dallo sceicco Abd as Salam Mohammed Khan, leader di Harakat al jihad (Bangladesh). Bin Laden aveva due nemici principali. Gli ebrei, che definiva “assassini dei profeti”, e la democrazia (“la sharia è superiore a un pezzo di carta che si presenta come il consiglio del popolo”). Anche per giustificare l’attacco alle Torri gemelle di New York, Bin Laden usò un versetto del Corano. E’ la quarta sura, che recita: “Dovunque siate vi coglierà la morte, anche se foste su altissime torri”. Bin Laden esortò i diciannove suicidi a farsi martiri, a rinunciare alle vite così promettenti che li attendevano per la gloria più grande in serbo per loro. “Sono oltre venti anni che siamo nella bocca del leone”, dirà loro Bin Laden. “Grazie alla misericordia e al favore di Allah: i missili Scud russi ci hanno dato la caccia per più di dieci anni, e i missili da crociera americani ci hanno perseguitato per altri dieci anni. Il credente sa che l’ora della morte non può essere né affrettata né ritardata”. Credeva in un sanguinario conflitto destinato a concludersi con l’egemonia dell’islam. Per citare le parole di Bin Laden, i combattenti jihadisti di tutto il mondo stanno lottando “affinché la parola e la religione di Allah regnino supreme”. Il che comporta il ripristino totale della legge islamica nei paesi musulmani e soprattutto la restaurazione del califfato. Il califfo era il successore di Maometto e la massima autorità della comunità musulmana, finché nel 1924 il governo secolare del turco Atatürk non abolì il califfato. Seguendo l’esempio del Profeta, Osama bin Laden, nella sua “lettera al popolo americano” datata novembre 2002 chiamò gli americani a convertirsi all’islam: “A cosa vi stiamo chiamando e cosa vogliamo da voi? In primo luogo vi stiamo chiamando all’islam, così che la parola e la religione di Allah regnino supreme”. Lo stesso grido che è diventato un po’ il sigillo funebre del qaidismo (“gli americani amano la Pepsi Cola, noi amiamo la morte”) Bin Laden lo ha tratto dal Corano, capitolo XIV, terzo versetto: “Coloro che amano questa vita più dell’altra frappongono ostacoli sul sentiero di Allah e cercano di renderlo tortuoso! Sono infossati nell’errore”. Dalla raccolta degli scritti di Al Qaida fatta dal politologo francese Gilles Kepel – stralci di libri, nastri, lettere e documenti pubblicati da Laterza con il titolo “Al Qaeda. I testi”– si capisce come per Osama bin Laden esistesse un complotto giudaico nella storia che ha inizio nell’opposizione delle tribù ebraiche d’Arabia al Profeta. Ebrei e crociati: la loro sconfitta farà crollare i “regimi apostati”, permetterà di ristabilire l’islam purificato e porterà la luce della rivelazione nel mondo alla fine dei giorni. Un dato sconcertante ma sempre trascurato è che né Bin Laden né i suoi seguaci hanno mai chiarito la visione che seguirebbe la vittoria. La loro guerra non è uno scontro terreno, il suo compimento coincide con la conflagrazione della fine dei tempi. Lo scontro non è logico, è teologico. Lo sceicco saudita, il teologo palestinese Azzam, il medico egiziano Zawahiri e lo sgozzatore giordano Zarkawi sono tutti accomunati dalla convinzione, feroce e assoluta, di essere la faccia vera dell’islam, di aver letto in maniera corretta il Corano e interpretare secondo coerenza il volere di Allah. Bin Laden ha giustificato il jihad attraverso la ragion pura coranica. Dalle trincee afghane annunciava: “Noi amiamo la morte sulla via di Dio quanto voi amate la vita, non temiamo niente, anzi speriamo una morte simile”. Si credeva impeccabile esegeta della verità coranica e considerava tutto il resto del mondo, fosse laico-pagano oppure giudaico-cristiano, come una “pura empietà”. Guardava alla concretezza del risultato (“il califfato ben guidato”), invitava alla menzogna (“consiglio di fare ricorso alla dissimulazione”) in nome di una strategia che dice di “attaccare gli infedeli nel loro paese” e “espellere gli infedeli dai nostri paesi”. Il modello fu sempre Maometto, l’abile carovaniere forte di spada. La sua lettera alla famiglia è il testamento di un guerriero: “Mogli mie, avete saputo fin dal primo giorno che la strada è irta di spine e di mine e avete rinunciato ai piaceri della vita, scegliendo gli stenti che comporta il vivere al mio fianco”. Bin Laden aveva pensato anche la sua stessa morte tramite il racconto coranico sacro. Era solito ripetere che, nel momento del trapasso, la sua anima di “martire” sarebbe stata afferrata da Azra’il, l’angelo della morte, accompagnato da ronzio d’api e cinguettio di uccelli, e portata davanti a chi l’avrebbe avviato al regno dei morti. L’anima avrebbe percorso un ponte “più affilato di una spada”. Gli infedeli sarebbero precipitati, i credenti avrebbero raggiunto il “Bacino del Profeta”, la sponda dove dimoreranno in eterno. E il martire sarebbe entrato in Paradiso. Ad accoglierlo, le acque zampillanti di un fiume che avrebbe estinto per sempre la sua sete.
Carlo Panella - " L'asso del male "
Carlo Panella
Roma. Il mondo musulmano tremò la mattina del 20 novembre del 1979 alla notizia della battaglia in corso dentro la sacra Grande moschea della Mecca. Le forze di sicurezza saudite stavano infatti cercando di stanare armi alla mano alcune decine di seguaci dell’ennesimo Messia, Juhayman ibn Muhammad al ’Utaybi, che si era proclamato Mahdi e intendeva abbattere la monarchia dei Saud. Durante la battaglia, la Moschea fu ovviamente chiusa, ma non per i grandi mezzi del cantiere che stava raddoppiando l’immenso edificio e che portavano sui fianchi la scritta Saudi Bin Laden Group. Il ventiseienne Osama, che si era molto impegnato nella ditta del padre nell’impresa di ampliamento dell’edificio più sacro al mondo per l’islam, rimase sconcertato dall’episodio e lo condannò. Ma non passò un decennio e quella prima, clamorosa, ribellione ai sauditi Custodi dei luoghi santi da parte di un erede degli Ikhwan, i guerrieri che avevano portato al potere la dinastia degli al Saud, quale era quel Mahdi, così come la complessa organizzazione di quell’immenso cantiere edile, diventarono i punti di riferimento estremi dell’esistenza di Osama bin Laden. Nato il 10 marzo del 1957 da Hamida, nome di nascita A’alia Ghanem, giovane siriana di Latakia e da Mohammed bin Laden, geniale quanto analfabeta fondatore yemenita del gruppo di costruzione omonimo, Osama bin Laden è sempre vissuto in quella grande “non famiglia” musulmana, dai legami parentali diffusi, tipica dei tradizionalisti islamici danarosi, quale era suo padre. Osama infatti era il diciassettesimo su ben 52 o forse 53 figli, che Mohammed ebbe da una decina e più di mogli che, come Hamida, sposava, poi, avutine due o più figli, ripudiava (in modo da averne sempre non più di quattro contemporaneamente, in rispetto tanto formale, quanto ipocrita della sharia), per poi sposarle – costume molto yemenita – con i suoi collaboratori. Ad Hamida, dopo il ripudio di poco posteriore alla nascita di Osama, era toccato sposare tal Mohammed al Attas, che del Saudi Bin Laden Group era un dirigente di primo piano e fu questa, in realtà, la figura paterna che Osama ebbe, assieme ai tre fratellastri e alla sorellastra. Dal padre vero, tranne le immense disponibilità di denaro e la collocazione sicura nell’impero di famiglia (una delle più grandi imprese di costruzioni del mondo che ha edificato buona parte di Riad e quasi tutte le opere pubbliche dell’Arabia Saudita), Osama ebbe ben poco, anche perché Mohammed bin Laden morì, potentissimo, nel 1967, quando lui aveva solo dieci anni. I suoi biografi, affascinati – et pour cause – dalle sue imprese, hanno sempre sottovalutato il peso che sulla formazione di Osama bin Laden ha avuto il training nella impresa di costruzione dei suoi due padri, quello naturale e quello d’adozione, e questo ha impedito di dare il giusto valore a un aspetto invece determinante in tutta la esperienza di al Qaida: la eccellente capacità di organizzare strutture molto complesse che acquisisce chi dirige immensi cantieri edili in cui operano migliaia di addetti che vanno impiegati secondo moduli cronologici interdipendenti molto complicati. E’ questo, oltre alla insuperabile ferocia, il grande apporto che Osama bin Laden ha dato alla evoluzione del terrorismo moderno, ben più di quanto non abbia dato in termini ideologici, politici e ancor meno teologici: il superamento delle tradizionali strutture “conventuali” o per consorterie della tradizione islamica (la grande tradizione degli Ashashin del Vecchio della Montagna di Alamuth), così come delle asfittiche strutture piramidali a cellula del terrorismo occidentale. Osama ha infatti costruito con al Qaida una complessa rete di strutture a “arcipelago”, ognuna indipendente o interdipendente con le altre, senza rapporto gerarchico l’una con l’altra, ma solo “ispirate”, da una eccellente fonte progettuale (Osama e il suo quartier generale) in grado di fornire “format” complessi per sviluppare progetti innovativi di imprese terroristiche a ogni uso e consumo (grazie anche a Internet). La struttura della complicatissima sequenza di attentati dell’11 settembre 2001, così come l’espansione successiva dei nuclei di al Qaida in tutto il mondo musulmano, dall’Indonesia al Marocco, ha questa indubitabile matrice professionale. Anche perché, secondo Gilles Kepel, in realtà, al Qaida significa solo “Database”, per indicare appunto l’innovativo programma che Osama ha messo a punto per strutturare i rapporti tra le varie cellule. Ben più debole, s’è detto, la formazione e la stessa struttura culturale e teologica di Osama, che iniziò a Gedda, in un liceo in cui forte era l’influenza di insegnanti egiziani e siriani appartenenti ai Fratelli musulmani che re Faisal dell’Arabia Saudita aveva ospitato in massa nei primi anni Sessanta per offrire un riparo dalle persecuzioni scatenate da Nasser. In particolare, racconterà lo stesso Osama, in quel liceo ebbe una grande influenza su di lui il professore di Educazione fisica siriano che lo affascinò con i suoi racconti sulle best practices del fondamentalismo (inclusa la favola edificante del bimbo che ammazza il padre perché “miscredente”). A quattordici anni, nel 1961, una parentesi occidentale, l’unica, un viaggio prima a Beirut e poi a Oxford assieme a due dei suoi tanti fratelli, documentato da una serie di fotografie in cui appare come uno dei tanti old boy, un po’ imbranati, che i ricchi arabi mandavano in giro per l’oriente e per l’Europa, ma di cui non resta nessuna traccia sulla formazione (tranne dicerie varie, ma mai dimostrate, su alcuni suoi stravizi vuoi con bevande, vuoi con ragazze, che sicuramente sono però stati ben praticati da molti dei suoi fratelli, alcuni dei quali hanno vissuto da perfetti occidentali). A diciassette anni, il suo primo matrimonio (combinato, naturalmente) con una ragazza siriana: Najwa Ghanem, sua cugina da parte di madre, che gli darà molti figli (pare una decina sui 25-30 che lui avrebbe avuto, secondo la Cnn, complessivamente dalle sue quattro mogli), e che dopo il 2005 decise di mettere a reddito tanta e tale parentela, pubblicando un libro, “Growing Up bin Laden” (con i cui proventi comprò una bella casa a Latakia in Siria nel 2010), scritto assieme al figlio Omar che ha poi profittato della scabrosa parentela per fare soldi organizzando “corse di cavalli per la pace” e per farsi pagare lauti gettoni di presenza per apparire in varie trasmissioni televisive (con grande fastidio e scandalo degli altri fratelli, alcuni dei quali sono invece stati a fianco del padre, altri hanno fatto vari mestieri, uno è un affermato pubblicitario). Poco si sa delle altre mogli di Osama, si sospetta che una sia in Iran – Teheran anni fa ha confermato l’ingresso nel paese di uno dei figli di Bin Laden insieme “a qualcuno legato alla famiglia” – mentre un’altra, di origine saudita, sarebbe tornata in patria e la quarta sarebbe rimasta al suo fianco. Contemporaneamente al matrimonio, la vera svolta nella formazione di Osama: nella Università Abdulaziz ibn Saud di Gedda la frequentazione dei corsi dell’egiziano Mohammed Qutb e del giordano-palestinese Abdullah Azzam. Il primo era fratello di Sayyid Qutb, impiccato da Nasser, e ideologo di riferimento dell’ala estremista dei Fratelli musulmani (che assassinò Anwar el Sadat nel 1981). Da lui Osama apprese l’odio oltre il limite dell’idiosincrasia verso i costumi dell’occidente (in particolare i “liberi costumi” delle donne occidentali) e una lezione politica tanto semplice, quanto basilare: un vero musulmano non solo può, ma deve uccidere il faraone, soprattutto quando questi si mascheri da falso musulmano. Qutb ha avuto infatti la capacità di elaborare una proposta facilmente comprensibile e apparentemente risolutiva per il dilemma che colpì, a iniziare dal XX secolo, tanti giovani come Osama, sudditi di nazioni apparentemente fedeli al Corano, ma che in realtà sono dominate da élite che conducono una vita scandalosa, come quella dei 6 mila principi della corte saudita. Come fece Maometto, quando distrusse gli idòla pagani venerati alla Mecca (il “regno dell’Ignoranza”), i veri musulmani – sosteneva Qutb – devono abbattere i nuovi idoli del potere, uccidere i regnanti falsi-musulmani e instaurare i principi di vita degli anziani (salaf, da qui salafiti) come si fece durante il governo dei primi quattro Califfi, i “ben guidati”, alla morte del Profeta. Abdullah Azzam, professore di Giurisprudenza islamica, come i due Qutb affiliato ai Fratelli musulmani, aggiunse a questa semplice indicazione programmatica il proprio eccellente fascino personale, la propria capacità di convinzione e soprattutto l’esempio: fu tra i primi a trasferirsi in Afghanistan per combattere l’invasione dei “senza Dio” sovietici e da lì a chiamare a sé intere leve di giovani sauditi. Osama si impegnò in Afghanistan sempre forte delle caratteristiche, oltre che delle immense disponibilità, della “ditta di famiglia”. Col beneplacito del principe Turki bin Faisal, responsabile del Mukhabarat, i servizi segreti sauditi, a cui gli Stati Uniti (in piena crisi dopo i colpi subiti prima in Vietnam e subito dopo in Iran) avevano affidato il supporto della resistenza afghana, il giovane rampollo dei Bin Laden nel 1979 diventò uno dei responsabili del Maktab al Khidamat (Mak), l’organizzazione che convogliava denaro, armi e combattenti dall’Arabia Saudita per la guerra afghana. Compito che il ventiduenne Osama, il quale non proseguì gli studi ma aveva già esperienza nell’impresa di famiglia, affrontò con entusiasmo e con grande efficienza, eccitato anche dalla fatwa emessa dall’amico Azzam (di lì a poco morirà combattendo i sovietici) che obbligava al jihad in terra afghana tutti i musulmani. Nei primi anni Ottanta, come spiega Gilles Kepel, l’impegno armato in Afganistan era tanto di moda tra i principi sauditi che si organizzavano delle specie di “settimane bianche del jihad”. I rampolli delle famiglie nobiliari del Golfo si facevano depositare da elicotteri, a proprie spese, Suv e armamenti sui più impervi monti afghani e per alcune settimane partecipavano ai frisson della guerriglia antisovietica, salvo poi tornarsene in patria, agli agi di sempre, dopo poco. In questo contesto, Osama non solo centralizzò e controllò il flusso di enormi capitali, ma entrò anche in contatto e in amicizia con i figli della crème de la crème delle famiglie saudite e degli Emirati, un retaggio di conoscenze che gli sarà utile negli anni della clandestinità. Terminata nel 1989 con una vittoria l’esperienza afghana, Osama offrì la propria rete di contatti armati alla corte saudita per difendere il regno dalla minaccia portata dall’invasione del Kuwait da parte di un Saddam Hussein che palesemente mirava in realtà a Riad. E qui avvenne la rottura, perché re Fahad optò invece per l’alleanza con gli Stati Uniti e quindi Osama e i suoi mujaheddin – con buona parte degli ulema sauditi – fecero di questa decisione un motivo di scandalo e di oltraggio all’islam. Lo stesso scandalo che aveva portato 60 anni prima, nel 1929, alla rivolta degli Ikhwan contro l’alleanza di Abdulaziz ibn Saud con l’Inghilterra. Con quell’atto blasfemo di un’alleanza con “crociati ed ebrei” per combattere un musulmano sulla terra dell’islam, secondo gli insegnamenti di Qutb e Azzam, il re saudita e la sua corte si erano dimostrati “falsi musulmani”, e quindi andavano abbattuti. Tesi, si badi bene, condivisa da un ampia platea – incluso Yasser Arafat – che Hassan al Turabi, ideologo sudanese, convocò a convegno a Kartoum; a questo seguì l’ospitalità concessa dal governo sudanese allo stesso Osama che ricambiò generosamente, costruendo un’autostrada e cercando di uccidere nel 1996 Hosni Mubarak in visita nel paese: il presidente egiziano scampò per puro caso alla morte. In Sudan, grazie alla rete fondamentalista di al Turabi e all’apporto del suo braccio destro Ayman al Zawahiri (ricco rampollo di una famiglia egiziana, allievo di Qutb e complice nell’assassinio di Sadat), al Qaida fece il salto di qualità in due direzioni: definì la sua piattaforma politica esposta nella dichiarazione del “Jihad contro crociati ed ebrei” del 1998, in cui incluse nel Dar al islam da riconquistare persino l’Andalusia, e internazionalizzò la scacchiera delle proprie iniziative jihadiste, a partire dal primo attentato alle Twin Towers del 1993. Là dove l’aspetto centrale era proprio l’abbattimento di un “idolo” del culto “pagano” dell’occidente, sulle orme di quanto aveva fatto Maometto alla Mecca nel 622 d. C. La successione degli attentati successivi è nota e straordinariamente composita: dalle ambasciate di Dar es Salaam e Nairobi del 1998, all’attacco alla Us Cole ad Aden nel 2000, alle Twin Towers nel 2001, per poi proseguire con gli attentati di Bali, Riad, Madrid, Londra, e decine di altri sino all’ultimo della settimana scorsa di Marrakech. Strategia terroristica con lo scopo primario dichiarato di “riconquistare all’islam la custodia dei Luoghi santi” (e quindi di abbattere la dinastia dei sauditi), e di colpire l’occidente e Israele per impedire ai regimi dei “falsi musulmani” di mantenersi al potere grazie al suo apporto economico, politico e militare. La liberazione della Palestina, in questo disegno strategico (checché se ne pensi in occidente) è sempre venuta al quarto o quinto posto. La risoluzione del contenzioso israelo-palestinese, per la galassia di al Qaida, non avrebbe minimamente comportato un cambiamento di strategia, né una flessione di iniziativa terroristica. Nota è anche la eccellente attitudine del figlio di uno dei più grandi palazzinari del globo di inventare un look a suo modo popolare, assolutamente televisivo. Dopo la decisione di George W. Bush di attaccare il santuario afghano in cui si era rifugiato in seguito all’allontanamento dal Sudan nel 1996 (dove stranamente il principe saudita Turki, suo ex sponsor, che pure si era fatto consegnare il terrorista Carlos, non ne aveva ottenuto l’estradizione), Osama bin Laden scelse un percorso carsico. Poi, clamorosamente, riapparve, tramite al Jazeera, profetico, in una grotta (e la grotta, nelle mistica musulmana è fondamentale, perché sede della prima Rivelazione dell’arcangelo Gabriele a Maometto), kalashnikov al collo, occhi ispirati, barba tanto lunga quanto rettangolare, turbante impeccabile e Corano alla mano. E’ stata questa sua, la prima rappresentazione iconografica in format televisivo di un topos fondamentale della politeia musulmana: l’Hijira. Egira, allontanamento dalla Mecca politeista nel 622 d. C. verso la pòlis del retto governo (Medina significa, appunto pòlis, il nome della città era Yutrb) è il discrimine da cui l’islam data l’inizio del tempo dell’uomo. Hijira erano le colonie che gli Ikhwan di Abdulaziz ibn Saud, avevano fondato nel Neged, per poi ribellarsi al re che li sconfisse e perseguitò e nel cui nome i nipoti degli Ikhwan superstiti entreranno in al Qaida. Osama mise in scena dunque la prima Hijira quale format televisivo: ieratico, lento nel cantilenare, il dito levato al cielo la trasformò in un cult. Decine sono i suoi messaggi da allora in poi, con non monocordi variazioni tematiche (inclusi il rimprovero a Obama di avere tradito il Protocollo di Kyoto e una divagazione sui titoli subprime), come decine gli attentati e gli sgozzamenti televisivi di “cani infedeli” (a iniziare da quello del giornalista del Wsj Daniel Pearl nel gennaio 2002) da parte di accoliti da lui istigati alla ferocia più bieca. Meno nota la sua capacità di tessere alleanze tanto discrete, quanto strategiche. Non solo quella palese con i talebani del Mullah Omar, non solo quella con i terroristi iracheni del macellaio sgozzatore al Zarkawi, ma anche quella di insospettabili personaggi della corte saudita, e soprattutto quella con i vertici militari del Pakistan. Era stato lo stesso Perwez Musharraf, nel 1999, a concordare con al Qaida gli attentati in Kashmir, per far deflagrare una nuova guerra indo-pachistana. Dopo l’11 settembre, Musharraf, ha tradito l’alleanza che aveva intessuto con Osama e licenziato i generali Ahmed Mahmood, capo dell’Isi, Muhammad Aziz Khan e Muzaffar Usmani, che negli anni precedenti avevano facilitato la presa del potere a Kabul dei talebani. Ma l’appoggio dei tre generali e dei loro fiduciari non è evidentemente mai venuto meno a un Osama che era ormai tanto sicuro – sbagliando – di non poter essere tradito, da decidere di abbandonare la sua mistica grotta per andare infine a morire in un condominio, sia pure superblindato.
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