Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 03/05/2011, a pag. 3, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Ucciso Osama, esultiamo anche noi ", a pag. 2, l'articolo di Magdi C. Allam dal titolo " Ora sarà più facile battere il terrorismo dei tagliagole ". Dal FOGLIO, a in prima pagina, l'articolo di Giuliano Ferrara dal titolo " Apologia dell’America che celebra un atto di giustizia ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Bin Laden è vivo, come Elvis ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 4, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo " Da Giulio Cesare a Mussolini. Quando il corpo diventa mito ", a pag. 50, l'articolo di Aldo Cazzullo dal titolo " Processare Osama Bin Laden, un’occasione (mancata) di forza ". Da IT.DANIELPIPES.ORG, l'articolo di Daniel Pipes dal titolo " Riflessioni sull'uccisione di Osama bin Laden ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 16, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Un comandante dietro le quinte ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Ucciso Osama, esultiamo anche noi "
Fiamma Nirenstein
Non è spirito di vendetta, non c’è ferocia né un insano senso di rivincita nella discesa in piazza da parte della folla americana giubilante per la morte di Bin Laden. C’è senso di realtà, buon senso, unità, e soprattutto volontà di vivere senza sensi di colpa né pensieri tormentosi su un’ipotetica prepotenza occidentale. Tutto ciò che diventa nebbioso giorno dopo giorno in questa incerta società preda di un senso di espiazione, desiderosa di pagare un prezzo ai diseredati con un cupio dissolvi esteso fino a giustificare i terroristi, si è palesato a Capitol Hill o a Ground Zero invasi da una folla assertiva, festante.
Non è stato un risarcimento, è stata una restituzione. I giovani americani in piazza che si felicitano perché Bin Laden è stato eliminato siamo noi stessi, che si sia capaci di riconoscerlo o meno, che ci sentiamo attanagliati da remore ideologiche o religiose oppure no. Le famiglie orbate con la foto dei loro cari bruciati o volati da un 30esimo piano; i soldati in divisa, fieri infine di una guerra che il mondo mette loro in discussione da dieci anni; i pompieri accorsi fra la folla; tutti i newyorkesi cui in quella nuvola di polvere e morte toccò di vedere in faccia il demonio. Insieme hanno festeggiato una vittoria elementare e semplice, quella della sparizione dalla faccia della Terra di un pazzo criminale, un Hitler in versione islamista, che ne voleva fare un cratere di odio. Un essere senza il quale il mondo è migliore. Le eliminazioni mirate, avvengono quando il terrorista sta di nuovo per colpire, dunque si agisce quando lo si può finalmente fare, senza perdere l’occasione. Per Bin Laden, queste due condizioni vanno calcolato esponenzialmente, ne valeva bene la pena dopo dodici anni di caccia e decine di migliaia di morti.
L’orrore del terrorismo è la negazione di tutti i diritti costruiti in secoli di controverso lavorio giudaico cristiano; è il divieto a riunirti, di entrare in un posto pubblico senza essere frugato, è l’ossessione del controllo negli aeroporti, il pericolo degli autobus, dei treni, delle metropolitane, dei bar, dei ristoranti, dei mercati, persino degli uffici e delle scuole che esplodono fra le braccia di uno shahid invasato... Lede la libertà. È il dolore di una perdita improvvisa e insensata, il restare paralizzati, è il mutamento psicologico globale che agghiaccia il nostro tempo e il nostro mondo, dallo Yemen a Londra a Parigi a Gerusalemme, a Mombasa a Bali a Mumbai e a New York.
La nostra società, imbambolata dal quieto vivere, non ha mai capito bene come questo potesse accadere, ci è sembrato un risultato scappato di mano, un impazzimento inusitato. Abbiamo persino prese per buone, a volte, le spiegazioni dei terroristi. Hamas, leale terrorista, ieri rimpiangendo Bin Laden, le ha oscenamente suggerite di nuovo in memoria del suo «santo guerriero arabo», come lo chiama: «La politica americana-dice-è basata sull’oppressione e lo spargimento di sangue arabo e musulmano ».
La discesa in piazza degli americani mostra gli USA che amiamo, quelli democratici e forti che non si vergognano di aver ragione, da Roosevelt a Bush, di combattere per vincere, di non accettare la sopraffazione. Hanno scritto sui cartelli «Obama uno-Osama zero»; «Questo è il giorno del giudizio e noi vinciamo». La stravagante, a dir poco, fantasia di costruire una moschea a Ground Zero, ha sgomberato quello spazio solenne per lasciare che il tragico vuoto fosse riempito da Amazing Grace . La gente sa benissimo che è stato schiacciato il male stesso, per questo è profondamente contenta.
Il terrorismo non l’ha inventato Bin Laden col suo mentore palestinese Abd Allah Yussef Al Azzam. Tuttavia la dimensione globale e di massa prescelta da Al Qaida è invenzione di Bin Laden, sua l’orrida facilità di individuare nemici a tutte le latitudini, di tutte le età, di tutte le religioni compresa la propria, suo il farne bersaglio di morte subdola e certa, pazientemente pianificata. E poi, spiegarla con voce atona, piana, con espressione neutra pallida, modesta, accoccolato sotto un ecologico cespuglio e una roccia primordiale. Bin Laden scriveva in arabo le sue teorie dell’odio, cariche di riferimenti Coranici che l’Islam moderato ha rifiutato. Nessuno se ne accorgeva, finché il grande storico Bernard Lewis lo lesse nel 1998, e avvertì: guardate che questo terrorista scrive sul giornale Al Quds Al Arabi una dichiarazione di guerra a tutti «i crociati e gli ebrei»: tutti coloro che non appartengono al suo Islam, devono essere uccisi.
Fino all’11 di settembre nessuno ha capito quanto Bin Laden fosse pericoloso. Nemmeno quando di fronte alle sue stragi nei Paesi arabi si scendeva per le strade saltando di gioia e distribuendo caramelle. Ci illudevamo che si trattasse di minoranze fanatiche. Quando Obama dice che non ha compiuto un gesto di guerra contro l’Islam ha ragione. Ma chi l’ha mai compiuto? È l’Islam che attacca l’Occidente, Bin Laden, Ahmadinejad, Hamas, gli Hezbollah e con loro gli eredi ben organizzati di Bin Laden stesso... È il terrorismo islamico, grande potente, agguerrito nemico da battere. A questo punto della vicenda, avendo raggiunto l’uno a zero gli Usa, l’Europa, devono guardarsi bene da consentire il pareggio. La gente è d’accordo.
www.fiammanirenstein.com
Il GIORNALE - Magdi C. Allam : " Ora sarà più facile battere il terrorismo dei tagliagole "
Magdi C. Allam
Osama Bin Laden aveva sulla coscienza decine di migliaia di persone massacrate dai terroristi suicidi islamici ovunque nel mondo.L’attentato dell’11 settembre 2001 l’aveva elevato a principale nemico degli Stati Uniti. Ma la verità è che gran parte delle sue vittime sono stati dei musulmani. Ecco perché, pur senza esultare, non possiamo non condividere la valutazione che la sua morte corrisponde a un atto di giustizia. Nella consapevolezza che, come nel caso dei grandi tiranni della storia, sarebbe stata inopportuna la sua cattura per processarlo di fronte a un tribunale internazionale, che lui avrebbe trasformato in un palcoscenico per ergersi a eroe e martire del Jihad.
Il dato più significativo della sua uccisione è il consolidamento dell’alleanza tra l’Occidente e l’islam radicale che veste in giacca e cravatta, ma impone la legge coranica e intende sottomettere l’umanità. È il caso del Pakistan che è ufficialmente una Repubblica islamica che fa propria la sharia e che legittima la repressione dei cristiani con la legge sulla blasfemia. L’islam radicale in doppiopetto è principalmente rappresentato dai Fratelli Musulmani. Il loro motto recita:«Il Jihad è la nostra via,il martirio è il nostro desiderio ». Per aderirvi i militanti pronunciano un solenne giuramento: «Il vessillo dell’islam deve sventolare alto sul mondo. Prometto di lottare finché vivrò per realizzare questa missione e di sacrificare ad essa tutto ciò che posseggo».
L’uccisione di Bin Laden da parte delle forze speciali americane e pachistane rappresenta simbolicamente il successo più importante del patto tra l’Occidente e gli islamici radicali «dialoganti», che aveva registrato i suoi primi risultati nel 2006 con la vittoria di Hamas in Palestina e l’ingresso nel Parlamento egiziano dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi emergono come i principali beneficiari dei moti popolari che hanno costretto Mubarak a dimettersi, troppo frettolosamente elogiati come una rivoluzione per la democrazia e la libertà. Ebbenei Fratelli Musulmani in Egitto e il loro corrispettivo in Tunisia, il Partito Ennahda, sono passati da una condizione di illegalità a garanti della continuità del regime militare al potere, accaparrandosi il controllo del fronte interno.
Sbagliano i commentatori che si innamorano delle contrapposizioni ideologiche ad immaginare un Obama «pacifista» che sarebbe stato capace di centrare il bersaglio senza rischiare di produrre i deleteri «effetti collaterali»,rispetto al suo predecessore Bush concepito come il «guerrafondaio » per antonomasia. La verità è che fu proprio Bush, insieme all’allora premier britannico Blair, ad avviare la strategia dell’intesa con i Fratelli Musulmani. Obama sta operando all’interno del solco tracciato da Bush e ha raccolto il risultato più eclatante, l’uccisione di Bin Laden, grazie al consolidamento di quell’intesa. Non è affatto casuale che ieri i Fratelli Musulmani abbiano manifestato apprezzamento per l’operazione.
Sono stato il primo giornalista a far conoscere Bin Laden agli italiani all’inizio degli anni Novanta, quando era semisconosciuto a livello mondiale. Era riuscito, investendo un patrimonio di circa 500 milioni di dollari, a privatizzare il terrorismo islamico, sottraendolo al monopolio dei cosiddetti «Stati canaglia», che all’epoca erano la Libia di Gheddafi, l’Irak di Saddam e la Siria di Assad; ed era riuscito a globalizzarlo ramificando una rete di cellule terroristiche in varie parti del mondo che erano legate ideologicamente ma autonome sul piano del reperimento fondi, scelta dei militanti e individuazione dei bersagli. I servizi segreti di tutto il mondo furono costretti ad azzerare i parametri concui valutavano le organizzazioni terroristiche mediorientali. L’attentato alle Torri Gemelle fu assolutamente imprevedibile perché nessuno immaginava che si potesse arrivare a trasformare degli aerei dirottati con centinaia di persone a bordo in un’arma da scagliare crudelmente contro dei grattacieli per abbatterli e provocare il massacro di migliaia di innocenti.
Ebbene, Bin Laden è stato capace di trasformare le persone in robot della morte, attraverso un lavaggio di cervello, sconfessando il luogo comune secondo cui i terroristi suicidi sono soltanto vittime della miseria e dell’ingiustizia. Quindici dei 19 dirottatori suicidi dell’11 settembre erano sauditi,il capo Mohammad Atta era egiziano figlio di un noto avvocato, laureato ad Amburgo insieme ai restanti membri del commando. Tutti esponenti della media ed alta borghesia.
Lo stesso Bin Laden era un miliardario, ingegnere, innamorato dell’Occidente e della sua materialità. Ma ad un certo punto rifiutò la dimensione valoriale della modernità occidentale, riparando nel radicalismo islamico. La pericolosità di Bin Laden è insita proprio nella sua capacità di coniugare il meglio della materialità della modernità occidentale con il peggio dell’ideologia islamica che rinnega la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta.
Con la sua morte si avvia un inesorabile declino del terrorismo che possiamo definire dei tagliagola, di coloro che perseguono la conquista del potere sormontando i cadaveri dei «nemici dell’islam». Ma senza farsi illusioni: il terrorismo dei cosiddetti jihadisti continuerà e nell’immediato cercherà di assestare dei colpi particolarmente cruenti per confermare che la guerra santa non si conclude.
A questo punto voglio essere molto chiaro: per noi occidentali è comunque più facile vincere la guerra contro i taglia-gola, che non contrapporci alla strategia di islamizzazione dell’umanità perseguita dai Fratelli Musulmani che ho ribattezzato terroristi «taglia-lingua». È un errore fatale immaginare che per affrancarci dai taglia-gola ci si possa affidare ai taglia-lingua. Mentre i primi ci costringono a impugnare le armi e la nostra guerra acquisisce una legittimità perché si tratta di salvaguardare il nostro sacrosanto diritto alla vita, di fronte ai secondi siamo inermi perché sfruttano le nostre leggi per affermarsi e la sharia per sottometterci.
Ha ragione il cardinale bolognese Giacomo Biffi, quando mi dice che il nostro vero nemico non sono gli islamici bombaroli ma i cosiddetti islamici moderati che ci impongono moschee e scuole coraniche. Perché prima o dopo sgomineremo i terroristi, mentre i simboli del potere islamico che si diffondono tra noi finiranno per trasformarsi in una realtà strutturale e alla fine ci imporranno l’islamizzazione. Ecco perché, se l’uccisionedi Bin Laden è un attodi giustizia,non andiamo oltre nell’affidare le nostre sorti ai terroristi taglia-lingua, i nostri più pericolosi aspiranti carnefici.
Il FOGLIO - Giuliano Ferrara : " Apologia dell’America che celebra un atto di giustizia "
Giuliano Ferrara
La prestazione degli americani nei due secoli abitati dalle ultime generazioni è epica. Non c’è traccia di minimalismo in un presidente nero e liberal che annuncia con parole ispirate alla religione e alla Costituzione americana la vittoria in battaglia contro il nemico assoluto, contro il leader radicale islamico responsabile dell’11 settembre. La cattura ed esecuzione di Osama bin Laden, preso come un latitante di mafia in un paese straniero che lo proteggeva, e sepolto in mare mentre l’America fa festa, ha una potenza simbolica eccezionale, al di là delle conseguenze strategiche oggetto delle nostre analisi. Quello di Obama in morte del nemico è stato un glorioso discorso della bandiera, quella bandiera che sta per la Repubblica, “one nation under God, indivisible, with liberty and justice for all” (una nazione sotto Dio, indivisibile, che garantisce libertà e giustizia per tutti). Quel paese fatale ha vinto tre guerre in Europa nel Novecento, fino al collasso dell’ultimo totalitarismo; ha costruito un modello controverso di società aperta e cristianamente ispirata, che non ha accettabili alternative in occidente; ha incantato ed eccitato il mondo moderno e postmoderno, dividendolo tra amici e nemici in una logica imperiale che non prevede conquista e occupazione di territori altrui e che è fondata sul sacrificio personale dei combattenti, su una macchina di guerra e di intelligence che non ha rivali, su una libertà di iniziativa economica e sociale priva di riscontri nel resto del mondo; ha inaugurato questo secolo con una reazione calma e orgogliosa alla sfida di civiltà posta dall’islam politico che dura ancora e attraversa, oltre la vendetta, oltre la giustizia retributiva, oltre la tutela della sicurezza e dell’ordine mondiale fondato su libertà e democrazia costituzionale, la vita di tutti noi. Per dieci anni il capo dell’organizzazione terrorista che aveva insanguinato New York e Washington, uccidendo in nome di Dio quasi tremila americani di tutte le origini etniche e di tutte le fedi al culmine di una lunga campagna di attentati in cui erano cadute centinaia di vittime in giro per il mondo, tutti simboli di carne del nemico crociato ed ebreo, ha provato senza riuscirci a ripetere l’evento. La “famiglia americana” evocata da Barack Hussein Obama ha fatto il suo dovere con George W. Bush e con il suo successore, che ha sviluppato e proseguito la strategia del liberatore di Afghanistan e Iraq con l’aiuto dei suoi uomini, il segretario alla Difesa Robert Gates e il generale David Petraeus, delle sue tecniche e strategie politico-giudiziarie, a partire da Guantanamo, e del suo spirito così ben rappresentato dal contegno riservato dell’ex presidente e del suo ex ministro della difesa Donald Rumsfeld. Il cambio nella retorica politica, perfettamente legittimo in una grande democrazia della parola, non ha modificato di una virgola il comportamento dell’America come comunità e stato, come Amministrazione e soggetto politico imperiale. Le varianti o le incertezze nella politica estera sono una cosa, ma il bisogno di giustizia fa parte dei principi autoevidenti su cui è fondata la nazione americana dall’epoca dei suoi padri costituzionali. Catturare e giustiziare il “most wanted” a dieci anni dall’11 settembre non sarebbe stato possibile senza le radici americane: una rivoluzione repubblicana ispirata al Creatore e ai principi giusnaturalistici non negoziabili del diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Un modello di politica e di società pieno di difetti, ma che non prevede derive totalitarie, antisemitismo dispiegato, sudditanza ad altro che non sia la legge nel principio dell’autogoverno. Bin Laden, ucciso a 54 anni come un criminale irriducibile, non era un nemico qualsiasi, era anche lui, come sono i presidenti americani, un leader politico e religioso pieno di fascino e di energia spirituale per i popoli che lo hanno seguito in effigie e per i seguaci che hanno reso possibile la realizzazione della prima fase del suo disegno fanatico. Ha combattuto contro l’Unione sovietica, negli anni Ottanta, con l’appoggio geopolitico dell’occidente e degli stessi americani, e poi ha cambiato la mira, puntando sull’ideale di un califfato islamico e sul risveglio purista, wahabita, dei popoli di fede musulmana. Contro Israele, contro l’America, contro i crociati cristiani d’occidente, in parallelo con la rivoluzione iraniana sciita, profittando della decomposizione degli stati canaglia o degli stati musulmani falliti, Osama ha portato guerra, lutto e distruzione ovunque gli sia riuscito di farlo. La sua è una grandiosa leggenda nera, di proporzioni mitiche. Le sue parole, la sua epica nazionale islamica, erano e restano oltre la sua morte una minaccia esistenziale per il nostro modo di concepire la società e la vita. Diverse forme di purismo, tra le quali quella dei Fratelli musulmani, navigano anche nei movimenti di liberazione dalle oligarchie arabo-islamiche corrotte. Il fatto che Osama abbia perso la sua corsa personale contro il cavallo che aveva definito “debole”, l’occidente secolarizzato, è un “clamoroso trionfo”, come ha detto il premier israeliano, ma non ha alcunché di definitivo, non porta ancora la pace e la sicurezza, perché la sensibilità jihadista è parte di un paesaggio storico e simbolico in cui Bin Laden torreggiava, ma che la sua morte in battaglia offusca senza cancellarlo. C’è ancora molto da fare. Per questo è bene ricordare che qui, nella retrovia europea della prima grande guerra del XXI secolo, le divisioni sono state profonde, e ha vacillato in molti la necessaria volontà di battersi. Le ragioni di sfiducia nella faccia che di sé offrono l’occidente e il suo fulcro euro-atlantico sono numerose. L’imperfezione e la infinita corregibilità sono il vero crisma del nostro modello sociale. La forza della mobilitazione culturale e politica contro il jihadismo, in difesa di una identità fragile e contestata, risiede nella sua libertà di tono, nella sua intelligenza profonda delle cose, nella sua capacità di accettare critiche e antagonismi come elemento strutturale di un modo di pensare e di agire. L’Italia di Berlusconi in questi dieci anni ha dato una mano agli americani e a Israele sotto attacco. Siamo rimasti un paese libero e dissonante, ciascuno con la propria voce, ma abbiamo fatto il nostro dovere. Non si festeggia una sparatoria, si celebra bensì un consapevole atto di giustizia.
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " Da Giulio Cesare a Mussolini. Quando il corpo diventa mito "
Pierluigi Battista
Il corpo del nemico ucciso torna come uno spettro a popolare di incubi la vita di chi lo ha annientato. Farlo scomparire, addirittura negli abissi marini, come hanno deciso con quello di Bin Laden? Esibirlo come trofeo? Neutralizzarlo con appositi riti di allontanamento? Placarne il sangue per non aizzare nei seguaci lasciati orfani del leader vendette e fantasie di rappresaglia? Gli americani hanno voluto che le acque del mare, dopo una sbrigativa cerimonia funebre su una portaerei, consumassero i resti mortali del Nemico numero uno, del massacratore delle Torri Gemelle. Seppellirlo negli Stati Uniti, incassato il rifiuto di Paesi arabi e islamici, sarebbe stato un errore spaventoso, con quella tomba trasformata in santuario, meta di pellegrinaggio dei fanatici di tutto il mondo che sarebbero venuti a piangere il loro martire. Lasciarlo inghiottire dalle onde marine, del resto, alimenterà infiniti deliri paranoici, ecciterà inesauribili fantasticherie negazioniste. Per decenni la bizzarra inventiva di dietrologi, complottisti, nazisti irriducibili e folli di nostalgia ha ricamato attorno ai cadaveri di Hitler e della sua Eva Braun ritrovati nel bunker della disfatta a Berlino favole macabre sul Führer che non sarebbe morto, riparato in chissà quale rifugio sudamericano, pronto con un pugno di fedelissimi a tornare per la riconquista del Reich millenario. Ma con Bin Laden l’altalena di ipotesi se l’ormai invisibile capo di Al Qaeda fosse vivo in qualche grotta o già cadavere da anni era già in funzione da quasi dieci anni, all’epoca dell’ultimo videomessaggio. E poi, che realistica alternativa c’era? Il corpo del nemico, del dittatore, del condottiero è sempre ingombrante, circondato da tabù, raggiunto dalla febbre sensazionalista di chi non sa rassegnarsi all’idea che un grande destino, anche fosco e luciferino, possa ripiegare in una banale sorte da comuni mortali, senza saghe, leggende luminose o nerissime. Sergio Luzzatto ha descritto nel suo «Il corpo del duce» come la neonata Repubblica sia rimasta «ostaggio» della salma di Mussolini, un corpo prima venerato dalle folle adoranti e poi straziato nel rito lugubre, nella «macelleria messicana» , inscenato a Piazzale Loreto. Un corpo dapprima trafugato nel ’ 46 dai fascisti, poi nascosto per undici anni, e infine, soltanto nel ’ 57, tumulato a Predappio, dove ogni anno carovane di nostalgici, in cerimonie che mescolano sacro e profano, sagre di paese e mercatini delle reliquie, fasci littori e saluti romani, danno vita a kermesse non solo tollerate, ma oramai persino promosse dall’amministrazione locale (di sinistra) attraverso l’apposito assessorato al turismo. Non c’è bisogno di aggiungere il culto propriamente fascista della morte, dei martiri, delle memorie sacre riassunte in una tomba, in un catafalco, in un sepolcro per comprendere come il corpo del duce defunto abbia alimentato simbologie indistruttibili. Ma da sempre il «corpo del Re» in disgrazia agita i timori di chi resta. All’indomani delle Idi di marzo, nella cerimonia che doveva onorare il corpo trafitto da ventitré pugnalate di Giulio Cesare, i senatori e le matrone di Roma contribuirono a dare alle fiamme e a consumare i resti del Capo assassinato con un rito purificatore che sanzionò la sconfitta dei congiurati. E quante salme sono state riesumate, come per un’inconsapevole ossessione di accertamento, di garanzia che il corpo sepolto fosse esattamente quello che doveva essere. Fu riaperta persino la tomba di Napoleone, molti anni dopo la morte dell’imperatore a Sant’Elena. E sono stati disseppelliti i resti di Ceausescu, il tiranno romeno ucciso al termine di un processo farsa con la moglie Elena e fucilato dai nuovi padroni di Bucarest. Ossessioni, fantasie, paranoie mortuarie. Il ricordo di Bin Laden ne nutrirà infinite, complicatissime, arzigogolate, ma di sicura presa simbolica. E non si tratta necessariamente di fantasie arcaiche, immerse nella religiosità cupa e sovreccitata di una visione del mondo premoderna, così come si condensa nel fondamentalismo islamista di cui Bin Laden è stato spietato interprete. Basta pensare a come addirittura la religione del futuro, l’ideologia che avrebbe svelato al mondo la natura ipnotica e «oppiacea» di tutte le religioni stabilite, insomma il comunismo, abbia tributato ai cadaveri dei suoi carismatici Capi omaggi in cui è stata abbondantemente oltrepassata la soglia magica della superstizione. Corpi imbalsamati, corpi mummificati, corpi esposti alla venerazione dei fedeli convenuti nella piazza del Cremlino per visitare il sacrario in cui è conservato attraverso tecniche sofisticatissime il simulacro del leader scomparso. A dimostrazione ulteriore di come la presenza, sia pur fantasmatica, del corpo, moltiplichi sentimenti fideistici, liturgie superstiziose, identificazioni simboliche. Ecco perché, una volta accertatane indiscutibilmente l’identità, la salma di Bin Laden non poteva essere trattata come un corpo «normale» , da seppellire come in un’ordinaria cerimonia di addio. Il corpo assente ecciterà le fantasie di seguaci scossi da un dolore inconsolabile per la scomparsa del loro Capo, ma non sarà la reliquia custodita in un luogo inevitabilmente condannato a diventare il santuario di una memoria inestinguibile. Un anti Ground Zero in cui possano riunirsi minacciosamente i devoti dell’assassino assassinato, il loro martire. Gli Stati Uniti non potrebbero permetterselo.
Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Un comandante dietro le quinte "
Christian Rocca
George W. Bush lo voleva «dead or alive», vivo o morto, ma ha lasciato la Casa Bianca due anni fa senza aver compiuto la missione, senza aver catturato o ucciso l'ideatore degli attacchi dell'11 settembre. Prima di lui, Bill Clinton aveva esitato tre volte a schiacciare il bottone e Osama bin Laden, lo sceicco saudita che aveva dichiarato e praticato la guerra santa contro l'America già dal 1998, era riuscito a scappare e poi a progettare l'inaudita strage nel cuore dell'America.
Tremilacinquecentodiciannove giorni dopo quel martedì mattina di 11 anni fa, c'è riuscito Barack Hussein Obama, il 44° presidente degli Stati Uniti, quello giovane e inesperto, il politico sospettato da improbabili e incontentabili dietrologi di essere l'Anticristo, un impostore musulmano, ineleggibile perché nato all'estero. Joe Biden e Hillary Clinton, oggi suoi principali collaboratori, ma allora avversari alle primarie democratiche, nel 2007 e nel 2008 dicevano fosse «ingenuo», uno che non avrebbe avuto la spina dorsale per affrontare una crisi internazionale. E invece "it took Obama to get Osama", ci è voluto Obama per prendere Osama, come recitavano le scritte sulle magliette messe in vendita ieri a Washington.
Obama è riuscito a uccidere Osama, nonostante le critiche assurde della destra lo dipingessero come un leader "debole" nei confronti dei nemici dell'America (in Italia, Maurizio Gasparri all'indomani dell'elezione presidenziale disse che al-Qaida era felice del risultato). Non meno sballate sono state le contestazioni della sinistra liberal secondo cui avrebbe tradito gli elettori, le speranze e il sogno per il solo fatto di aver continuato la politica di sicurezza nazionale del suo predecessore.
I critici di Obama non hanno ascoltato Obama, non hanno letto con attenzione le sue proposte. Non hanno considerato che sulle questioni di sicurezza nazionale i presidenti degli Stati Uniti fanno i presidenti degli Stati Uniti, non gli operatori sociali. Gli avversari di Obama hanno commesso l'errore di proiettare sulla figura vuota del giovane presidente le proprie paure e le proprie illusioni, perdendo però di vista la realtà.
Obama invece ha ucciso Osama, guidando un'operazione militare e d'intelligence iniziata quattro anni fa a Guantanamo (e la cosa dovrebbe far riflettere i detrattori del supercarcere), prendendosi rischi, aspettando il momento giusto per agire, sapendo che un errore avrebbe posto fine alla sua presidenza. Una volta alla Casa Bianca, a parte qualche concessione retorica iniziale, non ha smantellato l'apparato di sicurezza post 11 settembre costruito da Bush. Il suo gabinetto di guerra, generali compresi, è lo stesso del precedente. Guantanamo è ancora aperto. I detenuti più pericolosi resteranno in carcere a vita, senza processo. Gli altri saranno giudicati con le corti speciali militari volute dal suo predecessore. In Iraq ci sono ancora 50mila uomini e il resto è rientrato secondo il calendario stabilito da Bush e dal Governo iracheno.
In Afghanistan il numero di boots on the ground, di stivali americani sul terreno, è triplicato rispetto ai tempi di Bush. Obama ha esteso in modo sistematico le operazioni militari in Pakistan, terra ospitale per talebani e guerrasantieri islamici.
Da quando è alla Casa Bianca ha autorizzato 226 attacchi missilistici sul Pakistan, provocando oltre 1.700 morti. Una guerra segreta, coperta, "sporca" si sarebbe detto un tempo e con altri presidenti. Una guerra che cambia la natura, la forma e la strategia dell'apparato militare e spionistico americano. L'operazione bin Laden ha consolidato la militarizzazione della Cia e la specializzazione del Pentagono in azioni coperte guidate dal Joint Special Operations Command. Il generale David Petraeus alla Cia e l'ex direttore Leon Panetta al Pentagono sono il sigillo obamiano su questa trasformazione.
Obama non ha tradito le promesse elettorali, semmai le ha esaudite. Chi ha seguito la sua campagna elettorale sapeva che avrebbe inviato più truppe in Afghanistan e preteso un maggiore impegno militare in Pakistan. Nel corso di uno dei dibattiti presidenziali, quello dell'ottobre 2008 a Nashville, Obama disse che se da presidente avesse individuato il nascondiglio di bin Laden e il Governo pachistano non fosse stato in grado o non avesse voluto prenderlo, lui non avrebbe rispettato la sovranità nazionale pakistana e non avrebbe atteso un lasciapassare internazionale, ma avrebbe deciso un intervento militare americano unilaterale, ad hoc, dentro i confini del Pakistan: «Se non lo fanno loro, dobbiamo farlo noi», disse in quell'occasione prendendosi i rimbrotti del candidato repubblicano John McCain. Domenica, ad Abbottabad, è successo esattamente quanto previsto: i pakistani lasciavano bin Laden indisturbato e Obama ha inviato le squadre speciali a pochi chilometri dalla capitale, a un passo dalla West Point del Pakistan.
L'efficacia della leadership di Obama è evidente, per quanto esercitata come in Libia "from behind", da dietro le quinte. Il presidente fa le stesse cose di Bush, senza scatenare proteste delle piazze occidentali e arabe, senza mobilitare le masse pacifiste, anzi addirittura vincendo il Nobel per la pace.
CORRIERE della SERA - Aldo Cazzullo : " Processare Osama Bin Laden, un’occasione (mancata) di forza "
Aldo Cazzullo
E’ giusto festeggiare la morte di un uomo, per quanto abietto? Non sarebbe stata una prova di forza ancora maggiore catturare Osama Bin Laden e processarlo per i suoi crimini, anziché ucciderlo e gettarne il corpo in mare? La discussione sulla fine da riservare ai nemici dell’umanità dura da venticinque secoli. «Era ora! Prendiamoci una sbornia/beviamo a viva forza: Mirsilo è morto» . Così Alceo celebrava la fine del tiranno che l’aveva esiliato da Mitilene, e inaugurava un genere letterario, il «nunc est bibendum» di Orazio: ora si deve brindare. Nella Grecia antica, la civiltà che inventò la democrazia, il tirannicidio era considerato un valore, e gli ateniesi eressero una statua di bronzo ad Armodio e Aristogitone, che li avevano liberati dal despota Ipparco. E in America nessuno o quasi protestò quando fu impiccato Saddam Hussein. Per questo celebrare a Ground Zero la morte dell’uomo che volle l’ 11 settembre è apparso del tutto naturale, e probabilmente lo è. Non esistono regole generali, ogni personaggio fa storia a sé. La logistica finisce per contare più dei princìpi; e gli uomini che hanno ucciso Bin Laden forse non potevano agire diversamente. Se l’altro giorno— per singolare coincidenza— fosse morto pure Gheddafi sotto i missili Nato, la guerra civile che dilania la Libia sarebbe già finita; e certo non sarebbe un male. Ma il realismo politico non impedisce di farci qualche domanda. Sottoporre Osama Bin Laden a un regolare processo, magari davanti al tribunale internazionale costituito proprio allo scopo di provare e punire i crimini contro l’umanità, sarebbe stato un passaggio difficile per l’America, ma certo avrebbe rafforzato il suo prestigio di patria della democrazia moderna, uscita scossa dalle vicende dell’Iraq, di Abu Ghraib, di Guantanamo. È difficile avanzare rilievi agli uomini che hanno liberato il mondo dal fondatore di Al Qaeda e che oggi un’intera nazione onora, a cominciare dal presidente democratico Obama e da Hillary Clinton, che annuncia secca: «Bin Laden è morto, giustizia è fatta» . Però non c’è dubbio che le buone cause non escono ridimensionate ma rafforzate da un procedimento giudiziario condotto secondo il diritto internazionale, che comprende anche le garanzie per i colpevoli. Qualche anno fa si è riaperta in Italia la discussione sull’opportunità della fine di Mussolini. D’Alema definì un errore l’esecuzione per mano dei partigiani, subito corretto dall’allora segretario Ds Fassino. I realisti ricordarono che un processo al Duce sarebbe stato fonte di grandi imbarazzi, non solo per gli antifascisti dell’ultima ora, ma anche per le potenze alleate che l’avevano avuto come interlocutore (e, nel caso di Churchill, corrispondente) per anni. Neppure Bin Laden e la sua famiglia sono del tutto estranei all’establishment americano. Ma il punto non è questo. Nessun uomo davvero libero, se non qualche estremista islamico o qualche derelitto animato dal rancore per l’Occidente, piangerà la morte di Bin Laden. Così come nessuno, se non i beneficiati della sua tribù, piangerebbe domani la morte di Gheddafi. Ricordare l’esistenza di un’altra via — la cattura, il processo, la condanna, l’espiazione della pena — non significa abbandonarsi a facili umanitarismi. Significa ribadire la superiorità del diritto e della democrazia sul terrore e sul dispotismo.
Il FOGLIO - " Bin Laden è vivo, come Elvis "
Osama bin Laden
Chiaro che la televisione pachistana, che poche ore dopo il blitz notturno e l’uccisione di Osama bin Laden aveva messo in giro una vecchia foto taroccata di un finto bin Laden fintamente morto, non ha dato una gran mano alla causa della verità. C’è una porzione di umanità istintivamente disposta a dubitare di tutto quanto abbia i crismi della fattualità e viceversa propensa a credere a tutto quanto contraddica l’evidenza. C’è più gente di quanto si creda ancora disposta a credere all’imminente ritorno di Elvis. Ovviamente, la conferma che la foto era falsa non poteva non scatenare il tamtam del dubbio sul Web: ma sarà morto davvero? E il corpo? E perché ci sono voluti dieci anni? Le tecnologie di comunicazione hanno annullato tempo e spazio, sovrapponendosi alla realtà. Un giovane pachistano che chattava su Twitter a duecento metri dal bunker del capo di al Qaida ha in pratica dato in diretta la notizia. Eppure l’incredulità, elemento atavico, è come raddoppiata dalla tecnologia. Il contadino dell’Umbria, equivalente agrario e terragno della casalinga di Voghera, è tutt’ora convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna semplicemente perché è impossibile; il suo omologo internettista è convinto della stessa cosa, perché ha visto le “prove” delle foto manipolate. Per passare al serio: la teoria dell’autocomplotto delle Torri gemelle resiste da dieci anni, e anzi si diffonde attraverso il Web come un rizoma maligno. Possiamo stare sicuri che la conferma fotografica per ora mancante, il corpo gettato in mare, generano una ridda infinita di incredulità, di sospetti. Che i dubbi siano espressi apertamente nel mondo islamico è comprensibile. Ma basta fare un giro nella rete, anche senza addentrarsi nei social network della cosiddetta controinformazione, per trovare messo a tema il sospetto. E se esperti come l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica, Leonardo Tricarico, avanzano alcune legittime riserve (“mi sarei aspettato che la salma fosse stata resa visibile, in modo da dare la prova più evidente della sua morte”, ha dichiarato) per il volgo nemmeno la conferma “al cento per cento” del Dna è bastante. Ma all’incrocio tra atavico bertoldismo e postmoderna paranoia verso tutto ciò che le tecnologie potrebbero manipolare, scorre un veleno ancora più maligno. E’ l’odio ideologico. Per decenni c’è stato chi sosteneva false persino le foto del Che morto in Bolivia. C’è chi afferma tuttora che il Pentagono non è mai stato colpito l’11/9, le bombe al fosforo in Iraq sono a prova di qualsiasi smentita. Benedetto XVI, beatificando Karol Wojtyla, ha citato una frase del Vangelo, “beati quelli che non avendo visto, hanno creduto”, tra le cause della santità. Ovviamente, è pretendere troppo. Ma un po’ di fiducia nei fatti, non guasterebbe.
IT.DANIELPIPES.ORG - Daniel Pipes : " Riflessioni sull'uccisione di Osama bin Laden "
Daniel Pipes
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Bin Laden era solo una parte di al Qaeda, che è solo una parte dello sforzo terroristico islamico che, a sua volta, è solo una parte del movimento islamista; pertanto, l'annuncio della sua morte questa notte per mano del governo Usa cambia poco le cose a livello operativo. La guerra al terrore non è sostanzialmente cambiata, tanto meno è stata vinta.
Ma poiché bin Laden ha simboleggiato il terrorismo islamico, la sua presenza provocatoria nelle registrazioni video e audio per quasi dieci anni dopo l'11 settembre ha incoraggiato i suoi alleati e ha demoralizzato i suoi nemici. Invece, la sua uccisione da parte delle forze americane nella città di Abbottabad, in Pakistan, rende gli americani orgogliosi del loro Paese, incoraggia le organizzazioni che si occupano di sicurezza e di intelligence ed è un duro colpo per gli islamisti.
Ecco cosa bisogna tenere d'occhio in futuro:
1) Da parte americana, l'improvvisa unanimità e l'orgoglio dureranno più di qualche giorno? O l'abituale reticenza della sinistra tornerà a prendere piede?
2) Riguardo agli islamisti, quanto sarà dura la loro reazione al governo Zardari che ha permesso alle forze americane di uccidere bin Laden in territorio pakistano? I cittadini americani e gli interessi Usa all'estero e in patria saranno oggetto di attacchi terroristici in risposta all'esecuzione del leader simbolico del jihad?
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