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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - It.danielpipes.org Rassegna Stampa
03.05.2011 Osama bin Laden morto - i commenti
di Fiamma Nirenstein, Magdi C. Allam, Giuliano Ferrara, Pierluigi Battista, Redazione del Foglio, Daniel Pipes, Aldo Cazzullo, Christian Rocca

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - It.danielpipes.org
Autore: Fiamma Nirenstein - Magdi C. Allam - Giuliano Ferrara - Redazione del Foglio - Pierluigi Battista - Aldo Cazzullo - Christian Rocca - Daniel Pipes
Titolo: «Ucciso Osama, esultiamo anche noi - Ora sarà più facile battere il terrorismo dei tagliagole - Apologia dell’America che celebra un atto di giustizia - Da Giulio Cesare a Mussolini. Quando il corpo diventa mito - Un comandante dietro le quinte»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 03/05/2011, a pag. 3, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Ucciso Osama, esultiamo anche noi ", a pag. 2, l'articolo di Magdi C. Allam dal titolo " Ora sarà più facile battere il terrorismo dei tagliagole ". Dal FOGLIO, a in prima pagina, l'articolo di Giuliano Ferrara dal titolo " Apologia dell’America che celebra un atto di giustizia ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Bin Laden è vivo, come Elvis ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 4, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo " Da Giulio Cesare a Mussolini. Quando il corpo diventa mito ", a pag. 50, l'articolo di Aldo Cazzullo dal titolo " Processare Osama Bin Laden, un’occasione (mancata) di forza ". Da IT.DANIELPIPES.ORG, l'articolo di Daniel Pipes dal titolo " Riflessioni sull'uccisione di Osama bin Laden ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 16, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Un comandante dietro le quinte ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Ucciso Osama, esultiamo anche noi "


Fiamma Nirenstein

Non è spirito di vendetta, non c’è ferocia né un insano senso di rivincita nella discesa in piazza da parte della folla americana giubilante per la morte di Bin Laden. C’è senso di realtà, buon senso, unità, e soprattutto volontà di vivere senza sensi di colpa né pensie­ri tormentosi su un’ipotetica prepotenza occidentale. Tut­to ciò che diventa nebbioso giorno dopo giorno in questa incerta società preda di un sen­so di espiazione, desiderosa di pagare un prezzo ai diseredati con un cupio dissolvi esteso fi­no a giustificare i terroristi, si è palesato a Capitol Hill o a Ground Zero invasi da una fol­la assertiva, festante.
Non è stato un risarcimento, è stata una restituzione. I gio­vani americani in piazza che si felicitano perché Bin Laden è stato eliminato siamo noi stes­si, che si sia capaci di ricono­scerlo o meno, che ci sentiamo attanagliati da remore ideolo­giche o religiose oppure no. Le famiglie orbate con la foto dei loro cari bruciati o volati da un 30esimo piano; i soldati in divi­sa, fieri infine di una guerra che il mondo mette loro in di­scussione da dieci anni; i pom­pieri accorsi fra la folla; tutti i newyorkesi cui in quella nuvo­la
di polvere e morte toccò di vedere in faccia il demonio. In­sieme hanno festeggiato una vittoria elementare e sempli­ce, quella della sparizione dal­la faccia della Terra di un paz­zo criminale, un Hitler in ver­sione islamista, che ne voleva fare un cratere di odio. Un esse­re senza il quale il mondo è mi­gliore. Le eliminazioni mirate, avvengono quando il terrori­sta sta di nuovo per colpire, dunque si agisce quando lo si può finalmente fare, senza per­dere l’occasione. Per Bin La­den, queste due condizioni vanno calcolato esponenzial­mente, ne valeva bene la pena dopo dodici anni di caccia e de­cine di migliaia di morti.
L’orrore del terrorismo è la negazione di tutti i diritti co­struiti in secoli di controverso
lavorio giudaico cristiano; è il divieto a riunirti, di entrare in un posto pubblico senza esse­re frugato, è l’ossessione del controllo negli aeroporti, il pe­ricolo degli autobus, dei treni, delle metropolitane, dei bar, dei ristoranti, dei mercati, per­sino degli uffici e delle scuole che esplodono fra le braccia di uno shahid invasato... Lede la libertà. È il dolore di una perdi­­ta improvvisa e insensata, il re­stare paralizzati, è il mutamen­to psicologico globale che ag­ghiaccia il nostro tempo e il no­stro mondo, dallo Yemen a Londra a Parigi a Gerusa­lemme, a Mombasa a Bali a Mumbai e a New York.
La nostra società, imbambo­lata dal quieto vivere, non ha mai capito bene come questo potesse accadere, ci è sembra­to un risultato scappato di ma­no,
un impazzimento inusita­to. Abbiamo persino prese per buone, a volte, le spiegazioni dei terroristi. Hamas, leale ter­rorista, ieri rimpiangendo Bin Laden, le ha oscenamente sug­gerite di nuovo in memoria del suo «santo guerriero arabo», come lo chiama: «La politica americana-dice-è basata sul­l’oppressione e lo spargimen­to di sangue arabo e musulma­no ».
La discesa in piazza degli americani mostra gli USA che amiamo, quelli democratici e forti che non si vergognano di aver ragione, da Roosevelt a Bush, di combattere per vince­re,
di non accettare la sopraffa­zione. Hanno scritto sui cartel­li «Obama uno-Osama zero»; «Questo è il giorno del giudi­zio e noi vinciamo». La strava­gante, a dir poco, fantasia di co­struire una moschea a Ground Zero, ha sgomberato quello spazio solenne per lasciare che il tragico vuoto fosse riem­pito da Amazing Grace . La gen­te sa benissimo che è stato schiacciato il male stesso, per questo è profondamente con­tenta.
Il terrorismo non l’ha inven­tato Bin Laden col suo mento­re palestinese Abd Allah Yus­sef Al Azzam. Tuttavia la di­mensione globale e di massa prescelta da Al Qaida è inven­zione di Bin Laden, sua l’orri­da facilità di individuare nemi­ci a tutte le latitudini, di tutte le età, di tutte le religioni compre­sa la propria, suo il farne bersa­glio di morte subdola e certa, pazientemente pianificata. E poi, spiegarla con voce atona, piana, con espressione neutra pallida, modesta, accoccolato sotto un ecologico cespuglio e una roccia primordiale. Bin La­den scriveva in arabo le sue teo­rie dell’odio, cariche di riferi­m­enti Coranici che l’Islam mo­derato ha rifiutato. Nessuno se ne accorgeva, finché il grande storico Bernard Lewis lo lesse nel 1998, e avvertì: guardate che questo terrorista scrive sul giornale
Al Quds Al Arabi una dichiarazione di guerra a tutti «i crociati e gli ebrei»: tutti colo­ro che non appartengono al suo Islam, devono essere ucci­si.
Fino all’11 di settembre nes­suno ha capito quanto Bin La­den fosse pericoloso. Nemme­no quando di fronte alle sue stragi nei Paesi arabi si scende­va per le stra­de saltando di gio­ia e distribuendo caramelle. Ci illudevamo che si trattasse di minoranze fanatiche. Quando Obama dice che non ha com­piuto un gesto di guerra con­tro l’Islam ha ragione. Ma chi l’ha mai compiuto? È l’Islam che attacca l’Occidente, Bin Laden, Ahmadinejad, Hamas, gli Hezbollah e con loro gli ere­di ben organizzati di Bin La­den stesso... È il terrorismo isla­mico, grande potente, agguer­rito nemico da battere. A que­sto punto della vicenda, aven­do raggiunto l’uno a zero gli Usa, l’Europa, devono guar­darsi bene da consentire il pa­reggio. La gente è d’accordo.

www.fiammanirenstein.com

Il GIORNALE - Magdi C. Allam : " Ora sarà più facile battere il terrorismo dei tagliagole "


Magdi C. Allam

Osama Bin Laden aveva sulla coscien­za decine di migliaia di persone massacra­te dai terroristi suicidi islamici ovunque nel mondo.L’attentato dell’11 settembre 2001 l’aveva elevato a principale nemico degli Stati Uniti. Ma la verità è che gran parte del­le sue vittime sono stati dei musulmani. Ec­co perché, pur senza esultare, non possia­mo non condividere la valutazione che la sua morte corrisponde a un atto di giusti­zia. Nella consapevolezza che, come nel ca­so dei grandi tiranni della storia, sarebbe stata inopportuna la sua cattura per proces­sarlo di fronte a un tribunale internaziona­le, che lui avrebbe trasformato in un palco­scenico per ergersi a eroe e martire del Jihad.
Il dato più significativo della sua uccisio­ne è il consolidamento dell’alleanza tra l’Occidente e l’islam radicale che veste in giacca e cravatta, ma impone la legge cora­nica e intende sottomettere l’umanità. È il caso del Pakistan che è ufficialmente una Repubblica islamica che fa propria la sha­ri­a e che legittima la repressione dei cristia­ni con la legge sulla blasfemia. L’islam radi­cale in doppiopetto è principalmente rap­presentato dai Fratelli Musulmani. Il loro motto recita:«Il Jihad è la nostra via,il marti­rio è il nostro desiderio ». Per aderirvi i mili­tanti pronunciano un solenne giuramen­to: «Il vessillo dell’islam deve sventolare a­l­to sul mondo. Prometto di lottare finché vi­vr­ò per realizzare questa missione e di sacri­ficare ad essa tutto ciò che posseggo».
L’uccisione di Bin Laden da parte delle forze speciali americane e pachistane rap­presenta simbolicamente il successo più importante del patto tra l’Occidente e gli islamici radicali «dialoganti», che aveva re­gistrato i suoi primi risultati nel 2006 con la vittoria di Hamas in Palestina e l’ingresso nel Parlamento egiziano dei Fratelli Musul­mani. Questi ultimi emergono come i prin­ci­pali beneficiari dei moti popolari che han­no costretto Mubarak a dimettersi, troppo frettolosamente elogiati come una rivolu­zione per la democrazia e la libertà. Ebbe­ne­i Fratelli Musulmani in Egitto e il loro cor­rispettivo in Tunisia, il Partito Ennahda, so­no passati da una condizione di illegalità a garanti della continuità del regime militare al potere, accaparrandosi il controllo del fronte interno.
Sbagliano i commentatori che si innamo­rano delle contrapposizioni ideologiche ad immaginare un Obama «pacifista» che sarebbe stato capace di centrare il bersa­glio senza rischiare di produrre i deleteri «effetti collaterali»,rispetto al suo predeces­sore Bush concepito come il «guerrafonda­io » per antonomasia. La verità è che fu pro­prio Bush, insieme all’allora premier bri­tannico Blair, ad avviare la strategia dell’in­tesa con i Fratelli Musulmani. Obama sta operando all’interno del solco tracciato da Bush e ha raccolto il risultato più eclatante, l’uccisione di Bin Laden, grazie al consoli­damento di quell’intesa. Non è affatto ca­suale che ieri i Fratelli Musulmani abbiano manifestato apprezzamento per l’opera­zione.
Sono stato il primo giornalista a far cono­scere Bin Laden agli italiani all’inizio degli anni Novanta, quando era semisconosciu­to a livello mondiale. Era riuscito, investen­do un patrimonio di circa 500 milioni di dol­lari, a privatizzare il terrorismo islamico, sottraendolo al monopolio dei cosiddetti «Stati canaglia», che all’epoca erano la Li­bia di Gheddafi, l’Irak di Saddam e la Siria di Assad; ed era riuscito a globalizzarlo ra­mificando una rete di cellule terroristiche in varie parti del mondo che erano legate ideologicamente ma autonome sul piano
del reperimento fondi, scelta dei militanti e individuazione dei bersagli. I servizi segreti di tutto il mondo furono costretti ad azzera­re i parametri con­cui valutavano le organiz­zazioni terroristiche mediorientali. L’atten­tato alle Torri Gemelle fu assolutamente imprevedibile perché nessuno immagina­va che si potesse arrivare a trasformare de­gli aerei dirottati con centinaia di persone a bordo in un’arma da scagliare crudelmen­te contro dei grattaci­eli per abbatterli e pro­vocare il massacro di migliaia di innocenti.
Ebbene, Bin Laden è stato capace di trasfor­mare le persone in robot della morte, attra­verso un lavaggio di cervello, sconfessando il luogo comune secondo cui i terroristi sui­cidi sono soltanto vittime della miseria e dell’ingiustizia. Quindici dei 19 dirottatori suicidi dell’11 settembre erano sauditi,il ca­po Mohammad Atta era egiziano figlio di un noto avvocato, laureato ad Amburgo in­sieme ai restanti membri del commando. Tutti esponenti della media ed alta borghe­sia.
Lo stesso Bin Laden era un miliardario, ingegnere, innamorato dell’Occidente e della sua materialità. Ma ad un certo punto rifiutò la dimensione valoriale della moder­nità occidentale, riparando nel radicali­smo islamico. La pericolosità di Bin Laden è insita proprio nella sua capacità di coniu­ga­re il meglio della materialità della moder­nità occidentale con il peggio dell’ideolo­gia islamica che rinnega la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta.
Con la sua morte si avvia un inesorabile declino del terrorismo che possiamo defini­re dei taglia­
gola, di coloro che perseguono la conquista del potere sormontando i ca­daveri dei «nemici dell’islam». Ma senza farsi illusioni: il terrorismo dei cosiddetti jihadisti continuerà e nell’immediato cer­che­rà di assestare dei colpi particolarmen­te cruenti per confermare che la guerra san­ta non si conclude.
A questo punto voglio essere molto chia­ro: per noi occidentali è comunque più faci­le vincere la guerra contro i taglia-gola, che non contrapporci alla strategia di islamiz­za­zione dell’umanità perseguita dai Fratel­li Musulmani che ho ribattezzato terroristi «taglia-lingua». È un errore fatale immagi­nare che per affrancarci dai taglia-gola ci si possa affidare ai taglia-lingua. Mentre i pri­mi ci costringono a impugnare le armi e la nostra guerra acquisisce una legittimità perché si tratta di salvaguardare il nostro sacrosanto diritto alla vita, di fronte ai se­co­ndi siamo inermi perché sfruttano le no­stre leggi per affermarsi e la sharia per sotto­metterci.
Ha ragione il cardinale bolognese Giaco­mo Biffi, quando mi dice che il nostro vero nemico non sono gli islamici bombaroli ma i cosiddetti islamici moderati che ci im­pongono moschee e scuole coraniche. Per­ché prima o dopo sgomineremo i terroristi, mentre i simboli del potere islamico che si diffondono tra noi finiranno per trasfor­marsi in una realtà strutturale e alla fine ci imporranno l’islamizzazione. Ecco per­ché, se l’uccisionedi Bin Laden è un attodi giustizia,non andiamo oltre nell’affidare le nostre sorti ai terroristi taglia-lingua, i no­stri più pericolosi aspiranti carnefici.

Il FOGLIO - Giuliano Ferrara : " Apologia dell’America che celebra un atto di giustizia "


Giuliano Ferrara

La prestazione degli americani nei due secoli abitati dalle ultime generazioni è epica. Non c’è traccia di minimalismo in un presidente nero e liberal che annuncia con parole ispirate alla religione e alla Costituzione americana la vittoria in battaglia contro il nemico assoluto, contro il leader radicale islamico responsabile dell’11 settembre. La cattura ed esecuzione di Osama bin Laden, preso come un latitante di mafia in un paese straniero che lo proteggeva, e sepolto in mare mentre l’America fa festa, ha una potenza simbolica eccezionale, al di là delle conseguenze strategiche oggetto delle nostre analisi. Quello di Obama in morte del nemico è stato un glorioso discorso della bandiera, quella bandiera che sta per la Repubblica, “one nation under God, indivisible, with liberty and justice for all” (una nazione sotto Dio, indivisibile, che garantisce libertà e giustizia per tutti). Quel paese fatale ha vinto tre guerre in Europa nel Novecento, fino al collasso dell’ultimo totalitarismo; ha costruito un modello controverso di società aperta e cristianamente ispirata, che non ha accettabili alternative in occidente; ha incantato ed eccitato il mondo moderno e postmoderno, dividendolo tra amici e nemici in una logica imperiale che non prevede conquista e occupazione di territori altrui e che è fondata sul sacrificio personale dei combattenti, su una macchina di guerra e di intelligence che non ha rivali, su una libertà di iniziativa economica e sociale priva di riscontri nel resto del mondo; ha inaugurato questo secolo con una reazione calma e orgogliosa alla sfida di civiltà posta dall’islam politico che dura ancora e attraversa, oltre la vendetta, oltre la giustizia retributiva, oltre la tutela della sicurezza e dell’ordine mondiale fondato su libertà e democrazia costituzionale, la vita di tutti noi. Per dieci anni il capo dell’organizzazione terrorista che aveva insanguinato New York e Washington, uccidendo in nome di Dio quasi tremila americani di tutte le origini etniche e di tutte le fedi al culmine di una lunga campagna di attentati in cui erano cadute centinaia di vittime in giro per il mondo, tutti simboli di carne del nemico crociato ed ebreo, ha provato senza riuscirci a ripetere l’evento. La “famiglia americana” evocata da Barack Hussein Obama ha fatto il suo dovere con George W. Bush e con il suo successore, che ha sviluppato e proseguito la strategia del liberatore di Afghanistan e Iraq con l’aiuto dei suoi uomini, il segretario alla Difesa Robert Gates e il generale David Petraeus, delle sue tecniche e strategie politico-giudiziarie, a partire da Guantanamo, e del suo spirito così ben rappresentato dal contegno riservato dell’ex presidente e del suo ex ministro della difesa Donald Rumsfeld. Il cambio nella retorica politica, perfettamente legittimo in una grande democrazia della parola, non ha modificato di una virgola il comportamento dell’America come comunità e stato, come Amministrazione e soggetto politico imperiale. Le varianti o le incertezze nella politica estera sono una cosa, ma il bisogno di giustizia fa parte dei principi autoevidenti su cui è fondata la nazione americana dall’epoca dei suoi padri costituzionali. Catturare e giustiziare il “most wanted” a dieci anni dall’11 settembre non sarebbe stato possibile senza le radici americane: una rivoluzione repubblicana ispirata al Creatore e ai principi giusnaturalistici non negoziabili del diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Un modello di politica e di società pieno di difetti, ma che non prevede derive totalitarie, antisemitismo dispiegato, sudditanza ad altro che non sia la legge nel principio dell’autogoverno. Bin Laden, ucciso a 54 anni come un criminale irriducibile, non era un nemico qualsiasi, era anche lui, come sono i presidenti americani, un leader politico e religioso pieno di fascino e di energia spirituale per i popoli che lo hanno seguito in effigie e per i seguaci che hanno reso possibile la realizzazione della prima fase del suo disegno fanatico. Ha combattuto contro l’Unione sovietica, negli anni Ottanta, con l’appoggio geopolitico dell’occidente e degli stessi americani, e poi ha cambiato la mira, puntando sull’ideale di un califfato islamico e sul risveglio purista, wahabita, dei popoli di fede musulmana. Contro Israele, contro l’America, contro i crociati cristiani d’occidente, in parallelo con la rivoluzione iraniana sciita, profittando della decomposizione degli stati canaglia o degli stati musulmani falliti, Osama ha portato guerra, lutto e distruzione ovunque gli sia riuscito di farlo. La sua è una grandiosa leggenda nera, di proporzioni mitiche. Le sue parole, la sua epica nazionale islamica, erano e restano oltre la sua morte una minaccia esistenziale per il nostro modo di concepire la società e la vita. Diverse forme di purismo, tra le quali quella dei Fratelli musulmani, navigano anche nei movimenti di liberazione dalle oligarchie arabo-islamiche corrotte. Il fatto che Osama abbia perso la sua corsa personale contro il cavallo che aveva definito “debole”, l’occidente secolarizzato, è un “clamoroso trionfo”, come ha detto il premier israeliano, ma non ha alcunché di definitivo, non porta ancora la pace e la sicurezza, perché la sensibilità jihadista è parte di un paesaggio storico e simbolico in cui Bin Laden torreggiava, ma che la sua morte in battaglia offusca senza cancellarlo. C’è ancora molto da fare. Per questo è bene ricordare che qui, nella retrovia europea della prima grande guerra del XXI secolo, le divisioni sono state profonde, e ha vacillato in molti la necessaria volontà di battersi. Le ragioni di sfiducia nella faccia che di sé offrono l’occidente e il suo fulcro euro-atlantico sono numerose. L’imperfezione e la infinita corregibilità sono il vero crisma del nostro modello sociale. La forza della mobilitazione culturale e politica contro il jihadismo, in difesa di una identità fragile e contestata, risiede nella sua libertà di tono, nella sua intelligenza profonda delle cose, nella sua capacità di accettare critiche e antagonismi come elemento strutturale di un modo di pensare e di agire. L’Italia di Berlusconi in questi dieci anni ha dato una mano agli americani e a Israele sotto attacco. Siamo rimasti un paese libero e dissonante, ciascuno con la propria voce, ma abbiamo fatto il nostro dovere. Non si festeggia una sparatoria, si celebra bensì un consapevole atto di giustizia.

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " Da Giulio Cesare a Mussolini. Quando il corpo diventa mito "


Pierluigi Battista

Il corpo del nemico ucciso torna come uno spettro a popolare di incubi la vita di chi lo ha annientato. Farlo scomparire, addirittura negli abissi marini, come hanno deciso con quello di Bin Laden? Esibirlo come trofeo? Neutralizzarlo con appositi riti di allontanamento? Placarne il sangue per non aizzare nei seguaci lasciati orfani del leader vendette e fantasie di rappresaglia? Gli americani hanno voluto che le acque del mare, dopo una sbrigativa cerimonia funebre su una portaerei, consumassero i resti mortali del Nemico numero uno, del massacratore delle Torri Gemelle. Seppellirlo negli Stati Uniti, incassato il rifiuto di Paesi arabi e islamici, sarebbe stato un errore spaventoso, con quella tomba trasformata in santuario, meta di pellegrinaggio dei fanatici di tutto il mondo che sarebbero venuti a piangere il loro martire. Lasciarlo inghiottire dalle onde marine, del resto, alimenterà infiniti deliri paranoici, ecciterà inesauribili fantasticherie negazioniste. Per decenni la bizzarra inventiva di dietrologi, complottisti, nazisti irriducibili e folli di nostalgia ha ricamato attorno ai cadaveri di Hitler e della sua Eva Braun ritrovati nel bunker della disfatta a Berlino favole macabre sul Führer che non sarebbe morto, riparato in chissà quale rifugio sudamericano, pronto con un pugno di fedelissimi a tornare per la riconquista del Reich millenario. Ma con Bin Laden l’altalena di ipotesi se l’ormai invisibile capo di Al Qaeda fosse vivo in qualche grotta o già cadavere da anni era già in funzione da quasi dieci anni, all’epoca dell’ultimo videomessaggio. E poi, che realistica alternativa c’era? Il corpo del nemico, del dittatore, del condottiero è sempre ingombrante, circondato da tabù, raggiunto dalla febbre sensazionalista di chi non sa rassegnarsi all’idea che un grande destino, anche fosco e luciferino, possa ripiegare in una banale sorte da comuni mortali, senza saghe, leggende luminose o nerissime. Sergio Luzzatto ha descritto nel suo «Il corpo del duce» come la neonata Repubblica sia rimasta «ostaggio» della salma di Mussolini, un corpo prima venerato dalle folle adoranti e poi straziato nel rito lugubre, nella «macelleria messicana» , inscenato a Piazzale Loreto. Un corpo dapprima trafugato nel ’ 46 dai fascisti, poi nascosto per undici anni, e infine, soltanto nel ’ 57, tumulato a Predappio, dove ogni anno carovane di nostalgici, in cerimonie che mescolano sacro e profano, sagre di paese e mercatini delle reliquie, fasci littori e saluti romani, danno vita a kermesse non solo tollerate, ma oramai persino promosse dall’amministrazione locale (di sinistra) attraverso l’apposito assessorato al turismo. Non c’è bisogno di aggiungere il culto propriamente fascista della morte, dei martiri, delle memorie sacre riassunte in una tomba, in un catafalco, in un sepolcro per comprendere come il corpo del duce defunto abbia alimentato simbologie indistruttibili. Ma da sempre il «corpo del Re» in disgrazia agita i timori di chi resta. All’indomani delle Idi di marzo, nella cerimonia che doveva onorare il corpo trafitto da ventitré pugnalate di Giulio Cesare, i senatori e le matrone di Roma contribuirono a dare alle fiamme e a consumare i resti del Capo assassinato con un rito purificatore che sanzionò la sconfitta dei congiurati. E quante salme sono state riesumate, come per un’inconsapevole ossessione di accertamento, di garanzia che il corpo sepolto fosse esattamente quello che doveva essere. Fu riaperta persino la tomba di Napoleone, molti anni dopo la morte dell’imperatore a Sant’Elena. E sono stati disseppelliti i resti di Ceausescu, il tiranno romeno ucciso al termine di un processo farsa con la moglie Elena e fucilato dai nuovi padroni di Bucarest. Ossessioni, fantasie, paranoie mortuarie. Il ricordo di Bin Laden ne nutrirà infinite, complicatissime, arzigogolate, ma di sicura presa simbolica. E non si tratta necessariamente di fantasie arcaiche, immerse nella religiosità cupa e sovreccitata di una visione del mondo premoderna, così come si condensa nel fondamentalismo islamista di cui Bin Laden è stato spietato interprete. Basta pensare a come addirittura la religione del futuro, l’ideologia che avrebbe svelato al mondo la natura ipnotica e «oppiacea» di tutte le religioni stabilite, insomma il comunismo, abbia tributato ai cadaveri dei suoi carismatici Capi omaggi in cui è stata abbondantemente oltrepassata la soglia magica della superstizione. Corpi imbalsamati, corpi mummificati, corpi esposti alla venerazione dei fedeli convenuti nella piazza del Cremlino per visitare il sacrario in cui è conservato attraverso tecniche sofisticatissime il simulacro del leader scomparso. A dimostrazione ulteriore di come la presenza, sia pur fantasmatica, del corpo, moltiplichi sentimenti fideistici, liturgie superstiziose, identificazioni simboliche. Ecco perché, una volta accertatane indiscutibilmente l’identità, la salma di Bin Laden non poteva essere trattata come un corpo «normale» , da seppellire come in un’ordinaria cerimonia di addio. Il corpo assente ecciterà le fantasie di seguaci scossi da un dolore inconsolabile per la scomparsa del loro Capo, ma non sarà la reliquia custodita in un luogo inevitabilmente condannato a diventare il santuario di una memoria inestinguibile. Un anti Ground Zero in cui possano riunirsi minacciosamente i devoti dell’assassino assassinato, il loro martire. Gli Stati Uniti non potrebbero permetterselo.

Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Un comandante dietro le quinte "


Christian Rocca

George W. Bush lo voleva «dead or alive», vivo o morto, ma ha lasciato la Casa Bianca due anni fa senza aver compiuto la missione, senza aver catturato o ucciso l'ideatore degli attacchi dell'11 settembre. Prima di lui, Bill Clinton aveva esitato tre volte a schiacciare il bottone e Osama bin Laden, lo sceicco saudita che aveva dichiarato e praticato la guerra santa contro l'America già dal 1998, era riuscito a scappare e poi a progettare l'inaudita strage nel cuore dell'America.

Tremilacinquecentodiciannove giorni dopo quel martedì mattina di 11 anni fa, c'è riuscito Barack Hussein Obama, il 44° presidente degli Stati Uniti, quello giovane e inesperto, il politico sospettato da improbabili e incontentabili dietrologi di essere l'Anticristo, un impostore musulmano, ineleggibile perché nato all'estero. Joe Biden e Hillary Clinton, oggi suoi principali collaboratori, ma allora avversari alle primarie democratiche, nel 2007 e nel 2008 dicevano fosse «ingenuo», uno che non avrebbe avuto la spina dorsale per affrontare una crisi internazionale. E invece "it took Obama to get Osama", ci è voluto Obama per prendere Osama, come recitavano le scritte sulle magliette messe in vendita ieri a Washington.

Obama è riuscito a uccidere Osama, nonostante le critiche assurde della destra lo dipingessero come un leader "debole" nei confronti dei nemici dell'America (in Italia, Maurizio Gasparri all'indomani dell'elezione presidenziale disse che al-Qaida era felice del risultato). Non meno sballate sono state le contestazioni della sinistra liberal secondo cui avrebbe tradito gli elettori, le speranze e il sogno per il solo fatto di aver continuato la politica di sicurezza nazionale del suo predecessore.

I critici di Obama non hanno ascoltato Obama, non hanno letto con attenzione le sue proposte. Non hanno considerato che sulle questioni di sicurezza nazionale i presidenti degli Stati Uniti fanno i presidenti degli Stati Uniti, non gli operatori sociali. Gli avversari di Obama hanno commesso l'errore di proiettare sulla figura vuota del giovane presidente le proprie paure e le proprie illusioni, perdendo però di vista la realtà.

Obama invece ha ucciso Osama, guidando un'operazione militare e d'intelligence iniziata quattro anni fa a Guantanamo (e la cosa dovrebbe far riflettere i detrattori del supercarcere), prendendosi rischi, aspettando il momento giusto per agire, sapendo che un errore avrebbe posto fine alla sua presidenza. Una volta alla Casa Bianca, a parte qualche concessione retorica iniziale, non ha smantellato l'apparato di sicurezza post 11 settembre costruito da Bush. Il suo gabinetto di guerra, generali compresi, è lo stesso del precedente. Guantanamo è ancora aperto. I detenuti più pericolosi resteranno in carcere a vita, senza processo. Gli altri saranno giudicati con le corti speciali militari volute dal suo predecessore. In Iraq ci sono ancora 50mila uomini e il resto è rientrato secondo il calendario stabilito da Bush e dal Governo iracheno.

In Afghanistan il numero di boots on the ground, di stivali americani sul terreno, è triplicato rispetto ai tempi di Bush. Obama ha esteso in modo sistematico le operazioni militari in Pakistan, terra ospitale per talebani e guerrasantieri islamici.

Da quando è alla Casa Bianca ha autorizzato 226 attacchi missilistici sul Pakistan, provocando oltre 1.700 morti. Una guerra segreta, coperta, "sporca" si sarebbe detto un tempo e con altri presidenti. Una guerra che cambia la natura, la forma e la strategia dell'apparato militare e spionistico americano. L'operazione bin Laden ha consolidato la militarizzazione della Cia e la specializzazione del Pentagono in azioni coperte guidate dal Joint Special Operations Command. Il generale David Petraeus alla Cia e l'ex direttore Leon Panetta al Pentagono sono il sigillo obamiano su questa trasformazione.

Obama non ha tradito le promesse elettorali, semmai le ha esaudite. Chi ha seguito la sua campagna elettorale sapeva che avrebbe inviato più truppe in Afghanistan e preteso un maggiore impegno militare in Pakistan. Nel corso di uno dei dibattiti presidenziali, quello dell'ottobre 2008 a Nashville, Obama disse che se da presidente avesse individuato il nascondiglio di bin Laden e il Governo pachistano non fosse stato in grado o non avesse voluto prenderlo, lui non avrebbe rispettato la sovranità nazionale pakistana e non avrebbe atteso un lasciapassare internazionale, ma avrebbe deciso un intervento militare americano unilaterale, ad hoc, dentro i confini del Pakistan: «Se non lo fanno loro, dobbiamo farlo noi», disse in quell'occasione prendendosi i rimbrotti del candidato repubblicano John McCain. Domenica, ad Abbottabad, è successo esattamente quanto previsto: i pakistani lasciavano bin Laden indisturbato e Obama ha inviato le squadre speciali a pochi chilometri dalla capitale, a un passo dalla West Point del Pakistan.

L'efficacia della leadership di Obama è evidente, per quanto esercitata come in Libia "from behind", da dietro le quinte. Il presidente fa le stesse cose di Bush, senza scatenare proteste delle piazze occidentali e arabe, senza mobilitare le masse pacifiste, anzi addirittura vincendo il Nobel per la pace.

CORRIERE della SERA - Aldo Cazzullo : " Processare Osama Bin Laden, un’occasione (mancata) di forza "


 Aldo Cazzullo

E’ giusto festeggiare la morte di un uomo, per quanto abietto? Non sarebbe stata una prova di forza ancora maggiore catturare Osama Bin Laden e processarlo per i suoi crimini, anziché ucciderlo e gettarne il corpo in mare? La discussione sulla fine da riservare ai nemici dell’umanità dura da venticinque secoli. «Era ora! Prendiamoci una sbornia/beviamo a viva forza: Mirsilo è morto» . Così Alceo celebrava la fine del tiranno che l’aveva esiliato da Mitilene, e inaugurava un genere letterario, il «nunc est bibendum» di Orazio: ora si deve brindare. Nella Grecia antica, la civiltà che inventò la democrazia, il tirannicidio era considerato un valore, e gli ateniesi eressero una statua di bronzo ad Armodio e Aristogitone, che li avevano liberati dal despota Ipparco. E in America nessuno o quasi protestò quando fu impiccato Saddam Hussein. Per questo celebrare a Ground Zero la morte dell’uomo che volle l’ 11 settembre è apparso del tutto naturale, e probabilmente lo è. Non esistono regole generali, ogni personaggio fa storia a sé. La logistica finisce per contare più dei princìpi; e gli uomini che hanno ucciso Bin Laden forse non potevano agire diversamente. Se l’altro giorno— per singolare coincidenza— fosse morto pure Gheddafi sotto i missili Nato, la guerra civile che dilania la Libia sarebbe già finita; e certo non sarebbe un male. Ma il realismo politico non impedisce di farci qualche domanda. Sottoporre Osama Bin Laden a un regolare processo, magari davanti al tribunale internazionale costituito proprio allo scopo di provare e punire i crimini contro l’umanità, sarebbe stato un passaggio difficile per l’America, ma certo avrebbe rafforzato il suo prestigio di patria della democrazia moderna, uscita scossa dalle vicende dell’Iraq, di Abu Ghraib, di Guantanamo. È difficile avanzare rilievi agli uomini che hanno liberato il mondo dal fondatore di Al Qaeda e che oggi un’intera nazione onora, a cominciare dal presidente democratico Obama e da Hillary Clinton, che annuncia secca: «Bin Laden è morto, giustizia è fatta» . Però non c’è dubbio che le buone cause non escono ridimensionate ma rafforzate da un procedimento giudiziario condotto secondo il diritto internazionale, che comprende anche le garanzie per i colpevoli. Qualche anno fa si è riaperta in Italia la discussione sull’opportunità della fine di Mussolini. D’Alema definì un errore l’esecuzione per mano dei partigiani, subito corretto dall’allora segretario Ds Fassino. I realisti ricordarono che un processo al Duce sarebbe stato fonte di grandi imbarazzi, non solo per gli antifascisti dell’ultima ora, ma anche per le potenze alleate che l’avevano avuto come interlocutore (e, nel caso di Churchill, corrispondente) per anni. Neppure Bin Laden e la sua famiglia sono del tutto estranei all’establishment americano. Ma il punto non è questo. Nessun uomo davvero libero, se non qualche estremista islamico o qualche derelitto animato dal rancore per l’Occidente, piangerà la morte di Bin Laden. Così come nessuno, se non i beneficiati della sua tribù, piangerebbe domani la morte di Gheddafi. Ricordare l’esistenza di un’altra via — la cattura, il processo, la condanna, l’espiazione della pena — non significa abbandonarsi a facili umanitarismi. Significa ribadire la superiorità del diritto e della democrazia sul terrore e sul dispotismo.

Il FOGLIO - " Bin Laden è vivo, come Elvis "


Osama bin Laden

Chiaro che la televisione pachistana, che poche ore dopo il blitz notturno e l’uccisione di Osama bin Laden aveva messo in giro una vecchia foto taroccata di un finto bin Laden fintamente morto, non ha dato una gran mano alla causa della verità. C’è una porzione di umanità istintivamente disposta a dubitare di tutto quanto abbia i crismi della fattualità e viceversa propensa a credere a tutto quanto contraddica l’evidenza. C’è più gente di quanto si creda ancora disposta a credere all’imminente ritorno di Elvis. Ovviamente, la conferma che la foto era falsa non poteva non scatenare il tamtam del dubbio sul Web: ma sarà morto davvero? E il corpo? E perché ci sono voluti dieci anni? Le tecnologie di comunicazione hanno annullato tempo e spazio, sovrapponendosi alla realtà. Un giovane pachistano che chattava su Twitter a duecento metri dal bunker del capo di al Qaida ha in pratica dato in diretta la notizia. Eppure l’incredulità, elemento atavico, è come raddoppiata dalla tecnologia. Il contadino dell’Umbria, equivalente agrario e terragno della casalinga di Voghera, è tutt’ora convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna semplicemente perché è impossibile; il suo omologo internettista è convinto della stessa cosa, perché ha visto le “prove” delle foto manipolate. Per passare al serio: la teoria dell’autocomplotto delle Torri gemelle resiste da dieci anni, e anzi si diffonde attraverso il Web come un rizoma maligno. Possiamo stare sicuri che la conferma fotografica per ora mancante, il corpo gettato in mare, generano una ridda infinita di incredulità, di sospetti. Che i dubbi siano espressi apertamente nel mondo islamico è comprensibile. Ma basta fare un giro nella rete, anche senza addentrarsi nei social network della cosiddetta controinformazione, per trovare messo a tema il sospetto. E se esperti come l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica, Leonardo Tricarico, avanzano alcune legittime riserve (“mi sarei aspettato che la salma fosse stata resa visibile, in modo da dare la prova più evidente della sua morte”, ha dichiarato) per il volgo nemmeno la conferma “al cento per cento” del Dna è bastante. Ma all’incrocio tra atavico bertoldismo e postmoderna paranoia verso tutto ciò che le tecnologie potrebbero manipolare, scorre un veleno ancora più maligno. E’ l’odio ideologico. Per decenni c’è stato chi sosteneva false persino le foto del Che morto in Bolivia. C’è chi afferma tuttora che il Pentagono non è mai stato colpito l’11/9, le bombe al fosforo in Iraq sono a prova di qualsiasi smentita. Benedetto XVI, beatificando Karol Wojtyla, ha citato una frase del Vangelo, “beati quelli che non avendo visto, hanno creduto”, tra le cause della santità. Ovviamente, è pretendere troppo. Ma un po’ di fiducia nei fatti, non guasterebbe.

IT.DANIELPIPES.ORG - Daniel Pipes : " Riflessioni sull'uccisione di Osama bin Laden "


Daniel Pipes

Per il pezzo in lingua originale inglese, cliccare qui

Bin Laden era solo una parte di al Qaeda, che è solo una parte dello sforzo terroristico islamico che, a sua volta, è solo una parte del movimento islamista; pertanto, l'annuncio della sua morte questa notte per mano del governo Usa cambia poco le cose a livello operativo. La guerra al terrore non è sostanzialmente cambiata, tanto meno è stata vinta.

Ma poiché bin Laden ha simboleggiato il terrorismo islamico, la sua presenza provocatoria nelle registrazioni video e audio per quasi dieci anni dopo l'11 settembre ha incoraggiato i suoi alleati e ha demoralizzato i suoi nemici. Invece, la sua uccisione da parte delle forze americane nella città di Abbottabad, in Pakistan, rende gli americani orgogliosi del loro Paese, incoraggia le organizzazioni che si occupano di sicurezza e di intelligence ed è un duro colpo per gli islamisti.

Ecco cosa bisogna tenere d'occhio in futuro:

1) Da parte americana, l'improvvisa unanimità e l'orgoglio dureranno più di qualche giorno? O l'abituale reticenza della sinistra tornerà a prendere piede?
2) Riguardo agli islamisti, quanto sarà dura la loro reazione al governo Zardari che ha permesso alle forze americane di uccidere bin Laden in territorio pakistano? I cittadini americani e gli interessi Usa all'estero e in patria saranno oggetto di attacchi terroristici in risposta all'esecuzione del leader simbolico del jihad?

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