lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
28.04.2011 Corruzione, degrado dei diritti umani, egemonia islamista. Un bilancio dell'Onu
analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 28 aprile 2011
Pagina: 6
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Processo al Palazzo di Fango»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 28/04/2011, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Processo al Palazzo di Fango".


Giulio Meotti             Ban Ki-Moon

Con la sua solita, feroce ironia il columnist canadese Mark Steyn ha scritto che “il problema delle Nazioni Unite è che se si prende un quarto di gelato e un quarto di feci di cane, e poi li si mescola insieme, il risultato avrà più il gusto delle feci che del gelato”. L’orrida immagine è presto spiegata. Nel 2004, 13 stati su un totale di 53 della fallita Commissione dei diritti umani dell’Onu erano “non liberi” o “parzialmente liberi” secondo Freedom House. Oggi sono addirittura 21 i paesi membri del rinnovato Consiglio dei diritti umani giudicati dittatoriali o autocratici. La situazione è talmente peggiorata all’Onu che lo storico inglese Paul Johnson ha scritto che “oggi gli amici dei dittatori sono premiati con questi confortevoli posti a Manhattan e a New York arrivano come ambasciatori tutti i personaggi più indesiderabili del pianeta”. Se la gestione dell’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan fu contrassegnata da corruzione, nepotismo e irresponsabilità politica, quella misurata e pacata dello scintoista sudcoreano Ban Kimoon è forse anche peggio. E’ di pochi giorni fa la notizia che il Congresso americano ha tagliato di ben 400 milioni di dollari il contributo annuale all’Onu. A cinque anni dall’elezione di Ban Ki-moon si può scrivere l’infausto bilancio delle Nazioni Unite. Alcune agenzie dell’Onu restano modelli più o meno funzionanti. Sono il World Food Programme e l’Organizzazione mondiale della sanità e gli altri enti che forniscono aiuti e assistenza contro la povertà, l’Aids e la polio. Non se la cavano male i fondi di programmazione economica e di aiuto allo Sviluppo come la Fao e il Programma per lo sviluppo. Ma sul fronte politico e umanitario l’Onu è una macchina fallita. I torturatori vigilano sempre di più sulla più politica e mediatizzata delle agenzie dell’Onu, quel Consiglio di Ginevra per i diritti umani che ha preso il posto, ma anche la peggiore eredità, della Commissione per i diritti umani (disciolta nel 2004, tale fu la vergogna). Il Washington Post ha appena castigato il Consiglio dei diritti umani per aver destinato ben 41 delle sue 65 risoluzioni allo stato d’Israele. Ha scritto Joshua Muravchik che il Consiglio dei diritti umani è “il perfetto microcosmo della tragedia e della corruzione delle Nazioni Unite”. A proposito di corruzione al Palazzo di vetro, Ban Ki-moon è stato messo sotto accusa da alti funzionari della sua stessa organizzazione. Inga-Britt Ahlenius, responsabile per la lotta alla corruzione al Palazzo di Vetro, ha scritto in un memo che la gestione dell’Onu da parte del segretario generale Ban Ki-moon è “riprovevole” e porta l’organizzazione “alla decadenza”. “Le sue azioni sono senza precedenti”, si legge in un documento interno firmato dalla Ahlenius, 74 anni, svedese. Poi è arrivata la denuncia di un italiano, Francesco Bastagli, che alla fine del 2010 ha scritto per la rivista The New Republic un saggio dal titolo emblematico: “Justice Undone”. Bastagli era l’inviato in Africa di Kofi Annan: “Dopo essermi dimesso, ho visto come il nuovo segretario generale Ban Ki-moon ha assunto una politica anche più opportunista” del suo predecessore. Oltre che dalle dittature e dalla corruzione, le Nazioni Unite sembrano unite soprattutto dalle parentele. Il figlio dell’ex segretario Kofi Annan, Kojo, era a libro paga della società che avrebbe dovuto controllare il corretto funzionamento del programma iracheno Oil for Food, proprio mentre si volatilizzavano ventuno miliardi di dollari (è stato lo scandalo più devastandi Giulio Meotti te per la credibilità delle Nazioni Unite). Un candidato alla segreteria arriva a denunciarlo apertamente: “E’ necessario sradicare il nepotismo di cui siamo stati giustamente accusati”, tuona l’indiano Shashi Tharoor. E altrettanto necessariamente non viene eletto. La scelta cadrà su Ban Kimoon. E il giro riprende. La figlia del nuovo segretario, Ban Hyun Hee, lavora per l’Unicef, l’organizzazione di aiuto all’infanzia. Il genero del segretario, Siddarth Chatterjee, da quando il suocero è diventato segretario è stato prima nominato capo dello staff dell’Onu a Baghdad, uno dei teatri più importanti di impegno delle Nazioni Unite. In seguito Siddarth ha battuto un centinaio di candidati per la guida di una ricchissima agenzia in Danimarca che gestisce appalti miliardari, l’Unops. Subito dopo l’Unicef trasferisce sua moglie, nonché figlia di Ban Ki-moon, in Danimarca. Oltre al nepotismo e alla corruzione, la gestione di Ban Ki-moon è stata caratterizzata da uno dei peggiori capitoli della storia delle Nazioni Unite. Quella delle violenze sessuali. Sulle quasi centomila truppe del Palazzo di vetro impiegate in operazioni di peacekeeping pesa l’onta, infamante, dell’abuso sessuale su donne e minorenni. Un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che, da quando nel 2003 il Palazzo di vetro ha riconosciuto il problema, nulla da parte di Ban Ki-moon è stato fatto per punire, scovare e processare i colpevoli. Il quotidiano americano ha studiato tre casi: Sri Lanka, Marocco e India. Tre anni fa cento peacekeepers dello Sri Lanka furono accusati di aver abusato di bambini haitiani. Abusi sono stati commessi ancora da truppe marocchine in Costa d’Avorio e da truppe indiane in Congo. Il rapporto finale del principe Zeid al Hussein, “A Comprehensive Strategy to Eliminate Future Sexual Exploitation and Abuse in United Nations Peacekeeping Operations”, parla di caschi blu coinvolti in scandali sessuali in Bosnia, Kosovo, Cambogia, Timor Est, Burundi e Africa occidentale. In Africa si parla ormai di “peacekeepers babies”, i bambini illegittimi dei “soldati umanitari”. La missione in Congo era la seconda più grande missione di pace dell’Onu. Stupro, pedofilia e sfruttamento della prostituzione sono le accuse contro l’Onu. Le minorenni venivano adescate con un dollaro. Queste bambine sono note come “one dollar baby”. Colpevoli sono gli stessi inviati dell’Onu che al Palazzo di vetro avevano appena condannato lo stupro come “arma di guerra”. In passato, con tutti quei regimi che non rispettano i diritti umani, è capitato che gli Stati Uniti venissero esclusi dalla Commissione (2002), che la Libia ne assumesse la presidenza (2003), che il Sudan ne facesse parte (2004), che l’Arabia Saudita, Cuba e lo Zimbabwe decidessero quali violazioni dei diritti condannare (2005). Oggi lo spettro dei decisori umanitari è ancora più impressionante: Angola (not free), Bahrein (partly free), Bangladesh (partly free), Burkina Faso (partly free), Camerun (not free), Cina (not free), Cuba (not free), Gibouti (partly free), Ecuador (partly free), Gabon (partly free), Giordania (not free), Kyrghizistan (not free), Libia (not free), Malesia (partly free), Mauritania (not free), Nigeria (partly free), Pakistan (partly free), Arabia Saudita (not free), Senegal (partly free), Thailandia (partly free) e Uganda (partly free). Non ci sono ormai paesi più interessati al Consiglio dei diritti umani di quelli che quei diritti li negano quotidianamente. Tre anni fa il precedente Alto Commissario per i diritti umani, Louise Arbour, ha partecipato a Teheran ai lavori di una conferenza su “i diritti dell’uomo e la diversità culturale”. Con il chador a coprirle il volto, la Arbour ha ascoltato impassibile Mahmoud Ahmadinejad che chiamava alla distruzione di Israele e negava l’Olocausto. L’attuale commissario non è da meno. La signora Navi Pillay ha detto che “non c’è stata alcuna politica genocida in Sudan”. Mentre la coalizione dei volenterosi si imbarcava, sotto l’egida dell’Onu, nella fragilissima avventura libica, all’Onu presenziava come “esperta dei mercenari” la signora Najat al Hajjaji, apparatchik all’Onu di lungo corso per conto del colonnello Gheddafi, che dei mercenari sta facendo grande uso nella guerra libica. Human Rights Watch, la nota e liberal organizzazione dei diritti umani, ha accusato Ban Kimoon di “codardia”. Sotto la direzione di Ban Ki-moon il Sudan, che in Darfur ha usato la fame come arma di sterminio di cristiani e animisti, è diventato vicepresidente del World Food Programme ed è entrato nella commissione esecutiva dell’agenzia per i rifugiati. E’ anche successo che ai vertici della Commissione sull’informazione siano arrivati noti persecutori dell’informazione come Cina, Kazakistan, Libia e Iran, dove blogger e giornalisti marciscono in carcere. Il matematico francese Laurent Lafforgue ha commentato che “è come se un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo decidesse di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per i diritti umani”. E nell’incredibile elenco manca il più grande azionista dell’Onu, ovvero l’Iran, che sotto la gestione di Ban Ki-moon ha brillantemente usato le grandi agenzie delle Nazioni Unite per aggirare l’isolamento diplomatico. Nel Consiglio dei diritti umani è entrato a far parte persino Saeed Mortasavi, il pubblico ministero di Teheran che ha perseguitato scrittori e torturato intellettuali e che è noto come il “macellaio della stampa”. L’Onu ha premiato gli ayatollah eleggendo Teheran capitale mondiale della filosofia, sebbene l’Iran sia disseminato di filosofi e pensatori incarcerati o in esilio forzato (lungo è l’elenco: da Kian Tajbakhsh condannato a dodici anni ad Hashem Aghajari condannato a morte per blasfemia). Teheran è entrata a far parte della Commissione per lo status delle donne, sebbene il regime iraniano sia uno dei più segregazionisti al mondo verso il sesso femminile. E’ la stessa Commissione che è andata a presiedere l’ex presidente cilena Michelle Bachelet. Di diritti femminili si occupa la maggiore organizzazione dell’Onu, il Programma per lo Sviluppo, ai cui vertici spicca Teheran (nel 2009 l’Iran ne è stato anche presidente). C’è un iraniano al fondo per la Popolazione e al fondo di Sviluppo per le donne. Nonostante vi siano prove di un traffico di armi chimiche dall’Iran a Hezbollah, Teheran per tutto il 2011 sarà vicepresidente dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. L’Iran siede all’Ufficio per la droga, quando a Teheran non si contano più le impiccagioni di trafficanti di droga (spesso accuse false addossate ai dissidenti). Teheran è nella Commissione sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale: niente male per un paese che è leader mondiale nelle condanne a morte. L’Iran è entrato nel board esecutivo dell’Unicef, nonostante Teheran detenga anche il record di impiccagioni di minorenni. L’Iran è per quattro anni nella Commissione per la Scienza, la Tecnologia e lo Sviluppo e nel “Comitato per l’uso pacifico dello spazio”. L’Iran siede nell’Agenzia per i rifugiati, nel Programma per l’ambiente e nel Programma per gli insediamenti umani. Vicepresiede (assieme all’Algeria) anche la Commissione giuridica dell’Onu, che sui diritti umani riveste un ruolo di grande responsabilità. Nella commissione che fa consulenza al commissario Pillay, su diciotto membri sei provengono da regimi più o meno dittatoriali. Persino il compassato magazine Foreign Policy parla del bisogno di “riportare i diritti umani dentro al Consiglio per i diritti umani”. Per capire il degrado dell’Onu bisogna sbirciare anche fra i suoi premi. Uno fra tutti è quello che porta il nome del presidente della Guinea equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che ha promosso un fondo Onu intitolato a suo nome e dedicato alla scienza. Contro la decisione si sono schierati molti premi Nobel scientifici, dal francese Claude Cohen-Tannoudji, Nobel per la Fisica nel 1997, al canadese John Polanyi, Nobel per la Chimica nel 1986. Il nuovo filantropo dell’Onu è noto come “il peggior dittatore d’Africa, peggio di Mugabe”. Lo United Nations Public Service Award del 2010 è stato invece assegnato al ministero dell’Interno libanese, bastione del potere della milizia sciita filoiraniana Hezbollah. Il premio ha riconosciuto la capacità libanese di organizzare libere elezioni parlamentari nel 2009. Sotto il mandato di Ban Ki-moon, quello di Durban è diventato il nomen-omen della peggior faziosità ideologica dell’Onu. A settembre, a ridosso del decimo anniversario della strage dell’11 settembre, Ban Kimoon ospiterà al Palazzo di vetro “Durban III”, il coronamento di quella che l’ambasciatrice americana al Palazzo di vetro Kirkpatrick ha definito “la lunga marcia all’Onu” dei regimi islamici. E’ il remake del festival sul razzismo celebrato nel 2001 in Sudafrica e nel 2009 in Svizzera, che Teheran trasformò in una messinscena antisemita e antioccidentale. Israele e Canada hanno già annunciato il proprio boicottaggio per la terza edizione. Il Palazzo di vetro ha approvato la “A/C.3/65/L.60”, la piattaforma programmatica di Durban III. E’ stata scritta dallo Yemen, uno dei paesi “non liberi” che guida il blocco islamico e africano. Il maggior atto d’accusa del Consiglio dell’Onu contro Israele è finito con un incredibile pentimento del suo stesso esecutore. Si tratta di Richard Goldstone, il magistrato sudafricano che si è appena rimangiato il rapporto sulla guerra di Gaza in cui accusava Israele di “crimini di guerra”. Poi c’è stata la risoluzione numero 62/154. Titolo: “Combattere la diffamazione delle religioni”. E’ il più micidiale strumento di soppressione della libertà di espressione e il più grande successo della Organizzazione della conferenza islamica, divenuta sotto Ban Ki-moon il più potente blocco di votanti alle Nazioni Unite. Lo scorso novembre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha discusso alcuni emendamenti a una risoluzione sulle esecuzioni extragiudiziali. Nella risoluzione si prendevano in considerazione casi come gli attivisti di diritti umani nelle dittature e le minoranze etnico-religiose. Per un decennio la risoluzione aveva incluso l’orientamento sessuale, visto che non è raro che gli omosessuali siano messi a morte nei regimi islamici e africani. Una maggioranza di 79 paesi contro 70, 17 astenuti e 26 assenti, ha approvato un emendamento presentato dal Benin che proponeva di stralciare le minoranze omosessuali dal gruppo dei cittadini che si devono proteggere. Fra coloro che hanno votato a favore dell’emendamento, manco a dirlo, Afghanistan, Algeria, Egitto, Marocco, Pakistan, Malesia, Sudan, Yemen e naturalmente Iran. Una delle peggiori risoluzioni del Consiglio dei diritti umani si chiama “Promozione dei diritti dei popoli alla pace”. Voluta da Cuba, la risoluzione impedisce di condannare un regime per la violenza politica interna ma condanna i “crimini di guerra” di potenze straniere. Arabia Saudita e Camerun hanno potuto giustificare la repressione dei gay in nome dei “valori tradizionali”. Membri islamici del Consiglio stanno pianificando l’istituzione di una commissione “indipendente e permanente” per promuovere i diritti umani basati sulla Dichiarazione universale del Cairo, la versione islamica della carta dell’Onu del 1948. Questa Dichiarazione ha ispirato l’abbandono delle legislazioni ispirate dai Codici napoleonici o dalla Common Law e l’introduzione della sharia. L’Arabia Saudita nel 1948 si rifiutò di firmare la Dichiarazione dell’Onu proprio in disaccordo sulla parità di diritti della donna e sul riconoscimento della libertà di coscienza. La pena di morte è iscritta nella Carta islamica. Anche il diritto all’integrità fisica non è garantito, perché mutilazioni e pene corporali sono vietate tranne che per “una ragione prescritta dalla sharia”. Si dice che “l’islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano”. Lo studioso francese Gilles Kepel sostiene che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam “straccia semplicemente” quella dell’Onu. Ma la macchia più grande di Ban Kimoon resta il Darfur, la regione sudanese teatro del peggior genocidio dopo il Ruanda. Non soltanto le Nazioni Unite sono state incapaci di chiamarlo “genocidio” e di agire per fermare la strage da parte del regime di Khartoum. Ma Ban Ki-moon il 16 giugno 2007 ha fornito questa memorabile spiegazione sui 400 mila morti e le orde di guerriglieri arabi che hanno operato razzie, distrutto villaggi, pozzi, piantagioni, allevamenti e sterminato famiglie, dilaniato vecchi, stuprato donne, abusato di bambini e bambine per poi rivenderli come schiavi: “Il conflitto in Darfur è parte del surriscaldamento globale”. Eccola la sintesi tragica delle Nazioni Unite: spiegare le fosse comuni con l’avanzata del deserto.

Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT