Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/04/2011, a pag. 43, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo "Le crisi nordafricane e la questione palestinese".
Sergio Romano
Per quanto riguarda la situazione in Egitto, Romano scrive : "Qualche prudente previsione è possibile in Egitto dove la transizione è nelle mani dell’esercito, vale a dire di una istituzione con cui abbiamo una certa familiarità. ". L'esercito è alleato dei fondamentalisti islamici, dei Fratelli Musulmani. Ma Romano non lo scrive, nè specifica che, per questo motivo, l'Egitto post Mubarak non diventerà una democrazia.
Per quanto riguarda la questione palestinese, Romano sostiene che diversi Stati (come Turchia e Usa) vorrebbero che tornasse ad essere al centro dell'attenzione internazionale , ma : " gli israeliani, pur essendone consapevoli, hanno un governo troppo diviso e sfaccettato per potersi muovere con la necessaria flessibilità.". E' difficile muoversi con flessibilità quando a essere in gioco è la sicurezza dei propri cittadini. Abu Mazen non offre garanzie, e avanza pretese impossibili da soddisfare. E in ogni caso non ha il controllo di tutti i Territori Palestinesi. Gaza è governata dai terroristi di Hamas. A loro non interessa la pace con Israele, ciò che conta sono la sua cancellazione e l'eliminazione dei suoi abitanti. Per flessibilità che cosa intende Romano? Cedere ai ricatti della controparte e lasciarsi cancellare pezzo dopo pezzo dalle carte geografiche?
" In questa situazione il leader palestinese Mahmud Abbas ha ricordato che il termine utile per la conclusione di un nuovo negoziato è settembre. Se non vi sarà un accordo entro quella data, i palestinesi si rivolgeranno all’Onu per chiedere che la sua assemblea riconosca il loro Stato nei confini del 1967: una decisione che avrebbe effetti pratici difficilmente prevedibili, ma metterebbe Israele in grave imbarazzo.". L'autoproclamazione dello Stato palestinese non metterebbe Israele 'in grave imbarazzo', provocherebbe una guerra. Romano legga l'analisi di Giovanni Quer pubblicata in altra pagina della rassegna, gli sarà utile a comprendere per quale motivo l'autoproclamazione dello Stato palestinese non è attuabile.
Ecco lettera e risposta di Sergio Romano:
Sarei lieto di sapere quali scenari e assetti politici mediorientali dovrebbero emergere dalle recenti rivolte popolari e cadute di regimi per favorire maggiormente la soluzione della decennale questione palestinese, che rappresenta uno degli ostacoli più seri alla pacificazione di tutta l’area mediorientale. Inoltre, la partecipazione del movimento dei Fratelli Musulmani alla costruzione democratica dello Stato egiziano, se la situazione evolverà in questa direzione, potrà influire sul destino dei tanti movimenti e gruppi di ispirazione fondamentalista sparsi nelle varie aree del Medio Oriente?
Fabrizio Materi, Lecce
Caro Materi, A lla sua prima domanda — quale sarà dopo le rivolte il paesaggio politico e istituzionale del Medio Oriente — sarebbe più facile rispondere se conoscessimo i nomi, i volti, le idee e il retroterra culturale di coloro che finiranno per guidare il movimento di protesta. Qualche prudente previsione è possibile in Egitto dove la transizione è nelle mani dell’esercito, vale a dire di una istituzione con cui abbiamo una certa familiarità. Le stesse considerazioni valgono per la Tunisia dove il governo, per il momento, è composto dai notabili meno compromessi con il regime di Ben Ali e assomiglia a quello che si costituì in Italia sotto la presidenza del maresciallo Badoglio dopo la caduta di Mussolini. In Libia, invece, le incognite sono molto più numerose delle certezze. I ribelli della Cirenaica parlano il linguaggio della democrazia perché è quello che ha maggiori possibilità di suscitare l’attenzione dell’Occidente e di rafforzarlo nella convinzione che il suo modello politico sia un passepartout universale. Ma non sappiamo se e quanto saranno democratici dopo la conquista del potere. I loro leader sono uomini coraggiosi e intelligenti, ma non possiamo dimenticare che sono stati sino all’altro ieri amici, sodali e collaboratori di Gheddafi. In Siria la crisi è ancora aperta, ma è difficile immaginare che il partito del potere sia disposto a fare un passo indietro con riforme non puramente cosmetiche. Nel Golfo Persico infine la situazione non è meno confusa, ma la regia sembra essere nelle mani dell’Arabia Saudita: una constatazione che suscita ottimismo fra i paladini della stabilità, pessimismo fra quelli delle riforme. Sul secondo punto evocato dalla sua lettera (la questione palestinese) osservo che qualcuno vorrebbe rimetterla all’ordine del giorno senza aspettare la fine di una crisi da cui potrebbero discendere nuove complicazioni. Questa è la posizione del presidente della Repubblica turca Abdullah Gul (International Herald Tribune del 22 aprile) e, a quanto pare, della stessa presidenza americana. Ma gli israeliani, pur essendone consapevoli, hanno un governo troppo diviso e sfaccettato per potersi muovere con la necessaria flessibilità. In questa situazione il leader palestinese Mahmud Abbas ha ricordato che il termine utile per la conclusione di un nuovo negoziato è settembre. Se non vi sarà un accordo entro quella data, i palestinesi si rivolgeranno all’Onu per chiedere che la sua assemblea riconosca il loro Stato nei confini del 1967: una decisione che avrebbe effetti pratici difficilmente prevedibili, ma metterebbe Israele in grave imbarazzo.
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sull'e-mail sottostante