Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/04/2011, a pag. 3, l'articolo di Luigi De Biase e Daniele Raineri dal titolo " Ecco la mappa della rivolta che non fa dormire gli Assad ", gli articoli titolati " All’Onu, Damasco è campione di diritti umani " e " Il silenzio arabo sul sangue in Siria ".
Ecco i pezzi:
Luigi De Biase, Daniele Raineri : " Ecco la mappa della rivolta che non fa dormire gli Assad "
Siria Luigi De Biase, Daniele Raineri
Deraa. E’ a Deraa, lungo il confine con la Giordania, il pericolo più grave per il regime del presidente siriano, Bashar el Assad. Migliaia di manifestanti hanno sfidato per settimane il fuoco dell’esercito e la vendetta del governo. Sono stati i primi a protestare e hanno fatto capire subito quale fosse il loro vero obiettivo: a marzo, in un solo giorno, hanno distrutto la sede del partito Baath, vicino agli Assad da quando sono al potere, e quella della compagnia telefonica Syriatel, che appartiene a un cugino di Bashar (Rami Makhlouf) ed è sottoposta alle sanzioni americane. Le Forze di sicurezza non hanno mostrato pietà per questo posto di frontiera, che è diventato in fretta il centro della rivolta. Hanno arrestato una ventina di bambini che avevano coperto i muri della loro scuola con scritte antiregime, hanno portato i carri armati nel centro della città e ora tremila soldati rastrellano le sue strade. Venti persone sarebbero morte soltanto lunedì. Assad non può cedere: il confine sud, quello dell’Iraq e della Giordania, così come quello occidentale con il Libano, potrebbe essere usato dai ribelli per rimediare armi.
Latakia. C’è stato un tempo in cui Latakia – la greca Laodicea – era capitale degli alawiti, la piccola élite religiosa dominante a cui oggi appartengono tutti i pezzi grossi del regime. Dal 1930 al 1936, fu anche uno staterello costiero inventato dai francesi: il Sangiaccato di Latakia. Non per nulla gli Assad vengono da là. Oggi invece la popolazione della città-porto è mista, ci sono cristiani greco-ortodossi, musulmani e appunto alawiti. La rivoluzione brucia: ci sono manifestazioni, cecchini sui tetti e morti, sedici in due soli giorni alla fine di marzo. Il regime per ora ha mandato truppe a piedi, ma non i carri armati. Nei suoi ampi quartieri residenziali si dice siano nascoste enormi basi della polizia segreta. Perdere la loro ex capitale e un governatorato così importante sarebbe un duro colpo per gli alawiti. Il quartiere centro delle rivolte per ora è Sleibi, nella parte sud.
Homs. C’è una cosa che i giovani di Homs hanno capito bene negli ultimi giorni: le rivoluzioni non si vincono su Internet. I loro appelli alla rivolta diffusi via Facebook e via Twitter non hanno ancora avuto la meglio sulle squadre speciali dell’esercito, che adesso attaccano persino i funerali. Una settimana fa hanno aperto il fuoco nel cuore della notte per disperdere un sit-in pacifico – il video della carneficina è stato diffuso soltanto da due giorni. Questa città di un milione e mezzo di abitanti è strategica per l’industria nazionale, ma è anche il bastione della borghesia, degli avvocati, dei giornalisti e dei medici che qui sono un gruppo potente e ben organizzato. Alla rivolta si sono uniti anche i religiosi. Come Sheikh Sahl Junaid, un rappresentante del clero che raduna a cadenza regolare centinaia di giovani nelle piazze di Homs – e grida loro di scappare quando l’esercito lo avvisa che la pazienza è finita.
Tartous. Conosciuta anche come Tortosa quando era proprietà di crociati e di genovesi, è investita soltanto di striscio dall’ondata di proteste – che per ora avvengono soprattutto bloccando la strada che la collega, a un’ora di distanza, all’altro grande porto siriano di Latakia. Il rischio sembra basso. Eppure è una città decisiva per il regime, perché è stata ceduta al Quinto squadrone della Flotta navale russa. Grazie a un accordo con gli Assad, Mosca ha navi armate di ordigni nucleari nel Mediterraneo, una presenza minacciosa che serve da strumento di pressione geopolitica. Tartous è defilata, ma forse per questo è sempre al centro di intrighi internazionali. Da là sarebbero partiti i carichi segreti di armi forniti dal regime ai mercenari di Gheddafi, là sarebbero arrivati i container nordcoreani pieni di materiale nucleare di contrabbando. Nel 2008 un generale e consigliere di Bashar el Assad, Muhammad Suleiman, fu ucciso da un cecchino nella sua villa sul mare. Si parlò di un assassinio targato Mossad, ma la versione più credibile racconta un’uccisione dovuta a una faida fra i capi del regime.
Jableh. Poche città in Siria hanno la rivolta nel sangue come Jableh. Qui, alla fine dell’Ottocento, nacque Izz ad Din al Qassam, il condottiero musulmano che organizzò la resistenza contro l’esercito francese e proseguì la propria lotta in Palestina – il suo nome è venerato da Hamas, che gli ha intitolato i missili artigianali con i quali colpisce Israele e una brigata paramilitare. Anche questo centro di mare è diventato un problema per il regime: prima le forze di sicurezza si sono limitate agli arresti (oltre 500 persone sono finite in carcere nell’ultimo mese), poi hanno cominciato a sparare. Tredici uomini sono stati uccisi domenica, quando le Forze speciali hanno fatto irruzione nel centro di Jableh per fermare un corteo, ma il bilancio salirà, dato che il regime non intende fare concessioni. Assad ha già ridotto le forniture di acqua e di energia, ora pronto a riportare la propria legge lungo la costa.
Qatana. Quando venerdì scorso anche la città di Qatana, a ovest della capitale Damasco, si è unita alla rivolta con proteste nelle strade, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da quel momento il regime ha scelto di agire con brutalità e ha deciso l’impiego dei carri armati giù al sud. Qatana è una città semi militarizzata – molto vicina al confine con il Libano – che è andata sempre d’accordo con l’esercito, ospita le basi più grandi delle unità corazzate siriane, appartenenti alla Settima divisione (sarebbe di certo una delle prime a essere impiegata in caso di guerra contro Israele). I suoi abitanti sono in maggioranza o militari oppure personale civile che lavora nelle caserme. La ribellione di Qatana equivale quasi a una ribellione dentro l’esercito, l’evento più temuto dal regime. Due settimane fa s’è sparsa la voce – non si sa quanto creata ad arte – che alcuni terroristi islamici, sauditi e iracheni, fossero in città per attaccare una chiesa.
Aleppo. Aleppo la Grigia, la capitale del nord, la terza città cristiana del mondo arabo dopo Beirut e il Cairo, è il simbolo della strategia che il regime intende usare per domare la rivoluzione. I suoi abitanti per ora non si sono uniti alle proteste e – a parte alcune centinaia di studenti universitari, teste calde per eccellenza – non sembrano morire dalla voglia di farlo. La realtà è che il governo sta convincendo i cristiani che il golpe sunnita sarebbe cosa dannosa per loro. Bashar el Assad è sempre stato molto attento a coltivarsi la simpatia del suo dieci per cento di cristiani, arrivando a pregare assieme a loro e leggendo messaggi presidenziali ogni Natale. Come gli alawiti del regime, anche i cristiani occupano una larga parte dei posti migliori, nelle professioni e nelle istituzioni, e temono il rovesciamento dei rapporti di forza che potrebbe seguire alla rivolta. Nei villaggi attorno a Damasco sono arrivati al punto di rimandare matrimoni e di tenere i bambini a casa. Ad Aleppo non è così, non c’è panico, ma la sua sordità alle ragioni delle manifestazioni è eloquente. Se anche là scoppiassero proteste, per i due fratelli Assad sarebbe un grande problema, perché le forze di sicurezza a disposizione in questo momento sono concentrate al sud.
Hama. Nella città di Hama, 150 chilometri a sud di Aleppo, non si registrano grandi proteste. Ma il suo nome ricorre di continuo nelle cronache di questi giorni. Hama è il famigerato “modello Hama”, a cui il regime baathista ricorrerà se sentirà – come già sente adesso – in pericolo la propria sopravvivenza. Hama è il nome maledetto che per tutti questi anni ha paralizzato l’opposizione e ancora oggi blocca tanti siriani dallo scendere in piazza. Nel 1982 il fratello minore del presidente Hafez el Assad, Rifaat, rase al suolo con l’artiglieria la città per schiacciare una rivolta dei Fratelli musulmani con brutalità che fosse d’esempio per chiunque altro. Il numero delle vittime non è chiaro ancora oggi, ma fu tra le ventimila e le quarantamila. Il massacro fu di terribile efficacia e spiega perché una minoranza così debole come quella alawita oggi ha in pugno le leve del potere, pur dovendo confrontarsi con un ottanta per cento di potenziali nemici. I Fratelli musulmani sopravvissuti si dispersero e non se ne è più sentito parlare fino a questi giorni.
Banias. Se si vuole capire come mai il regime di Assad stia usando tanta forza per impedire ai ribelli di prendere la città di Banias, basta guardare la mappa dell’energia siriana. Questa città di cinquantamila abitanti possiede una centrale elettrica e una delle raffinerie più grandi del paese: da Banias dipendono le forniture al nord, compresi i centri portuali della costa siriana. Il governo ha ammassato migliaia di truppe intorno alla città che hanno già attaccato la periferia. Allo stesso modo, ha deciso di mettere sotto assedio la vicina Baida, che è stata “punita” per avere ospitato i ribelli di Banias. “I soldati circondavano i manifestanti nelle piazze e li picchiavano”, ha detto al New York Times il rappresentante di una organizzazione per i diritti umani, Wissam Tarif. Le autorità siriane hanno una versione completamente diversa. Dicono che i ribelli hanno cominciato la guerriglia e sono già riusciti a uccidere nove militari. Di qui la risposta dell’esercito. Dopo gli incidenti di Banias e Baida, che sono cominciati il 12 aprile, anche la Casa Bianca ha definito “un oltraggio” la repressione di Assad.
Damasco. La rivolta siriana non è ancora entrata a Damasco, capitale della Siria e roccaforte degli Assad, la famiglia che guida il paese dagli anni Sessanta. Tutti aspettano quel giorno decisivo e molti pensano che verrà presto, ma sinora l’esercito è intervenuto soltanto alla periferia nord e ha lanciato un messaggio chiaro: non ci saranno sconti per chi manifesta. Da Damasco, Bashar el Assad gestisce la macchina della repressione, mentre il fratello Maher, il capo della guardia presidenziale, si muove sul campo. Bashar ha revocato lo stato di emergenza (senza per questo ridursi i poteri) e rischia nuove sanzioni dall’occidente. Ma il suo pensiero più grande, ora, è tenere i ribelli lontano dalla capitale.
" All’Onu, Damasco è campione di diritti umani "
Navi Pillay
Il commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Navi Pillay, sta considerando un’offerta arrivata ieri dal governo di Damasco. Il presidente siriano, Bashar el Assad, vorrebbe che Pillay visitasse il paese per rendersi conto che la repressione non è altro che una menzogna raccontata dai quotidiani dell’occidente. Le condizioni della visita sono state descritte dall’ambasciatore siriano all’Onu durante un incontro privato con il commissario. Pillay non ha ancora fornito una risposta, ma dal suo ufficio dicono che “si spera di organizzare una visita indipendente per stabilire quale sia la situazione sul campo”. Nessuno esclude che la signora sudafricana, in ufficio dal 2008, prenda un aereo per Damasco già nei prossimi giorni. L’Onu, dopotutto, ha assunto spesso un atteggiamento molto paziente nei confronti degli Assad e dei sistemi che usano per convincere gli oppositori a terminare le proteste. Basti pensare che oggi la Siria rischia di essere eletta alla guida dello stesso organismo per il quale lavora Pillay. Le elezioni per stabilire il nome dei quattro paesi asiatici che faranno parte del Consiglio per i diritti umani. Ci sono poche possibilità che il regime di Damasco perda il seggio – fallirebbe soltanto se un altro paese entrasse in gara e raccogliesse un numero più alto di preferenze. Alcune organizzazioni umanitarie hanno cominciato a muoversi per impedire che lo stesso governo coinvolto nella carneficina peggiore degli ultimi dieci anni scriva e sorvegli le regole che dovrebbero impedire nuovi massacri.
" Il silenzio arabo sul sangue in Siria "
Recep Erdogan
Trecento morti uccisi dalle forze di sicurezza siriane in tre giorni. I feriti costretti a nascondersi nelle case per sfuggire all’arresto o all’esecuzione a sangue freddo. Gli spari sui funerali contro i parenti e gli amici di chi è morto nelle proteste. Gli arrestati e gli scomparsi. Eppure il mondo arabo e quello islamico si ostinano nel loro silenzio e i rivoltosi di Siria non ricevono alcuna solidarietà dai vicini. Manca una dichiarazione del premier della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, che pure fa sentire forte la sua voce contro Israele. Ankara tace, e sta invece preparando la partenza di una nuova “flotilla” umanitaria per forzare il blocco di sicurezza navale attorno alla Striscia di Gaza. Manca la voce degli stessi palestinesi, giovani sunniti come i giovani sunniti siriani colpiti per le strade, ma che per ora si guardano bene dal protestare – soprattutto quelli di Gaza – contro un regime che è stretto alleato dei loro sponsor a Teheran. Tace anche l’Arabia Saudita, che ovviamente ha scelto una linea di non interferenza totale molto comoda quando sarà il proprio turno – eventualmente – di alzare il livello della repressione in Bahrain e in casa. I ministri della Lega araba da due mesi stanno rinviando un vertice a Baghdad, per timore di doversi esporre. Ieri, molto in ritardo, hanno condannato blandamente le violenze nei regimi arabi, e quindi anche quelle del regime baathista di Damasco, dicendo che “i manifestanti meritano aiuto, non proiettili”. Per ora la prossima data fissata è l’8 maggio, sempre a Baghdad. Forse.
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