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Il Foglio Rassegna Stampa
27.04.2011 Sharia, il futuro tutt'altro che democratico per l'Egitto post Mubarak
analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 27 aprile 2011
Pagina: 6
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Perchè la Fratellanza è il mainstream dell'islam politico»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/04/2011, a pag. II, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Perchè la Fratellanza è il mainstream dell'islam politico ".


Carlo Panella

Il sottotitolo scelto dalla redazione del Foglio è : "Tradizionalismo e sharia, ma anche forza sociale e duttilità. I Fratelli musulmani rappresentano oggi “il massimo di democrazia” possibile nell’islamismo. Miti fondativi, storia e rete internazionale ". Titolo e sottotitolo lasciano perplessi, non rispecchiano il contenuto del lungo articolo di Carlo Panella. Il massimo di democrazia è una affermazione per lo meno ambigua,stupisce che il Foglio, che non sbaglia mai quando si tratta di analisi sull'islam, abbia potuto fare uno scivolone simile.


Ecco il pezzo:

Caduti i regimi di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, la preoccupazione più grave per il futuro del medio oriente riguarda la possibilità che questi paesi, e forse altri, siano governati dai Fratelli musulmani. E’ un pericolo reale, quantomeno quello di una marcata influenza sui governi da parte di un movimento che in Egitto è oggi accreditato di un 20-30 per cento dei voti in elezioni realmente libere. Un pericolo che è inutile esorcizzare denunciando le loro tesi, dottrine e proposte illiberali e settarie, per la semplice ragione che a queste denunce non può seguire altro se non la preoccupazione. Un pericolo che peraltro discende dal quadro entro cui i Fratelli musulmani sono nati e si sono espansi: un islam che continua a essere iscritto in una cornice illiberale, dogmatica e autoritaria non tanto e non solo nei principi di fede, quanto di una prescrizione shariatica che viola in più punti gli assunti fondamentali della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. In estrema sintesi infatti le ragioni dello straordinario successo di proselitismo e radicamento della Fratellanza si possono riassumere in una sola, volutamente provocatoria: i Fratelli musulmani rappresentano oggi il massimo di democrazia e partecipazione dentro lo schema dell’islam tradizionale dominante e quindi di prescrizione shariatica. In una cornice estremamente composita, la Fratellanza è costituita da una miriade di correnti molto diversificate tra di loro, sì che è facile per molti analisti e politologi – specie americani – cadere nell’errore di confondere settori marginali apparentemente moderni e aperti al dialogo con una sostanza di proposta politica inaccettabile per gli standard democratici dell’occidente. Detto questo, il punto politico è che probabilmente l’occidente dovrà rapportarsi con governi arabi influenzati dai Fratelli musulmani, cui non potrà opporre il rifiuto al dialogo opposto giustamente oggi alla loro sezione palestinese, Hamas, per la semplice ragione che, a differenza di Hamas, i Fratelli musulmani in Egitto non predicano e non praticano la violenza (sinora). D’altronde oggi un paese della Nato è guidato da due leader, Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül, le cui biografie sono iscritte dentro la militanza del partito Refah, che ai Fratelli musulmani si ispirava. E’ il momento di definire le linee guida del rapporto che i governi democratici dovranno definire con paesi governati da coalizioni in cui determinante sia l’apporto dei Fratelli musulmani. Dovrebbero svilupparsi su queste direttrici: rispetto di tutti i trattati internazionali, inclusi quelli siglati da Egitto e Giordania con Israele; rispetto della integrità territoriale e della sicurezza dello stato di Israele; riconoscimento del pieno diritto a esercitare la libertà di coscienza, inclusi l’abbandono della fede islamica e il proselitismo a favore di altre fedi; riconoscimento della parità piena della donna in tema di diritto familiare; libertà di stampa e informazione. Il quadro mediorientale si sta dunque evolvendo in modo convulso e più che complesso ed è bene affrontare l’analisi delle forze in campo innanzitutto riandando alla storia del movimento islamista oggi più strutturato in tutti i paesi musulmani, chiarendo le ragioni per cui si chiamano Fratelli, in arabo “Ikhwan”. Quando Hassan al Banna fondò nel 1929 a Ismailia, in Egitto, i Fratelli musulmani – in arabo suona al Ikhwan al Muslimin – aveva ben chiare le ragioni di questo nome inusuale, estraneo alle tipiche denominazioni della tradizione islamica a cui così fortemente tendeva. Lo avevano immediatamente chiaro anche tutti i suoi interlocutori e buona parte degli egiziani, perché proprio in quei giorni le prime pagine dei giornali arabi, così come i racconti dei viaggiatori, marinai e contrabbandieri trasportati sulle mille sciabecche che collegavano le due sponde del Mar Rosso, riportavano le notizie delle dure battaglie che i mitici Ikhwan, i Fratelli, stavano conducendo (e perdendo) in Arabia Saudita, di là dal mare. Li stava sterminando proprio il loro stesso capo e leader e “fratello”: Abdulaziz ibn Saud, da poco diventato re della appena nata Arabia Saudita. Per di più, fatto insultante per i musulmani, alla loro sconfitta non era estraneo il contributo della Raf, dell’aviazione britannica, che li mitragliava e li uccideva con i gas, proprio in nome del trattato di alleanza “blasfema” di Carlo Panella con Abdulaziz ibn Saud che aveva scatenato la loro ribellione. Ikhwan, dunque, Fratelli, perché tali si sentivano ed erano in origine i quaranta guerrieri che alla guida di Abdulaziz ibn Saud, il 15 gennaio del 1902, avevano conquistato agli avversari di sempre, i Banu Rashid, grazie alla sorpresa, la città di Riad, futura capitale del regno wahabita. Poi, sempre di più, sempre più uniti, i Fratelli avevano conquistato i piccoli centri Arid, Washm, Sudajr e Kar, e poi tutta la regione del Neged, e poi quella di Hasa e infine la Mecca e la Medina strappate agli Sharifh hascemiti e infine fondato il regno saudita, unificando tutta la penisola, tranne lo Yemen, l’Oman e gli Emirati, sotto un unico sovrano, il loro Fratello e capo. Per capire che cosa siano i Fratelli musulmani, che sono innanzitutto un movimento “testimoniale”, basato sulla coerenza tra pratica religiosa, vita quotidiana fede e obiettivi politici, è dunque indispensabile ricordare quale fosse il modello a cui si ispirarono, perché si chiamarono così, quale è stata la storia dei Fratelli sauditi e quali le ragioni della loro sconfitta. Non fosse altro, perché sotto la cenere delle battaglie in cui i primi Fratelli caddero e furono sconfitti, rimase accesa la brace, perché il loro ricordo, carsicamente, sotto traccia, è rimasto nelle madrasse, nelle moschee e nelle loro Hijira, nei villaggi che assieme a Abdulaziz ibn Saud avevano fondato – ed è infine riemerso in tempi recenti. Lo si comprese bene il 20 novembre del 1979, esattamente 50 anni dopo la definitiva sconfitta degli Ikhwan, quando il santuario della Mecca fu occupato manu militari e tenuto, nonostante l’assedio dell’esercito per due settimane, proprio da Juhayman ibn Muhammad al ‘Utaybi, nipote di un Ikhwan morto in battaglia nel 1929 e che aveva frequentato l’Università islamica di Medina, egemonizzata dai Fratelli musulmani egiziani. Lo si comprese meglio nel 1990, quando la piattaforma della ribellione degli Ikhwan degli anni Venti contro ibn Saud fu riproposta dai Fratelli musulmani che organizzarono in tutto il mondo arabo la fronda contro la decisione saudita e della Lega araba di chiamare gli eserciti “crociati ed ebrei” per scacciare le truppe di Saddam Hussein che avevano occupato e annesso il Kuwait. Lo si capì poi definitivamente nel proclama del jihad lanciato nel 1998 da Osama bin Laden che da quella piattaforma prese le mosse alla guida di una al Qaida in cui preponderante era, ed è, la presenza di muhjaeddin passati per i Fratelli musulmani. Torniamo alla storia dei primi Ikhwan sauditi: la loro caratteristica non era solo l’audacia in battaglia, la coesione al loro re, ibn Saud, e lo spirito da cavalieri della Tavola rotonda che li ispirava. Questi sono solo alcuni elementi di contorno umano di quella specie di confraternita, che rendono soltanto più odioso il tradimento che ibn Saud operò nei loro confronti. La vera caratteristica di fondo degli Ikhwan era quella tipica della tradizione millenaria dei Ghazi, quella sorta di monaci guerrieri musulmani, ferrati in teologia quanto nell’uso della spada e del cavallo che costituirono la punta di lancia dell’espansione musulmana e della difesa degli imperi omayyadi, abassidi, fatimidi e selgiucidi e furono il modello letteralmente copiato dai cristiani Cavalieri del Santo Sepolcro (poi di Malta). Il tutto, però, avendo per modello i mutawwa’a che li avevano formati nelle scuole coraniche. E’ questa una specifica figura di religiosi, che si diversifica da quella classica degli ulema: i mutawwa’a del Neged erano e sono tanto poco ferrati in discussioni teologiche e di diritto e giurisprudenza islamica, quanto maniacalmente dediti al rispetto formale delle più retrive prescrizioni religiose, secondo il rito Hanbalita. Per esempio, furono i mutawwa’a i responsabili di quella “polizia a difesa del decoro e della moralità”, che nel 2004 a Riad impedì ad alcune decine di ragazzine di scappare da una scuola in fiamme, lasciando che morissero soffocate e bruciate, per la sola ragione che non potevano uscire per strada senza velo integrale. La seconda caratteristica del movimento degli Ikhwan sauditi (poi ripresa da talebani e qaidisti) è stata la fondazione delle Hijira, dei falansteri mistici, una specie di kibbutzim musulmani che Abdulaziz ibn Saud aveva voluto fondare a decine e centinaia per favorire la stanzializzazione delle tribù e dei clan nomadi da cui i Fratelli provenivano. Le colonie si chiamano Hijira, perché ripetono l’Egira (l’abbandono) di Maometto che nel 622 abbandonò la città degli idolatri, la Mecca, e fondò la sua polis islamica alla Medina. Hijira è oggi il termine usato da al Qaida per i propri nuclei sparsi sulle montagne dell’Afghanistan e del Pakistan, così come è il termine usato dai terroristi in occidente per significare il loro ingresso nella clandestinità. La terza caratteristica degli Ikhwan era l’odio per gli sciiti, considerati non musulmani e idolatri, sì che quando conquistarono la regione di Hasa (la prima da cui in seguito fu estratto il petrolio), trattarono la popolazione letteralmente a frustate, sottoponendola a angherie e violenze, inclusa la distruzione di moschee e case. Anche questa caratteristica sarà ripresa come le altre dalla componente scismatica dei Fratelli musulmani che li lascerà per unirsi alle file di al Qaida, come si è tristemente visto in Iraq, con gli eccidi di sciiti a opera di al Zarqawi (e in Afghanistan con gli eccidi talebani degli sciiti Hara, tema centrale del libro “Il cacciatore di Aquiloni”). Ma perché, fondato il regno saudita, gli Ikhwan sauditi si ribellarono a quella specie di re Artù del deserto che era Abdulaziz ibn Saud, sino a scendere in guerra contro di lui in battaglie tanto crudeli da riempire di sdegno Hassan al Banna e a colpire la sua immaginazione, facendogli scegliere per la propria organizzazione il loro nome? Per due ragioni che sono intrinseche alla vicenda successiva dei Fratelli musulmani: la prima fu l’emergere del peso dell’alleanza tra ibn Saud e l’Inghilterra che, cessata la fase militare della conquista, condizionava lo stato saudita. Uomo di straordinaria intelligenza tattica, ibn Saud aveva stretto rapporti con emissari inglesi in Kuwait sin dal tempo della sua presa di Riad, nel 1902, vista da Londra come un’azione di disturbo contro la Grande Porta e tutte le sue conquiste territoriali successive furono sempre valutate con favore da Londra. Nel 1913 ibn Saud – sempre attraverso il Kuwait – fece sapere agli inglesi di desiderare un accordo, proposta che divenne interessante con lo scoppio della guerra. Nel 1915 infatti l’Indian Office di Londra, che in previsione della caduta della Grande Porta puntava a creare una serie di piccoli emirati e sultanati in medio oriente come zona cuscinetto a difesa del Rajv indiano, inviò a Riad il capitano William Henry Shakespeare. Questi aveva il compito di stringere un accordo con ibn Saud che prevedesse la sua totale inattività durante la guerra. Era una strategia regionale esattamente opposta a quello che il Foreign Office aveva assegnato contemporaneamente ai colonnelli Pierce Charles Joyce e Alan Dawnay, inviati sempre in Arabia, ma alla Mecca, per spingere lo Sheikh Hussein al Hashemi a proclamare il jihad contro l’Impero ottomano (impresa solo parzialmente riuscita, di cui Lawrence d’Arabia, giunto in zona solo nell’estate del 1916, si impadronirà fraudolentemente). Il Foreign Office puntava a un assetto del medio oriente imperniato su un grande stato arabo affidato a una dinastia realmente nazionalista. Il povero capitano Shakespeare morì in una scaramuccia territoriale tra ibn Saud e I Banu Rashid, ma l’accordo con Londra che aveva preparato fu siglato il 26 dicembre 1915 e prevedeva il versamento immediato di mille fucili e 20 mila sterline oro, più 5 mila sterline d’oro al mese e un regolare invio di fucili e mitragliatrici (regolarmente consegnati sino al 1924), ma soprattutto Londra si impegnava “all’intervento immediato a favore di ibn Saud nel caso che i territori da lui governati fossero attaccati”. Questo accordo, rimase rigidamente segreto e celato agli Ikhwan (stessa segretezza coprirà l’accordo siglato da Abdulaziz ibn Saud con Roosevelt il 14 febbraio 1945 a bordo dell’incrociatore Quincy, all’ancora nei Laghi Amari nel Canale di Suez, pochi giorni dopo Yalta, in cui gli Stati Uniti prendevano il ruolo della Gran Bretagna a garanzia del suo regno) per una ragione pesante: violava i fondamenti della fede wahabita e diventava addirittura blasfemo, dopo il 1924, perché poneva il territorio Haram, sacro, della Mecca e della Medina sotto protezione delle armi dei cristiani. Ma proprio la conquista della Mecca e la sconfitta sul campo degli Sheikh hashemiti che la controllavano da secoli (abbandonati dall’Inghilterra, ma subito compensati con la Transgiordania e l’Iraq) resero evidente il patto “impuro”, perché colonne di blindati britannici e soprattutto la Raf fiancheggiarono l’esercito di ibn Saud in tutte le operazioni. Alla protesta vibrante per quell’accordo e alla richiesta di denunciarlo immediatamente, gli Ikhwan aggiungevano il rifiuto netto del telegrafo e di altre diavolerie moderne che Abdulaziz intendeva introdurre nel regno. La risposta di Abdulaziz fu ovviamente negativa e dura, anche perché ormai il suo regno aveva assorbito i ricchi mercanti di Gedda e della costa occidentale della penisola, permettendo lo sviluppo di una spregiudicata politica matrimoniale che cambiò radicalmente la struttura della sua stessa corte in cui le tribù e i clan del Neged da cui provenivano gli Ikhwan divennero ben presto minoritari. Alle ragioni ideologiche della fronda dei Fratelli, si sommarono dunque quelle claniche. Che nel 1927 portarono a una sollevazione armata degli Ikhwan, che alla fine dovettero soccombere perché in ogni scontro l’intervento degli aerei della Raf faceva la differenza. Nel 1930 gli Ikhwan superstiti si rifugiarono in massa in Kuwait con le famiglie, da dove gli inglesi li restituirono ad Abdulaziz solo dopo aver ottenuto la certezza che non li avrebbe tutti uccisi – donne e bambini inclusi – come aveva già fatto. Da allora, iniziò la scomparsa carsica del movimento e delle idee degli Ikhwan, che però riuscirono a garantire una continuità nei decenni a venire, nelle poche Hijira superstiti, in molte moschee e madrasse, in alcuni clan. Ma Hassan al Banna, che ad al Azhar aveva avuto come professori proprio alcuni mudawwa’a sauditi, che adolescente fondò una Associazione contro le violazioni della legge di Allah i cui membri facevano pervenire in maniera anonima rimostranze scritte alle persone sospettate di aver infranto qualche principio religioso e morale, rese onore e diede continuità alla loro breve epopea vagamente shakespeariana, facendo dei loro pessimi capisaldi di fede un riferimento per i suoi Fratelli musulmani. Rapidissimamente radicati in Egitto, anche grazie alla rete di assistenza messa in piedi in ambulatori, mense, orfanotrofi, scuole, ospedali (2.000 membri nel 1933, 40 mila nel 1935, più di 200 mila agli inizi del 1940, più di 2 milioni nel 1948), da subito seguirono la leadership indiscussa nell’intero mondo musulmano del Gran Muftì di Gerusalemme Haji al Husseini che guidava il jihad contro i sionisti, guerra santa sentita come propria come null’altro da Hassan al Banna e dalla Fratellanza. Per decenni, sino alla sua morte nel 1974, il Gran Muftì è stato il punto di riferimento dell’azione dei Fratelli musulmani, che lo appoggiarono nel tentativo di golpe filonazista di Baghdad del 1941 (così come appoggiarono il tentativo di putsch di Neguib, Nasser, Sadat e delle camice verdi, per colpire alle spalle gli inglesi del generale Montgomery che combattevano a El Alamein), anche se non risultano con certezza loro contatti con i nazisti (il Gran Muftì, come è noto, passò la guerra a Berlino, stretto alleato di Hitler). Nel dopoguerra, i Fratelli appoggiarono in tutti i modi la guerra di distruzione di Israele tentata dalla Lega araba nel 1948 e fomentarono lo scontento contro re Farouk e il partito di governo egiziano Wafd nei mesi successivi alla “vergognosa sconfitta” (“Nachba”, tragedia). Le circostanze della morte di al Banna l’anno successivo sono indicative della doppia anima che da sempre contraddistingue il suo movimento: nel dicembre del 1948 un membro della Fratellanza uccise in un attentato il premier Nokraci Pashà, che aveva messo i Fratelli fuori legge. Il movimento rinnegò la paternità dell’attentato e il 12 febbraio 1949 Hassan al Banna, che stava tessendo la trama che porterà al golpe di Naguib e Nasser del 1952, fu a sua volta ucciso da misteriosi sicari. Dunque, piena rispettabilità formale e partecipazione all’agone politico istituzionale, ma contemporaneamente partecipazione a tutti i putsch militari riusciti o falliti nei paesi arabi (e in Pakistan e Bangladesh) nel dopoguerra, sempre “contaminati” da cellule terroristiche e violente: è raro trovare un terrorista islamico che non abbia nella propria biografia un qualche contatto con i Fratelli musulmani. Entrati nel governo egiziano col golpe del 1952, vengono messi fuori legge da Nasser nel 1954. La persecuzione di Nasser riporta gli ulema legati ai Fratelli musulmani alle origini perché, esiliati, vengono accolti a braccia aperte da Saud, il figlio di Abdulaziz ibn Saud, morto nel 1953, che apre loro le porte delle università. Fu così, che il giovane miliardario Osama bin Laden seguì negli anni Sessanta nella Abdulaziz University di Gedda i corsi tenuti da Abdullah Azzam, il primo reclutatore di mujhaeddin arabi per l’Afghanistan e ideologo principe di al Qaida e di Mohammed Qutb, fratello di Sayyd Qutb, che è stato dopo al Banna, e sul polo più estremista, la seconda personalità di riferimento dei Fratelli egiziani, su posizioni di estrema radicalità. Là dove infatti tutta l’opera e l’azione di al Banna era innanzitutto testimoniale e assistenziale, e poi sul piano politico di una estrema mobilità manovriera, ma grosso modo all’interno del quadro istituzionale (pur con non poche puntate nella violenza), la tesi fondamentale di Qutb è che per contrastare il governo illegittimo in cui regna la jiaylliya, l’ignoranza, l’azione delle forze oscure e idolatriche (che costrinse Maometto alla sue Egira dalla Mecca), anche se ammantato di islam, è lecita ogni arma e violenza. Il rozzo, ma vitale movimento degli Ikhwan sauditi trovò quindi in Qutb l’ideologo capace di definirne una ideologia e di codificare una prassi. Queste tre anime, una testimoniale, con una straordinaria capacità di proselitismo attraverso opere che nel cristianesimo chiameremmo caritative, l’altra di spregiudicata manovra politica e infine una continua filiazione di appendici eversive, con puntate nel terrorismo, caratterizzeranno dagli anni Cinquanta in poi i Fratelli musulmani e troveranno un insuperabile concretizzazione in Yasser Arafat, nipote per parte di madre del Gran Muftì di Gerusalemme, suo padrino politico, in gioventù frequentatore della Fratellanza se non suo membro (come quasi tutto il gruppo dirigente di al Fatah). Negli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la scena araba e islamica è prima monopolizzate da Nasser, poi da Yasser Arafat e dai dittatori Baath, i Fratelli compiono una poderosa opera di filiazione in tutta la umma, escluse soltanto le Repubbliche sovietiche asiatiche. Grazie alla loro presenza in al Azhar, alla sponda che trovano tradizionalmente in Arabia Saudita, ulema appartenenti ai Fratelli arrivano a gestire buona parte delle migliaia di moschee (si dice più di 5 mila) che grazie alla messe di petrodollari l’Arabia Saudita fonda e finanzia nel mondo. Questo permette agli eredi degli Ikhwan sauditi di ripetere su scala planetaria quello straordinario allargamento del proselitismo che aveva accompagnato gli inizi del secolo. Questo spiega anche la crescente influenza che il wahabismo, la più dogmatica, oscurantista e fondamentalista tra le componenti del sunnismo, sulle elaborazioni teologiche dei Fratelli musulmani. A tutto questo si somma la penetrazione nelle professioni liberali, particolarmente curata da Hassan al Banna. A questo impetuoso sviluppo di massa corrisponde poi un’elaborazione culturale, dottrinale e politica che fa sì che tutti i principali pensatori islamici della seconda metà del Novecento facciano parte della Fratellanza: l’egiziano Sayyed Qutb, il sudanese Hassan al Turabi, l’egiziano Yusuf al Qaradawi, il pachistano Abu Ala al Mawdudi, il pronipote di Hassan al Banna, nato in Svizzera, Tariq Ramadan. Il tutto in una variegatissima articolazione di componenti, correnti, aree, che hanno i loro estremi oggi in Khaled Meshaal, leader di Hamas e in Recep Tayyip Erdogan, premier turco, e tutte le possibili sfumature che separano un leader terrorista da un leader democratico di un paese pluralista e moderno. I Fratelli oggi rappresentano il massimo di democrazia dentro lo schema dell’islam tradizionale e della sua struttura shariatica, il che comporta l’esaltazione dell’anti giudaismo e antisemitismo contenuto nella tradizione coranica, e quindi la negazione del diritto di Israele a esistere; una ribadita collocazione della donna in posizione subordinata rispetto all’uomo e pieni diritti democratici concessi solo all’interno della umma, e quindi una posizione subordinata dei cittadini delle altre fedi. Infine, ma in realtà innanzitutto, l’isteria della apostasia, considerata primo peccato (ben più grave dell’omicidio) e quindi proibizione del proselitismo nei confronti dei musulmani (pena la morte), legislazioni tipo la Blasphemy Law pachistana, e contro i matrimoni misti (per le musulmane). Tariq Ramadan, il più raffinato esponente della Fratellanza, non solo auspica una moratoria immediata delle lapidazioni, ma apre anche a una discussione su tutte le pene corporali prescritte dalla sharia. Ma il limite autoritario e dogmatico che non valica riporta la titolarità del potere decisionale solo e unicamente alla platea degli ulema. Nella biografia politica del sudanese Hassan al Turabi si rispecchia l’essenza della concezione politica dei Fratelli e le sue conseguenze disastrose. Figlio di una potente famiglia sudanese, laureato all’università di Londra e specializzatosi alla Sorbona, l’ottantenne ideologo è da 40 anni al centro della vita politica sudanese, si è distinto per quattro iniziative tipiche della Fratellanza. A cavallo degli anni Ottanta, Turabi fu il ministro della Giustizia nei governi del dittatore Jafar al Numeyri che non solo modificò i codici ereditati dagli inglesi nel più rigido rispetto shariatico (oggi una donna viene frustata se solo porta i pantaloni), ma ispirò l’ordine presidenziale secondo il quale la sharia doveva “essere la sola forza guida del diritto del Sudan” emanato l’8 settembre 1983, che innescò una guerra civile più che ventennale con le popolazioni cristiane e animiste che causò non meno di un milione di morti. Naturalmente il Sudan non fu il solo a virare la propria Costituzione verso la shari’a per influenza diretta o indiretta di partiti dell’area dei Fratelli musulmani, ma si mosse in sintonia con l’Egitto (Sadat modificò la Costituzione facendo della sharia la “unica fonte di ispirazione della legislazione”), il Pakistan, il Bangladesh e persino la laica Algeria del Fln. Questo complesso del “patto costituzionale” che i Fratelli musulmani elaborano e riescono a imporre quasi ovunque con variegate articolazioni è nel complesso indubbiamente inaccettabile, autoritario e per molti aspetti indisponente per la sensibilità dell’occidente. Ma è il massimo di democrazia che permetta la lettura tradizionale dell’islam. Per superarla, dovrebbe irrompere nel mondo musulmano quella Riforma, così come quella Controriforma, che hanno permesso il pieno e impetuoso sviluppo del libero pensiero, e quindi della democrazia, nella cristianità. Man mano che i regimi arabi e islamici oggi marcescenti scompariranno, rischieremo di assistere all’affermazione sempre più netta di partiti più o meno vincolati allo schema dei Fratelli musulmani. Anche qui al Turabi si distinse. Infatti, quale ministro di Giustizia fu pienamente responsabile della sentenza di morte per impiccagione che il tribunale di Khartoum, in base a una fatwa di al Azhar che ne stabiliva l’apostasia, emise il 19 gennaio 1985 contro il teologo riformatore Mohammed Taha. La colpa di questo Lutero islamico era di avere proposto nel suo “Il secondo messaggio dell’islam” una riforma esattamente opposta a quella attuata dal regime sudanese, imperniata sul rifiuto esplicito della cultura del jihad, sul rifiuto della “autorità tutoria dell’uomo sulla donna”, sul rifiuto della poligamia, del ripudio, della schiavitù (praticata ancora oggi nella società islamica) e anche di una concezione egoistica della proprietà, che introduceva un elemento comunitaristico del suo pensiero economico. Negli anni successivi, al Turabi organizzò a Khartoum nel 1991 una grande conferenza antagonista alla Lega araba e all’Organizzazione del consiglio islamico (che raduna i 54 paesi musulmani), a cui parteciparono tutti i Fratelli musulmani del globo, Yasser Arafat con la sua Olp, Hamas, il Jihad islamico egiziano, il Jihad islamico algerino e Hezbollah, con lo scopo di denunciare quella “alleanza blasfema” che sarà il punto di partenza del jihad lanciato da lì a pochi anni da Osama bin Laden. In questa attività si posero le basi per la quarta impresa di al Turabi, che dal 1991 al 1996 favorì in tutti i modi il soggiorno sudanese di bin Laden (che sposò sua nipote) e che lo protesse, sino a ostacolare la richiesta del principe Turki bin Faisal, capo del Mukhabarat saudita, di estradarlo a Riad, al pari del terrorista Carlos che invece fu estradato in Francia. Esaminate con dovizia le pessime imprese di al Turabi e della Fratellanza sudanese, resta però il problema di quanto esse siano rappresentative ed esaustive dell’intera Fratellanza. Non abbiamo dubbi nel sostenere che non lo sono del tutto, perché, e questo è lo spunto più interessante, si è anche storicamente verificato che, laddove i Fratelli musulmani sono costretti a subire una forte pressione, facilmente subiscono un processo evolutivo. Abbiamo già accennato ai due esempi turco e iracheno, a cui va aggiunto quello giordano, che meritano un esame più preciso. Il golpe militare che depose in Turchia nel 1998 il governo del premier Necmettin Erbakan e la successiva messa fuori legge del suo Refah (a cui appartenevano sia Erdogan sia Abdullah Gul) favorrirono la spaccatura del movimento legato ai Fratelli, l’emarginazione dell’ala più oltranzista, l’affermarsi in un nuovo partito, Akp, della leadership più moderata di Erdogan e Gul, la successiva vittoria elettorale e un processo evolutivo non privo di problemi, ma comunque dentro il paradigma democratico dell’occidente. In Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein, la Fratellanza tentò di capitalizzare sul piano politico il movimento terrorista nel Triangolo sunnita. In questo contesto, i Fratelli musulmani iracheni diedero ai sunniti l’indicazione di boicottare le prime elezioni per la Costituente del 30 gennaio 2005, ma questa indicazione andò a vuoto e i sunniti andarono a votare in massa. Forti di questa constatazione e per ovviare alla mancata rappresentanza dei sunniti nella Costituente, gli Stati Uniti, tramite il governatore Paul Bremer, risposero in modo intelligente inaugurando una strategia di recupero della componente sunnita al nation building. Nominarono infatti il leader dei Fratelli musulmani iracheni, Tariq al Hashemi, vicepresidente della Repubblica, cooptarono alcuni parlamentari della Fratellanza nella Costituente e la manovra di recupero è riuscita in pieno. Il successo è stato tale che i Fratelli iracheni (oggi schierati nella coalizione con partiti sciiti e laici) si impegnarono per favorire il successo del surge del generale Petraeus, nel contrastare capillarmente il terrorismo qaidista. Più volte Condoleezza Rice e Dick Cheney hanno avuto incontri formali con Tariq al Hashemi (l’ultimo a Baghdad, nel 2008). Diversa, ma non dissimile nelle sue linee di fondo, l’esperienza dei Fratelli musulmani della Giordania che si sono sempre dovuti confrontare col pugno di ferro in guanto di velluto (temibile Legione araba inclusa) di re Hussein e di suo figlio Abdullah II, sì che oggi sono divisi, con una forte componente spietatamente avversa ad Hamas (che pure è la sezione palestinese della Fratellanza) e largamente coinvolti nelle amministrazioni locali (gli analisti che auspicano il dialogo guardano proprio alla moderazione dei Fratelli giordani, ma sbagliano, perché lo estendono impropriamente alle altre componenti). Tre esperienze che, per tornare all’Egitto (e alla Tunisia), permettono di comprendere che il fatto che oggi la transizione alla democrazia sia stata affidata in questi paesi ai generali – col consenso delle piazze – costituisce una premessa più che affidabile, ma da verificare, dell’esistenza di un forte contraltare laico all’egemonia dei Fratelli musulmani. Dopo l’attentato del 1981 in cui fu ucciso Sadat e a cui lui scampò per miracolo, Mubarak ha epurato i quadri dell’esercito e stretto le griglie di controllo per impedire l’infiltrazione non solo di terroristi, ma anche di Fratelli musulmani. Solo i generali (sul modello turco), oltre ai divisi e deboli partiti laici, possono controbilanciare un fenomeno comunque fisiologico nelle società islamiche come è quello dei Fratelli musulmani.

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