Come sempre acute e penetranti le riflessioni di Alessandro Schwed sul FOGLIO. Oggi, 23/04/2011. a pag.2, affronta la conta e il peso dei morti nel conflitto israelo-arabo.
Alessandro Schwed
Ormai, la cronaca attinge dalle emozioni. C’è stato Vittorio Arrigoni. Viveva per Gaza, proprio Gaza lo ha fatto morire, orribilmente, e l’opinione pubblica lo ha amato. O meglio, il corrispettivo odierno dell’opinione pubblica, che gli anglosassoni chiamano pubblico: lo sgomento dei suoi, le condoglianze della politica, il dispiacere generale. E la mestizia ebraica: la comunità che il pubblico pro Palestina chiama “topi di fogna”. E poi, morendo, Arrigoni si è ingigantito. Forse perché viveva sull’orlo del vulcano; forse per i simboli pasquali della sua morte: un Cristo tradito da quelli per cui era venuto. Da quello che trapela, sapendo che sarebbe morto, lui è restato; e come in un vangelo di Pasolini è stato processato su YouTube da quelli che più amava. Però questa morte non ha l’icona del suo gruppo, né quella dei media. Vittorio Arrigoni aveva in sé una parte di noi: l’universalità di essere traditi da chi si ama da morire, e infatti si muore. E così, per quanto fra noi e gli altri, noi e gli avversari, siamo lontani, poi ci sfioriamo. Invece, due righe in cronaca sui civili anonimi morti a Gaza per le ritorsioni israeliane ai razzi. Dei razzi i media non si occupano perché in Israele poi non ci sono morti ammazzati e non c’è feeling; i civili di Gaza avrebbero anche pubblico perché muoiono, ma il telefilm è vecchio. Muoiono come per le perdite croniche di una tubazione e la televisione non fa vedere una tubazione: senza guerra, una tubazione di che sa? La domanda è che siano le case dove muoiono i civili di Gaza: edifici normali, o mura domestiche dove vengono fatte vivere persone che ogni tanto vedono dei razzi decollare dal soggiorno. Poi, Hamas stila un comunicato col numero delle vittime, i media metabolizzano e il comunicato si trasforma in informazione obiettiva sull’aggressione israeliana. I morti non hanno nome vero e proprio, ma la cifra. “A Gaza, 8 morti”. “Ieri, 21”. Era lo stesso per le catene di attentati quotidiani in Iraq, quelle quarantine di persone uccise senza cronaca: un trafiletto davanti a una banca, mezzo rigo se era una chiesa. Per il pubblico contano le emozioni viscerali: le forniture di gas per il prossimo inverno e quanta gente arriva sui barconi. Poi di recente è morto uno, un ragazzo israeliano, sedici anni, questa cosa non la sa nessuno. Un razzo è partito da Gaza ed è arrivato sopra l’autobus dove viaggiava. Perché gli israeliani bombardano, mentre i missili di Gaza arrivano sopra. Mediaticamente, lo conoscevano a casa sua, i compagni di classe e il conducente del pullman. Il ragazzo d’Israele non ha nome né trafiletto. Era 1, a Gaza almeno si chiamano 18, 30, 5. Ma scrivere di 1 sarebbe uno spreco. Non si sa che facesse 1. Era troppo giovane per avere fatto qualcosa. Non era il chitarrista dei Led Zeppelin che a sedici anni suonava negli Yardbirds. E’ morto il 17 aprile, ospedale di Bersheva. Si chiamava Daniel Wilplich. Era in coma da quando lo scuolabus dove stava viaggiando a ridosso della Striscia era stato colpito con un razzo tirato sopra. Nelle redazioni televisive, nessuno ha rilevato 1. E’ così per motivi professionali: hanno le telecamere, mica i microscopi. E poi, a parte che era 1, e non si può far chiasso perché 1 è morto in un incidente stradale verso Gaza, è normale che le persone muoiono viaggiando e non ne parla nessuno. Si parla di 30, di 80, se è 115 è uno sballo, ma non di 1. Poi di solito i razzi di Hamas non fanno male, al massimo cadono calcinacci. Ora, il ragazzo d’Israele e i palestinesi di Gaza sono più morti mediaticamente che nella tomba. Riposino senza notizia.
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