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Il Foglio Rassegna Stampa
22.04.2011 Libia: Usa e Nato non hanno ancora definito una strategia
analisi di Mattia Ferraresi, Redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 22 aprile 2011
Pagina: 1
Autore: Mattia Ferraresi - Redazione del Foglio
Titolo: «Il vero guaio della Libia è la guerra culturale tra Obama e i suoi generali - Ribelli a metà»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/04/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Il vero guaio della Libia è la guerra culturale tra Obama e i suoi generali ", l'articolo dal titolo " Ribelli a metà ".
Ecco i pezzi:

Mattia Ferraresi - " Il vero guaio della Libia è la guerra culturale tra Obama e i suoi generali "


Mattia Ferraresi

New York. Quando un ufficiale del Pentagono dice che il rapporto fra la Casa Bianca e i militari “è un casino” non è l’avvisaglia di un golpe armato, ma una constatazione dei fatti tradotta in un linguaggio finalmente comprensibile ai più. Il vecchio cronista David Wood dell’Huffington Post di affermazioni del genere ne colleziona a decine da ambo i lati della disputa e dall’inizio dell’“operazione militare cinetica” in Libia il linguaggio degli ufficiali si è fatto molto più colorito. Il Pentagono non voleva invischiarsi in questa guerra costosa ed eurocentrica: i militari sanno che cos’è la guerra e tendono a ficcarcisi soltanto se la si può vincere con costi umani ed economici proporzionati. Alle richieste del presidente americano, Barack Obama, di un “regime change a basso costo” – vero obiettivo della politica estera americana al di là dei belletti umanitari con cui l’Onu ha truccato l’iniziativa – i militari rispondevano che laggiù ci si impantana, che i ribelli sono parodie di guerriglieri e che il regime change a basso costo non esiste se non nelle voglie dei politici. Così, ieri, il segretario alla Difesa, Robert Gates, ha detto che gli Stati Uniti manderanno droni in Libia. La guerra in Libia però non è la causa del dissapore fra le due sponde del Potomac, ma l’epifenomeno di una “guerra culturale” a Washington, uno scontro di Palazzo che Obama non è riuscito a scongiurare quando era il momento di fare le nomine e che ora a maggior ragione non è in grado di gestire. I ribelli in balia delle truppe di Gheddafi sono lo specchio tragico dello stallo politico di Washington, che in questa guerra c’è entrata con l’ingenuità di chi si siede al tavolo del black jack pensando di essere abbastanza freddo da alzarsi una volta che ha vinto un paio di mani. Come nella più trita delle trame, Washington ha passato la palla alla Nato, che però incarna in un unico corpo una malattia doppia: le aspre divisioni nei corridoi di Washington e l’europeismo che crolla quando c’è qualcosa di serio di cui occuparsi. Quando il Pentagono è stato costretto all’azione dalla classe politica di Washington – incarnata nel caso specifico della Libia da Samantha Power, ex giornalista, attivista dei diritti umani e consigliere del presidente – i militari hanno spiegato in termini semplici come funzionano le cose: se proprio siamo costretti a spendere risorse e uomini in questa guerra, bisogna mettere i “boots on the ground”, gli anfibi a terra, e creare non solo a parole le condizioni per proteggere i civili e forzare Gheddafi a lasciare il paese, hanno detto. Figurarsi. Per la Casa Bianca di Obama, una riedizione dell’Iraq o dell’Afghanistan è il peggiore dei mondi possibili e quindi si è deciso per un esercizio di “soft power”, che con il passare delle settimane è diventato soltanto “soft” perdendo per strada il “power”. Sono state inviate clandestinamente truppe speciali della Cia – guidata da civili – che peraltro avevano già una certa confidenza con il suolo libico, come ha spiegato qualche tempo fa l’editorialista del Washington Post David Ignatius, ma lo sforzo è finito lì. Aggravando ulteriormente lo scontro a Washington fra civili che difendono l’operato americano e militari che dicono “l’avevamo detto”. Obama, però, dice di avere un piano per sanare la ferita ancestrale fra i due mondi, e questo piano si chiama rimpasto. Le voci che girano da tempo sulla nomina dell’attuale capo della Cia, Leon Panetta, al Pentagono si stanno facendo molto concrete; lo stesso vale per le voci analoghe su David Petraeus, che dalle Forze armate in Afghanistan potrebbe passare all’Agenzia di Langley. Panetta e Petraeus incarnano lo spirito dei loro rispettivi ambiti: uno è l’anima civile, l’altro quella militare; uno si affida alla guerra dall’alto e ai blitz mirati e segreti, l’altro ha teorizzato la convivenza stretta fra truppe e popolazione locale come unica via per vincere la guerra. Uno scambio di ruoli sarebbe la prova evidente che lo scontro sta logorando Obama a tal punto da costringerlo ad affidarsi all’arte ambigua del rimpasto.

" Ribelli a metà "


Muammar Gheddafi

Roma. Nella guerra di Libia, l’unico fronte che si mostra compatto e posseduto da una determinazione incrollabile è quello di Muammar Gheddafi. Gli altri due schieramenti, quello degli alleati occidentali e quello dei ribelli libici, sono disuniti, incrinati, deboli, e le loro divisioni si specchiano le une nelle altre. Soltanto sei dei ventotto paesi della Nato stanno partecipando alla campagna aerea, e due, Gran Bretagna e Francia, sono costretti ad accolarsi più della metà delle missioni. “Se fossi Gheddafi – dice Robin Niblett, direttore di Chatham House, il più prestigioso think tank di geopolitica a Londra – sarei rincuorato dal disaccordo che sembra regnare tra gli europei, soprattutto considerando quanto l’opposizione libica sembra debole”. Tomas Valasek, un esperto di difesa per un altro think tank di Londra, il Centre for european reform, paragona la Nato a un partito politico, “è una coalizione di paesi con lo stesso scopo, ma con visioni differenti”. Con questa premessa, figurarsi quanto potrà andare per le lunghe la guerra in Libia – come avvertiva un titolo del New York Times di ieri. La coalizione debole occidentale si affida sul campo a una ribellione che dovrebbe fare il grosso della guerra – ovvero cacciare il rais di Tripoli, come tutti si aspettavano all’inizio delle operazioni, e non soltanto “proteggere i civili” come dice il mandato. Ma la leadership libica è ancora più divisa. Se crediamo che i capi di Bengasi saranno la nostra leva per scalzare Gheddafi, dovremmo ricrederci. Il capo – almeno nominale – dell’armata ribelle è Abdul Fattah Younes, ex ministro dell’Interno di Gheddafi e suo ex amico personale, e che proprio per questo suo legame durato a lungo con il regime non gode della fiducia di tutti i suoi. Il suo potere è contestato da Khalifa Heftar, un ex generale che si era rifugiato negli Stati Uniti e che ora è tornato e si è autoproclamato comandante “sul campo” delle forze ribelli – come se quelle colonne che vagano tra gli scontri riconoscessero veramente una gerarchia e un capo. I tre sono stati accusati di litigare “come bambini” durante le sedute del comitato politico dei ribelli. Una fonte presente ha detto al New York Times: “Almeno non si sparano addosso”. Non è molto incoraggiante, considerando che la Nato, che tiene i piedi sull’orlo di un intervento terrestre ma ancora non vuole farsi coinvolgere, basa tutta la propria strategia sulla capacità dei leader libici di portare l’affondo decisivo fino a Tripoli – ieri Washington ha annunciato aiuti per 25 milioni di dollari, che non sono molti rispetto all’ipotesi di dover intervenire con gli aerei o con i soldati, ma sono pur sempre un investimento e rischiano di finire sprecati o peggio di aguzzare le faide interne. I due leader della ribellione più rispettati, Mahmoud Jibril, un ex alto funzionario del governo, e l’ex ambasciatore libico in India, Ali al Essawi, non sono ancora tornati in Libia da quando tutto è cominciato e si occupano di tessere rapporti all’estero con i leader stranieri. Sono autorevoli, ma per ora a Bengasi pensano che sono più utili se stanno fuori, assieme a un altro membro del Comitato esecutivo, Ali Tarhouni, che fino a poco tempo fa insegnava economia all’Università di Washington e che spicca tra i leader perché è il più realista. E’ Tahrouni a ridimensionare con i giornalisti le sbruffonate dei capi ribelli che vantano forze e imprese militari inesistenti. Infine, c’è il Consiglio nazionale, che dovrebbe rappresentare la Libia libera, ma che è guidato dall’ex ministro della Giustizia, Mustafa Abdul Jalil, un islamista conservatore, ma che include anche sostenitori del libero mercato e socialdemocratici. Il regime, per ora, procede invece come se filasse su un binario dritto. Ha speso tre milioni e mezzo di dollari, secondo un disertore di alto livello, per assoldare mercenari, e sta aggirando le sanzioni importando petrolio al largo della Tunisia, dove i travasi di carburante da petroliera a petroliera – più difficili da seguire e intercettare per chi sorveglia – sono misteriosamente incrementati.

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