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Nicole Krauss, La grande casa 18/04/2011

La grande casa                  Nicole Krauss
Traduzione di Federica Oddera
Guanda                                 Euro 18

E' molto difficile narrare la Shoah. Per chi non è stato testimone, tutto sembra inadeguato, diluito dall’impotenza di capire. Eppure non se ne può fare a meno, man man che il tempo passa, i sopravvissuti se ne vanno e la storia inghiotte quel passato dentro annali muti. Ma ancora più difficile è, forse, tentare di trasformare l’orrore di Auschwitz e dello sterminio nello sfondo di un racconto che si svolge in altri tempi, altri mondi: bisogna rendere «giustizia» a quell’orrore senza che perda d’intensità, eppure anche parlare d’altro, di una storia situata altrove. Tutto, così, si complica.
Questa è forse la debolezza maggiore del nuovo romanzo di Nicole Krauss, intitolato La grande casa e tradotto con mano felice da Federica Oddera per Guanda. Si tratta di un romanzo complesso, fortemente intrecciato, che esige dal lettore un’attenzione costante, quasi infaticabile. Ma con un’incertezza profonda nel mettere in contatto quel passato con i diversi presenti in cui il romanzo prende corpo. Il vero protagonista non è un personaggio e nemmeno la «casa» del titolo, bensì un mobile: una misteriosa scrivania piena di segreti e di diciannove cassetti. Questo mobile di solito campeggia nella casa in cui si trova. Animato da una forza occulta, scaccia via da intorno a sé qualunque altro arredo e resta solo ad abitare i locali. Una specie di mesta maledizione lo accompagna nelle sue peregrinazioni, condanna cose e persone a una solitudine ermetica.
Tanti sono i personaggi: un giovane poeta cileno inghiottito dal terrore di Pinochet, una scrittrice approdata in Inghilterra con i Kindertransport che misero in salvo dei bambini tedeschi, durante la guerra. Una famiglia israeliana con un figlio prima introverso e poi transfugo che torna a casa dopo tanti anni per il funerale della madre. Una ragazza del 1972 che è anche sporadico io narrante. Un antiquario diasporico. Non si sa bene perché, la storia pullula di studenti di letteratura, come se tutto il resto dello scibile non potesse nutrire ambizioni di narrabilità... Questa monotonia risulta banalmente un po’ stucchevole, forzata.
Mentre quasi per paradosso l’energia del romanzo sta nella sua capacità di narrare una certa stanchezza esistenziale, lo smarrimento di tutti i personaggi, senza distinzione di spazio e tempo, che prima o poi incrociano quel tavolo e in modi diversi e discordanti ne intuiscono il mistero. La scrivania dai diciannove cassetti, che si trova a New York e in Cile, a Gerusalemme e nell’Ungheria occupata dai nazisti, viene ovviamente di laggiù. Dal buco nero della Shoah, delle deportazioni, delle confische e delle fughe di beni, oltre che di anime in cerca di salvezza.
La grande casa è un libro triste, soprattutto malinconico, che condanna a questa inguaribile solitudine tutti i suoi personaggi, anche quelli apparentemente circondati da una frotta di umanità viva. Persino i neonati sono terribilmente soli, in questa storia. E neanche il tempo trascorso, che è spesso un lungo ponte fra gli eventi e il loro racconto, riesce a guarire o anche solo medicare questo smarrimento comune, che trova radice laggiù, nella realtà che la Shoah mise crudelmente sottosopra.

Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa


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