Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/04/2011, a pag. 1-35, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo "La scomparsa di Israele".
Elena Loewenthal
Una considerazione: se è vero che ci sono state poche bandiere israeliane bruciate durante le manifestazioni nelle piazze arabe, i segnali che arrivano dall'Egitto sono poco confortanti. Tutte le forze candidate hanno ribadito la volontà di mettere in discussione Camp David che siglava la pace con Israele.
Ecco l'articolo:
In questi giorni concitati per il Medio Oriente e il Maghreb affacciato sul Mediterraneo, Israele è un osservatorio molto particolare. Dotato di una duplice prospettiva che è come una lente bifocale in contraddizione solo apparente. Le notizie e i sommovimenti sono percepiti per un verso nella loro dimensione strettamente geografica, di grande vicinanza.
Israele è nell’occhio del ciclone, esattamente al centro di quell’immenso movimento che parte dall’Africa settentrionale e attraversa il mondo arabo dalla Tunisia alla Libia, lo Yemen, l’Egitto, la Siria e non pochi altri Paesi. Questa vicinanza fisica si accompagna, nella percezione dei media e nel modo in cui nello Stato ebraico vengono lette e interpretate le notizie, a una sorta di inedito distacco. Non è questione di priorità o dimensioni dei titoli, è qualcosa di più profondo. La vicinanza fisica da una parte e la distanza mentale dall’altra, risolvono la contraddizione in una specie di prudente stupore. Nella consapevolezza che qualcosa sta cambiando.
Perché dalla Tunisia al Bahrein è successa e sta succedendo una cosa nuova. Israele non è più al centro. Non è più il fantasma, lo spettro, il demonio. Il nemico per eccellenza, che non va neppure nominato ma solo annientato: nemmeno «lo Stato d’Israele» ma «l’entità sionista». L’entità sionista è stata per decenni il presunto collante che ha tenuto insieme le masse arabe e l’islam. È servito al potere per rivendicare se stesso, per ottenere un consenso più urlato che sostanziale. E invece in questi ultimi mesi di Israele si è detto ben poco, dentro le rivoluzioni dell’islam. Qualche bandiera bruciata, certo. Qualche sporadico richiamo. Ma la voce «Israele» non è più il riflesso condizionato che fa puntualmente gridare le masse. Perché le lotte a questi regimi hanno ben altro a cui pensare: rivendicano i propri diritti, la libertà, governi meno corrotti. Vogliono benessere e una società civile degna di questo nome. Cose che, nel mondo della globalizzazione, sono note anche a chi non le ha. E le vuole.
Nel bene della rivoluzione e nel male del terrorismo, come dimostra l’assassinio di Vittorio Arrigoni. A parte qualche delirio residuale che, come nel caso degli squali di Sharm El Sheikh non molto tempo fa, vede tutto e tutti al soldo del Mossad, questa tragica vicenda tiene fuori Israele dal problematico scacchiere che è Gaza oggigiorno, con i suoi giochi di potere interni. Come dimostra, del resto, l’eloquente e prudentissimo silenzio dell’Anp in questa vicenda.
Per decenni i popoli arabi sono stati tenuti a bada con una strumentazione di potere che prevedeva in prima linea lo stereotipo di Israele fonte di tutti i mali e l’idea malsana che eliminando dalla faccia della Terra questo Paese tutto si sarebbe risolto. L’impressione generale è che queste rivoluzioni abbiano aperto una nuova fase in cui questo collante artificiale non tiene più. Le ragazze tunisine che chiedono la libertà di portare il velo o non portarlo nel loro Paese, non temono di dire che Facebook è stato il vero strumento di lotta per il loro popolo. Facebook: un prodotto dell’imperialismo americano, inventato da un ragazzo ebreo… Roba che fino a non molto tempo fa sarebbe stato un tabù politico.
Pensiamo del resto al profilo assai basso scelto anche dall’Iran di fronte a quel che succede nell’universo islamico. I silenzi talora valgono non meno delle parole: Ahmadinejad è un po’ che tace, che non sputa più ad uso del mondo intero i suoi proclami contro Israele, le sue profezie d’annientamento. È un segnale importante di consapevolezza - quasi la prova del nove -, che questo genere di slogan non attecchisce più come una volta, su dei popoli in lotta per se stessi e non contro qualcun altro.
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