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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.04.2011 Turchia in Europa, un incubo da non realizzare
Sergio Romano e Carlo Marsili la pensano diversamente, ma non convincono

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 aprile 2011
Pagina: 51
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Perché l’Europa ha paura della Turchia»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/04/2011, a pag. 51, l'articolo di Sergio Romano dal titolo "Perché l’Europa ha paura della Turchia".


Carlo Marsili               Sergio Romano

Carlo Marsili è stato per sei anni ambasciatore italiano in Turchia, non stupisce che si sia trovato bene e che abbia dedicato un libro a pubblicizzare l'ingresso della Turchia in Europa. Il soggiorno di Marsili deve essere stato assai gradevole, tanto da fargli immaginare una Turchia che non esiste.
Pazienza se per la popolazione turca la vita sia ben diversa. I processi agli scrittori, la situazione di Cipro, il rifiuto di riconoscere di aver perpetrato il genocidio degli armeni, il piano di islamizzazione che sta facendo tornare la Turchia ciò che era prima della rivoluzione kemalista, il distacco da Israele, il riavvicinamento alla teocrazia iraniana con l'appoggio al suo programma nucleare. Tutti questi motivi sono sufficienti a rendere impossibile l'ingresso della Turchia in Europa. E non sarà la prefazione di Sergio Romano ripresa dal Corriere della Sera a convincere del contrario.
Ecco l'articolo:

L a Turchia, scrive Carlo Marsili. è una «democrazia secolarizzata con una maggioranza islamica» . La logica vorrebbe che i laici fossero favorevoli all’ingresso del loro Paese nell’Unione Europea e i musulmani diffidenti, se non addirittura ostili. Ma le cose nella realtà sono alquanto diverse. I laici sanno che la Turchia deve alla cultura europea la grande rivoluzione kemalista del 1923, ma hanno reagito con orgoglio nazionale ai molti sgarbi ricevuti da alcuni membri dell’Ue (soprattutto Francia, Germania e Austria) in questi ultimi anni. I musulmani di più stretta osservanza, invece, hanno generalmente votato per un partito (l’Akp del primo ministro Recep Tayyip Erdogan) che non ha mai smesso di collocare l’ingresso nell’Unione al vertice delle sue priorità. In Europa, come sappiamo, la situazione sembra essere l’opposto. I laici sono piuttosto favorevoli all’ingresso della Turchia nell’Unione mentre i «cristiani» , veri o divenuti tali per le esigenze della loro battaglia, non perdono occasione per denunciare il «pericolo turco» . Il libro di Marsili ci aiuta a capire le ragioni di questo duello a parti rovesciate. Erdogan è devotamente musulmano e ha fatto qualche mese di prigione, in gioventù, per certe dichiarazioni che sembravano uscite dalla bocca di un islamista radicale. Ma è un modernizzatore ed e convinto che il suo Paese possa crescere economicamente e socialmente soltanto grazie a un rapporto organico con l’Unione Europea. Ne è convinto anche perché i protagonisti dello straordinario sviluppo dell’economia turca negli ultimi anni sono i ceti sociali della piccola e media borghesia musulmana nel cuore anatolico del Paese. Istanbul è sempre una affascinante metropoli, una grande finestra sull’Europa, come Pushkin definì la città costruita da Pietro il Grande sui margini nord-occidentali del suo stato. Ma i ceti emergenti del Paese provengono dalle operose province dell’interno dove le tradizioni musulmane sono state gelosamente conservate anche durante la grande rivoluzione culturale di Kemal Ataturk. Vi è certamente nella scelta di Erdogan anche un calcolo politico. Il leader dell’Akp si è servito degli impegni che l’Europa chiede alla Turchia per evitare che il suo governo facesse prima o dopo la fine di quello di un suo predecessore islamico, Necmettin Erbakan, primo ministro per un anno e costretto a dimettersi dai militari nel giugno del 1997. Grazie al dialogo con l’Europa, Erdogan ha potuto presentare come necessarie e democratiche le riforme costituzionali che avrebbero progressivamente ridotto il ruolo dei militari nella vita pubblica e reso lo stato molto meno inflessibilmente laico di quanto fosse nella concezione di Kemal. Ma non si è trattato di un pretestuoso artificio. Nonostante l’opposizione di alcuni Paesi europei e l’uso strumentale della questione cipriota, i turchi hanno continuato a negoziare il loro ingresso nell’Ue con grande serietà e con una sorprendente pazienza. Marsili riconosce che il piglio autoritario di Erdogan e certe impuntature islamiche del suo governo hanno diviso la società fra musulmani devoti, musulmani indifferenti, laici e un drappello di intransigenti laicisti. Ma credo che abbia ragione quando ritiene che la democrazia turca possa accogliere gli uni e gli altri senza troppi rischi per il suo sistema politico e sociale. Il maggior problema dei negoziati euro-turchi, quindi, non è la credibilità della Turchia di Erdogan. Il problema, se mai, è la credibilità dell’Europa, la serietà con cui conduce un negoziato che non ha alcuna possibilità, se proseguito con questi ritmi, di concludersi con un risultato positivo. La Germania non ha cambiato il suo atteggiamento e sembra convinta che il problema dell’adesione della Turchia possa essere risolto con la proposta di un «rapporto speciale» : una formula che Marsili, con buoni argomenti, considera priva di sostanza perché il rapporto speciale, per molti aspetti, è già stato realizzato. La Francia, dal canto suo, ha scritto nella propria costituzione che qualsiasi ulteriore allargamento dell’Unione dovrà essere ratificato da un referendum popolare. Nei Paesi favorevoli all’ingresso della Turchia, come l’Italia, l’opinione dei governi non riflette necessariamente quella della pubblica opinione. È possibile che all’origine di questa diffidenza vi siano vecchi pregiudizi, ancora depositati per una sorta di pigrizia culturale, sul fondo della coscienza di alcuni popoli europei. Esistono tuttavia altri motivi, più contingenti ma non meno importanti. La fase decisiva del negoziato è cominciata nel momento in cui l’Europa è agitata da una combinazione di paure. Teme per la propria sicurezza, insidiata dal terrorismo islamista. Si sente minacciata da una concorrenza mondiale a cui non intende sacrificare le conquiste economiche e sociali degli ultimi decenni. Vede nell’immigrazione il fattore in cui queste due minacce si combinano e si materializzano. La Turchia recita perfettamente la parte del grande nemico. È l’erede dell’Impero ottomano, vale a dire dello Stato da cui l’Europa sarebbe stata minacciata più di quanto gli europei non si siano minacciati a vicenda o non siano stati minacciati, a turno, dalle ambizioni imperiali della Spagna, della Francia o della Germania. Ha 78 milioni di abitanti e un primo ministro che raccomanda alle sue connazionali di fare almeno tre figli. Ed è, infine, musulmana. Nessuna di queste preoccupazioni è razionale, ma i governi non chiedono ai loro cittadini di essere razionali; chiedono i loro voti. Ho scritto che la Turchia ha continuato a negoziare con serietà e pazienza. Ma il tempo passa e un grande, orgoglioso Paese non può starsene con le mani in mano. Mentre l’Unione Europea la teneva in sala d’aspetto con pretestuosi argomenti ciprioti, la Turchia ha sfruttato la fine della guerra fredda e il suo dinamismo economico per divenire nuovamente una potenza del mar Nero, del Caucaso e dell’intera regione medio-orientale. Ha cercato di risolvere i suoi antichi contenziosi con i curdi e con gli armeni. Ha buoni rapporti con la Siria, un Paese che non le aveva perdonato l’annessione di Alessandretta alla fine degli anni Trenta. Ha eccellenti rapporti con l’Iran e riceve ogni anno un milione e mezzo di turisti iraniani. È diventata per molti Paesi arabi un modello politico ed economico, molto più contiguo e imitabile di quanto non siano le democrazie laiche e mature dell’Occidente. Non è sorprendente. La Turchia è sempre stata il principale laboratorio politico della regione, il modello da studiare e imitare. Dopo la fine dell’era coloniale, gli eserciti degli Stati medio-orientali hanno svolto nei loro Paesi una funzione simile, quasi sempre in peggio, a quella dell’esercito nella repubblica turca; e tutti i colonnelli che hanno conquistato il potere nella regione, da Nasser a Gheddafi, da Qassem in Iraq ad Assad in Siria, si erano diplomati alla scuola del grande Kemal Ataturk. Oggi Istanbul rappresenta per la borghesia araba ciò che Londra, Parigi e New York hanno rappresentato per le borghesie europee fra l’Ottocento e il Novecento. È la città dove il turista marocchino, algerino, siriano o giordano può gustare i piaceri dell’Occidente e della modernità senza essere accusato, al ritorno, di apostasia. E per coloro che non viaggiano vi sono le «love storie» e le «crime storie» prodotte dalla televisione turca per il mercato nazionale e medio-orientale. Qualcuno potrebbe osservare che la Turchia ha conquistato queste invidiabili posizioni anche grazie alla svolta anti-israeliana della sua politica estera. È vero. Ma converrebbe ricordare che Israele non ha fatto nulla in questi anni per trattenere la Turchia al suo fianco. Carlo Marsili. ci ricorda che la Turchia porterebbe in dote all’Unione Europea una straordinaria rete di esperienze e relazioni, un patrimonio che consentirebbe all’Europa di fare una politica medio orientale molto più efficace di quella che ha fatto sinora. Credo che abbia ragione. Ma vi sono almeno due fattori di cui occorre tenere conto. In primo luogo non credo che esistano, per il momento, le condizioni per una politica estera europea. In secondo luogo, quanto più la Turchia diventerà potenza regionale, ammirata e temuta, tanto più aumenterà negli ambienti più nazionalisti della società turca il sentimento che il loro Paese può fare da sé. Ho parlato soprattutto di quella parte del libro di Marsili che è dedicata ai rapporti fra la Turchia e l’Europa. Ma questo libro è molto di più. È un ritratto della Turchia moderna scritto da uno dei diplomatici italiani che meglio conosce questo Paese. Il lettore vi troverà molte notizie sui suoi sentimenti religiosi, sulle sue donne, sui costumi familiari e civili, sulla stampa, sulle forze armate, sulla questione curda, sulla questione armena e, infine, un capitolo sulla presenza economica italiana che consiglio come lettura ricostituente per chi trova troppo spesso nella stampa italiana soltanto notizie deprimenti.

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