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Il Foglio Rassegna Stampa
13.04.2011 Libia, Europa in disaccordo sulla strategia da seguire
commento di Redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 13 aprile 2011
Pagina: 1
Autore: Redazione del Foglio
Titolo: «Insabbiati a Tripoli»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2011, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo "Insabbiati a Tripoli".

Ajdabiya. La Nato deve fare di più, dicono a gran voce i ministri degli Esteri europei riuniti in Lussemburgo per discutere della missione in Libia. La Nato deve fare di più, aveva detto qualche giorno fa al Foglio il capo di stato maggiore dei ribelli, il generale Abdel Fattah Younes. Ma che cosa vuol dire “fare di più”? Per la Francia significa: “Evitare che il colonnello Muammar Gheddafi utilizzi armi pesanti per bombardare la popolazione”, come ha detto il ministro degli Esteri Alain Juppé. Per il Regno Unito significa: “Intensificare i nostri sforzi nella Nato – ha dichiarato il capo del Foreign Office William Hague – Questa è la ragione per cui Londra ha fornito aerei supplementari capaci di colpire obiettivi al suolo, auspicando che altri paesi facciano altrettanto”. Per l’Italia significa discutere dell’ampliamento delle regole di ingaggio (cioè: partecipare ai bombardamenti) “in sede di governo e con la Nato”, ha spiegato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sottolineando le sue perplessità alla luce del passato coloniale dell’Italia in Libia. Alla Germania basta che continuino le sanzioni e “l’embargo de facto sul petrolio e sul gas”, ha spiegato il ministro degli Esteri, Guido Westerwelle. Ma c’è altro, rivela al Foglio una fonte diplomatica. I ribelli dicono: “La Nato non basta: dateci i mezzi per proteggerci e difenderci”. La risoluzione 1973 dell’Onu prevede un’eccezione all’embargo sulle armi, per cui non vieta il rifornimento di armi alle forze di Bengasi. Alcuni paesi vorrebbero affrontare la questione oggi a Doha, durante la riunione del gruppo di contatto, perché “ci vuole una decisione politica”, dice la fonte diplomatica. Secondo altri invece “è meglio non parlarne e farlo discretamente”. Il colonnello Mohamed Khoftar non ha problemi a dare dettagli tecnici al telefono su come funzionano i rapporti tra la Nato e i ribelli. “Chiamo il consiglio militare, come fanno altri comandanti – dice al Foglio – Conosciamo bene il nostro deserto: indico per esempio di bombardare a quattro chilometri dal nostro check point. Dopo dieci minuti dalla mia chiamata, la Nato interviene”. Il colonnello Khoftar dice di essere stato oltre vent’anni in Afghanistan, come membro del Gruppo libico islamico per il combattimento. Abdel Monem Mukhtar Mohammed comanda un’altra unità di ribelli e ci spiega la sua tattica: chiama un suo conoscente per fornire le coordinate degli obiettivi nemici. Il conoscente è Joumaa Fuhaima, uno dei segretari di Mustafa Abdel Jalil, capo del Consiglio provvisorio nazionale. “Sabato ho chiesto di colpire dopo la stazione di benzina”, dice indicando un vago punto all’orizzonte, sulla strada che da Ajdabiya porta al centro petrolifero di Brega. Ma è difficile verificare quel che i comandanti dicono, anche perché i combattenti hanno rivelato, al contrario, di non sapere mai in anticipo quando la Nato attaccherà. Il tasso di approssimazione sul campo è elevato: all’inesperienza dei ribelli si aggiunge una rete di comunicazione improvvisata e basata sulle conoscenze, che rende il compito dell’Alleanza atlantica ancora più complesso. Il colonnello Gheddafi approfitta della debolezza militare degli insorti, mentre la comunità internazionale si divide sulle prossime fasi della missione. Il primo ministro dei ribelli, Mahmoud Jibril, ha presentato una road map precisa, ha detto Frattini: “Due settimane dopo l’uscita di scena di Gheddafi, loro sono pronti a varare un comitato nazionale costituente per adottare una Costituzione libica e preparare entro pochi mesi le elezioni generali e poi quelle presidenziali”. Nel processo saranno inclusi anche i gruppi dell’ovest della Libia. Per Frattini “la Nato sta facendo un buon lavoro”. Ma i ribelli non si accontentano. Vogliono le armi e anche i soldi – nonostante già vendano petrolio al Qatar. Il Consiglio di Bengasi ha chiesto di promuovere lo scongelamento di alcuni asset bloccati dalle sanzioni delle Nazioni Unite, perché finanziariamente “non ce la fanno”, conferma la fonte diplomatica. “Hanno un deficit di risorse del 60 per cento” e, se non pagano gli stipendi, rischiano di “perdere credibilità”.

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