Il Pakistan smette di collaborare con gli Usa nella guerra contro al Qaeda Analisi di Redazione del Foglio
Testata: Il Foglio Data: 13 aprile 2011 Pagina: 1 Autore: Redazione del Foglio Titolo: «Colpi duri sul fronte che conta per Obama (e non è la Libia)»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2011, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo "Colpi duri sul fronte che conta per Obama (e non è la Libia)".
Roma. Mentre l’interesse del mondo è concentrato sull’“operazione cinetica limitata” in Libia – così la definisce l’Amministrazione Obama – e su quanto succede a Tripoli e a Misurata, lontano a est la guerra reale continua. E nei palazzi di Islamabad, Kabul e Washington (e anche di Riad, perché senza l’Arabia Saudita non si fa nulla) è l’ora degli annunci rischiosi. Il Pakistan sta troncando di fatto la collaborazione con la Casa Bianca. In teoria il paese è il primo sulla lista degli alleati dell’America non appartenenti alla Nato, subito dopo Israele; in pratica ha appena chiesto che gli americani rimpatrino una grande parte dei loro agenti e contractor della Cia e dei militari delle Forze speciali presenti in Pakistan per combattere la concentrazione più pericolosa di terroristi al mondo. Islamabad ha anche chiesto la fine dei raid dei droni sulle aree tribali e protesta perché il numero degli attacchi dall’aria è troppo alto, “è fuori controllo”, e sostiene che gli americani ormai stanno usando i missili non come ultima risorsa, ma piuttosto come routine di comodo: in sostanza, i pachistani sono furiosi perché Obama bombarda troppo rispetto ai tempi di George W. Bush. Non è chiaro quanti americani dovrebbero lasciare il Pakistan, ma fonti locali dicono 335, pari a una percentuale vaga tra il 25 e il 40 per cento dell’organico dell’apparato di sicurezza americano al lavoro nel paese. Secondo il New York Times, “è un segno che la cooperazione tra i due alleati è quasi al collasso”. I giornali non citano come fonte della decisione il governo pachistano guidato dal debole Asif Ali Zardari, ma l’altro e anzi il solo potere, il generale Ashfaq Pervez Kayani. Domenica sera il più stretto collaboratore di Kayani, il direttore dei servizi segreti pachistani, Ahmed Shuja Pasha, è arrivato a Washington per parlare con il direttore della Cia, Leon Panetta, e con il capo di stato maggiore Mike Mullen. In realtà era previsto che si fermasse tre giorni, ma è volato via meno di 24 ore dopo. I pachistani sono stati chiari nelle richieste: vogliono avere la condivisione delle informazioni nelle operazioni Cia. In pratica, è come se ne chiedessero il controllo. Se la prospettiva di operazioni Cia commissariate nei fatti dai servizi segreti pachistani – sui quali pesa non l’ombra, ma la certezza assoluta di collusioni con al Qaida e i talebani – preoccupa la Casa Bianca, da Kabul non arrivano notizie migliori. Il presidente afghano Hamid Karzai è ormai nella fase discendente e finale della parabola che da eroe della libertà antitalebana lo sta portando a essere un elemento ostile a Washington. Non passa settimana senza un suo nuovo affondo che allarga le distanze. “Ho intenzione di chiedere alla Nato e agli americani di sospendere le operazioni nel nostro paese. Siamo un popolo tollerante, ma la nostra tolleranza è finita”, ha detto a metà marzo. Due settimane fa, è stato il presidente a scatenare la rabbia degli afghani per il caso del Corano bruciato in Florida da un oscuro pastore di cui nessuno si era occupato, fino a quando lui – con mossa troppo azzardata per non sembrare calcolata – non ne ha denunciato il gesto in un discorso di stato. Il giorno dopo, i predicatori nelle moschee hanno ripreso le parole di Karzai e la folla pazza di rabbia ha assaltato una base delle Nazioni Unite a Mazar i Sharif, uccidendo venti persone. Lunedì, un altro attacco a parole. Karzai ha detto che i consulenti occidentali sono in larga parte responsabili dello scandalo della Kabul Bank, ovvero della banca privata creata per pagare i soldati e i poliziotti afghani e che, invece, è caduta nelle mani avide dell’establishment. Gli uomini di Karzai – tra loro c’è anche suo fratello – si sono auto assegnati prestiti per quasi un miliardo di dollari, senza restituirli più, per comprare ville a Dubai e per investire in altri affari poco puliti. Ma, dice il presidente, la colpa è più dei controllori. A questi pezzi che si staccano, Pakistan e Afghanistan, potrebbe aggiungersi anche l’Arabia Saudita. Sembra – secondo rumors non confermati – che l’incontro con il segretario alla Difesa americano, Bob Gates, sia andato male, e che re Abdullah voglia annullare una commessa colossale di armi americane per 60 miliardi di dollari. Sarebbe uno schiaffo in faccia a Washington.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante