Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/04/2011, a pag. 6, l'intervista di Marta Dassù a Dominique Moïsi dal titolo "Sarkozy attacca la Libia per rilanciare la Grandeur".
Ecco come un analista dovrebbe esprimersi per farsi capire dai suoi lettori.
Non siamo interessati ad approfondire l'analisi della politica di Sarkozy, ma riprendiamo l'intervista di Marta Dassù a Dominique Moïsi, non tanto perchè sia condivisibile in toto, ma perchè Moïsi rappresenta uno dei pochi esempi di analisti appartenenti all'establishment politico culturale che esprime in modo chiaro e comprensibile ciò che pensa.
Saremmo curiosi di conoscere il suo giudizio sulle vicende mediorientali.
Ecco l'intervista:
Dominique Moïsi, Ex direttore dell’Ifri, il prestigioso istituto francese per le relazioni internazionali, e tuttora docente al di qua e al di là dell’Atlantico
Ex direttore dell’Ifri, il prestigioso istituto francese per le relazioni internazionali, e tuttora docente al di qua e al di là dell’Atlantico (insegna ad Harvard e al Collège d’Europe), Dominique Moïsi è convinto da sempre che nel lavoro come nei rapporti attraverso il mondo contino le emozioni. Ne è talmente convinto da averne fatto una teoria: il suo libro sulla «Geopolitica delle emozioni» dimostra quanto paura e speranza condizionino anche i rapporti tra Stati. In una pausa della riunione della Commissione Trilaterale, a Washington, parla di Francia, di Libia e di Europa: l’Europa a cui Sarkozy sta rinunciando, racconta mentre tira fuori dalla borsa le bozze della sua nuova autobiografia, «Un juif improbable», un ebreo improbabile, in uscita con Flammarion.
Professor Moïsi, il modo in cui Sarkozy ha gestito la prima fase della crisi libica è stato criticato aspramente in Italia: perché la Libia era un po’ una cosa nostra e il sospetto è che Sarkozy la voglia far diventare un po’ cosa sua, petrolio incluso.
«Il petrolio non c’entra. Abbiamo il nucleare, non scordarlo: la tragedia di Fukushima è un monito a modernizzare, non ad abbandonare la tecnologia nucleare. Hanno contato tre fattori, per Sarkozy. Il primo è la cultura specifica della Francia, unico altro Paese, assieme agli Stati Uniti, a ritenere di avere una missione universale. L’identità internazionale è parte essenziale della nostra identità nazionale. I francesi sono contenti quando vedono piantare la loro bandiera da qualche parte, quando i soldati partono, quando gli elicotteri intervengono. Quando c’è una crisi ma è la Francia a fare la differenza. In modo che definirei cartesiano, il francese pensa: Intervengo, quindi esisto. E’ l’opposto dell’atteggiamento passivo, rinunciatario, assunto dalla Germania dopo la Seconda guerra mondiale. E a cui Angela Merkel sembra oggi tornare. Fino a Suez, la missione che la Francia si attribuiva era quella di civilizzare. Oggi, parliamo della responsabilità di proteggere. Con tutte le ambiguità che ti puoi immaginare. Ma è comunque il senso di missione a prevalere. Unito a un secondo dato: il carattere personale di Sarkozy».
Sì, e anche qui abbiamo dei problemi, come italiani: è un carattere, o uno stile di comando, che tende all’esclusione, non certo ad includere. Con le divisioni che ciò crea, anche fra gli europei.
«Sarkozy è soprattutto un attivista. L’ho definito in passato l’americano perché vuole essere giudicato da quello che fa, non da quello che dice. E quello che può fare, per sentirsi il presidente, è di decidere un’operazione militare. In Libia o in Costa d’Avorio; con l’Onu ma come Francia. Sarkozy è un emozionale, un intuitivo: ama i colpi di scena. E gli va benissimo di farsi condizionare da Bernard-Henri Lévy, un intellettuale di sinistra che non lo ha votato. Perché così lo conquista. Al di là di questo matrimonio fra carattere nazionale e carattere personale, ha infine giocato il fattore tempo. La Francia era stata colta di sorpresa dalle proteste in Tunisia e in Egitto: ha risposto tardi e male. Sarkozy ha visto nella Libia l’occasione per recuperare terreno. E siccome aveva fatto troppo poco prima, ha fatto più degli altri poi».
La Francia è così riuscita a trascinarsi dietro un po’ tutti, America inclusa. Ma Obama era chiaramente su una posizione riluttante; non a caso, l’America ha passato rapidamente il comando alla Nato. Il problema è che quando l’America non guida le operazioni militari, anzi si ritaglia un ruolo di puro supporto, le cose non funzionano. Non crede che gli europei abbiano parlato molto ma in realtà non siano in grado di gestire un’operazione militare?
«C’è in effetti una notevole dose di incoerenza. I willing, i Paesi che hanno voluto intervenire in Libia, non sono completamente in grado di farlo. Vale per la Francia e vale ormai anche per la Gran Bretagna: non abbiamo capacità militari sufficienti ed è chiaro che la nostra illusione era di combattere ;fino all’ultimo missile americano. D’altra parte l’unico Paese capable, l’America, non vuole sovra-esporsi. Il Pentagono era nettamente contrario all’operazione in Libia, voluta invece dall’ala delle donne wilsoniane, come l’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, o Samantha Power, del Consiglio di sicurezza. Il caso della Libia diventa quindi paradigmatico: come possiamo entrare nel mondo post-americano se non abbiamo gli strumenti per farlo? C’è una seconda contraddizione: vista da Parigi, Nato vuol dire Stati Uniti, vista dagli americani Nato significa invece gli altri. È uno scarto di percezioni che oggi ci complica la vita in Libia».
Siamo infatti in una situazione di stallo, dal punto di vista militare. Ed esiste il rischio di una divisione del Paese. Secondo alcuni osservatori, la novità di fondo è proprio questa: dal Sudan in poi, sono entrati in discussione i vecchi confini. Questo potrebbe valere anche per la Libia.
«Gli scenari non sono chiari. Non è chiaro, in particolare, fino a che punto il Consiglio transitorio di Bengasi sia visto dalla maggioranza della popolazione libica come una forza nazionale di opposizione a Gheddafi; o rappresenti solo la Cirenaica. La verità sta probabilmente nel mezzo. Gli Stati Uniti pensano che Gheddafi finirà per essere schiacciato dalle sanzioni e prima o poi dovrà cedere: non è una prospettiva incoraggiante perché significa tempi lunghi. Il dilemma è chiaro: siamo intervenuti per proteggere Bengasi ma l’agenda implicita è di liberarsi di Gheddafi. Nel frattempo, l’Europa si è divisa. La Francia è stata essenziale nella decisione di intervenire ma ha commesso una serie di errori diplomatici gratuiti, che hanno contribuito a frantumare ulteriormente l’Europa. La cosa non mi sorprende più di tanto. Perché in realtà Sarkozy ha rinunciato all’Europa. Quando si tratta di questioni strategiche e di sicurezza, naturalmente; non dell’euro. Angela Merkel, intanto, guarda soprattutto alle dinamiche elettorali; ha perso il contatto con la realtà diplomatica. E David Cameron fa il suo mestiere: Londra non ha mai creduto all’Unione europea».
Tutto questo si riflette nella mancanza di solidarietà sui temi dell’emigrazione. Per l’Europa non è una sfida contingente; è una sfida strutturale, viste le dinamiche demografiche sulle due sponde del Mediterraneo. Rischiamo di non riuscire a gestirla. E questo sarà un duro colpo, per l’Unione europea. È possibile immaginare che l’euro regga, a lungo termine, quando la solidarietà politica si dissolve?
«La assenza di solidarietà in materia di immigrazione mi ha scioccato. È una prova ulteriore della crisi profonda dell’Europa. Trichet ha salvato l’euro; ma bisogna che esista una volontà politica sufficiente per sostenerlo. Se facessimo un ragionamento logico, dovremmo arrivare alla conclusione che a un certo punto, vista la mancanza di volontà politica, anche l’euro collasserà. Tuttavia, non succederà. Perché le decisioni internazionali sono frutto di istinti, e non solo di ragionamenti razionali. L’istinto alla sopravvivenza conterà. Questa generazione di leader, con tutti i suoi limiti, non vorrà essere accusata di 'avere perso' l’euro. Nessuno di loro. La moneta unica supererà la crisi attuale».
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