Libia, l'offensiva diplomatica di Gheddafi analisi di Redazione del Foglio, Pio Pompa
Testata: Il Foglio Data: 12 aprile 2011 Pagina: 1 Autore: Redazione del Foglio - Pio Pompa Titolo: «La pace truccata - Così l’Ue lascia che tra i migranti si mischi anche al Qaida»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/04/2011, a pag. 1-IV, l'articolo dal titolo " La pace truccata ", a pag. IV, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Così l’Ue lascia che tra i migranti si mischi anche al Qaida ". Ecco i due pezzi:
" La pace truccata "
Muammar Gheddafi
Milano. Organizzata la controffensiva militare, il colonnello di Tripoli, Muammar Gheddafi, ha lavorato a quella diplomatica, l’ha trovata con l’aiuto degli “amici africani” e ora la sta imponendo, nonostante i lamenti dei ribelli di Bengasi. Tutti vogliono trovare una soluzione alla guerra di Libia, soprattutto i volenterosi della prima ora – i francesi in testa –, e la vogliono trovare in fretta, perché l’opinione pubblica non tollera il protrarsi delle bombe, nonostante le rassicurazioni della Casa Bianca. Gheddafi lo sa, lo ha sempre saputo, e fin dall’inizio ha organizzato la difesa basandosi su un unico obiettivo: allungare i tempi, trasformare il blitz chirurgico, “limitato” come lo definisce il presidente americano, Barack Obama, in una campagna di logoramento. Sul campo ha molti mezzi a sua disposizione, non ultimo l’incapacità politica e militare dei ribelli che disfano di notte quel che hanno costruito di giorno. Mancava al colonnello una via diplomatica da percorrere, e dopo ventiquattro giorni di guerra se l’è infine costruita. Ha convocato gli amici africani – quelli dell’Unione che considerano Gheddafi “il re dei re africani”, quelli che non si sono presentati nei consessi internazionali a negoziare con altri interlocutori per difendere il loro colonnello, quelli che di fatto prendono ordini dal loro leader libico, anche perché lui se li è comprati con il suo petrolio –, ha preso il più democratico tra di loro, il presidente sudafricano Jacob Zuma, ha deciso una “road map” di massima per il cessate il fuoco, l’ha resa pubblica e infine l’ha accettata. E’ come se Gheddafi avesse fatto la pace con se stesso. Del resto: “Lui andarsene? Ridicolo”, dice il figlio Saif al Islam. I ribelli di Bengasi hanno riconosciuto la trappola e sono corsi a ribadire la precondizione a qualsiasi compromesso: non ci sarà fine delle ostilità finché a Tripoli c’è qualche Gheddafi al potere. Il principio è ineccepibile, ma ora anche i sostenitori del “regime change” silenzioso – i francesi, gli inglesi, anche gli americani – si lasciano tentare dalla tregua: il colonnello è impresentabile, ma pure una guerra persa lo è. I ribelli hanno dalla loro parte la mancanza di credibilità di Gheddafi: per due volte il colonnello ha annunciato il cessate il fuoco e per due volte l’ha violato – era soltanto una tattica per riorganizzare l’esercito. Ma per il resto il piano dell’Unione africana contiene parole che suonano dolci alle orecchie occidentali. La road map prevede che i civili continuino a essere protetti e che il paese si muova verso le riforme, in vista di un vago appuntamento elettorale. Difesa umanitaria e urne aperte – che cosa si può chiedere di più da una guerra nata limitata e condotta limitatamente agli interessi in gioco? Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che si è ritrovato tra le mani una missione con alte probabilità di sconfitta, chiede che il cessate il fuoco sia “verificabile e concreto”, e i fedeli amici africani di Gheddafi assicurano che l’Alleanza atlantica può stare tranquilla, ci saranno osservatori dell’Unione africana a controllare (come prima: è come se il colonnello controllasse se stesso). E mentre i giornali francesi rivelano che dal Ciad sono arrivati trecento mercenari pronti a difendere il regime libico, la trappola di Gheddafi prende sempre più consistenza. I ribelli sbraitano: ieri hanno accolto la delegazione dell’Unione africana al grido “non facciamo accordi con i dittatori”. Ma sanno che la controffensiva diplomatica di Tripoli può essere vincente. “I rivoltosi – ha spiegato Tim Marshall, inviato in Libia di Sky inglese – non possono essere troppo sospettosi nei confronti dell’accordo: come fanno a rifiutarlo senza sembrare loro quelli che non vogliono arrivare a una pace?”. Il dilemma si aggiunge agli altri dubbi che già aleggiano sui ribelli di Bengasi. Chi sono? Perché i generali dell’esercito che li appoggiano non hanno ancora messo in campo la loro forza? L’appello al jihad rimbalzato fino in Pakistan sta funzionando? Le armi arrivano? Le risposte sono vaghe, mentre a Tripoli Gheddafi ha un paio di certezze: il regime non sta implodendo, e la volpe occidentale impantanata nel deserto se ne sta facendo una ragione.
Pio Pompa - " Così l’Ue lascia che tra i migranti si mischi anche al Qaida "
Se la parabola qaidista sembra attraversare una fase di stallo e il suo brand perdere appeal mediatico, l’intellighenzia islamista si prepara ancora una volta, dopo averne preannunciato i termini e la portata in accurati pamphlet analitici, sul modello del “Jihad in Iraq, speranze e rischi”, a trarre il massimo vantaggio dalle divisioni interne all’Unione europea. Le stesse divisioni, oggi puntualmente riemerse sulla drammatica questione dei flussi migratori, che consentirono, dopo l’11 settembre e l’avvio delle offensive in Iraq e Afghanistan, a centinaia di jihadisti di rifugiarsi in Europa trasformandola in uno snodo logistico e organizzativo di primaria importanza per la loro causa. Valse allora, come ora, l’unicuique suum con la differenza, rispetto a quanto sta accadendo in questi giorni, di un sistematico e sotterraneo aggiramento da parte di diversi paesi europei con in testa Francia e Germania, del trattato di Schengen e delle sue liste di proscrizione scambiando tacitamente l’ospitalità offerta ai jihadisti con l’affrancamento da attentati terroristici. In ciò facilitati dall’atteggiamento di appeasement se non di aperta contrarietà alla lotta globale al terrorismo promossa dall’Amministrazione Obama. Non a caso ben altro destino ebbero Spagna e Gran Bretagna, con gli attentati di Madrid e Londra, e sia pure lontano dal proprio territorio, l’Italia con la strage di Nassiriya. Fu in quel periodo che proliferarono dal Vecchio Continente continui appelli telematici al jihad, seguiti da puntuali minacce all’occidente, come pure una convergenza tattica, basata sul principio della non incompatibilità operativa benedetta dallo stesso Bin Laden, tra islamisti e network antimperialisti e antisionisti. Di più. Siffatti “profughi” jihadisti finirono con il saldarsi in modo organico a quella parte di “migranti” naturalizzati e di terza generazione che rappresentano la testa di ponte del movimento fondamentalista in Europa. Oggi si assiste allo stesso irresponsabile prevalere degli interessi di alcune nazioni. Le stesse che dopo aver accolto i militanti islamici eludendo Schengen ora ne chiedono il rispetto contro i veri migranti di cui hanno sostenuto le rivoluzioni e a favore dei quali stanno conducendo una cosiddetta guerra umanitaria. Unicuique suum dunque, e al Qaida ringrazia.
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