Con il titolo " La volpe occidentale insabbiata " IL FOGLIO di oggi, 09/04/2011, pubblica in prima pagina, una analisi della partecipazione occidentale alla cosidetta rivoluzione araba. Daniele Raineri, Luigi De Biase, con la collaborazione di Gianandrea Gaiani, gli autori.
vignetta di Uber dal Foglio
L’idea di un’operazione internazionale rapida e schierata senza equivoci dalla parte del bene, di una spintarella a una rivoluzione popolare araba che stava per essere soffocata nel sangue da un despota più feroce degli altri, sta fallendo. Qui proviamo a spiegare come e perché.
Le guerre non si vincono dal cielo.
Da quando gli Stati Uniti hanno ritirato i 90 jet da combattimento assegnati alle operazioni sulla Libia, la pressione della Nato sulle truppe di Gheddafi si è ridotta drasticamente. Dei 135 velivoli messi a disposizione da una dozzina di paesi, soltanto 110 sono da combattimento; molti governi, compreso quello italiano, impiegano i loro jet esclusivamente per garantire il rispetto della “no fly zone” che Gheddafi, ormai privo di velivoli, non può violare. Gran Bretagna, Francia, Canada, Norvegia e Danimarca accettano di attaccare le forze libiche al suolo, ma dei settanta aerei in campo soltanto quaranta effettuano bombardamenti. La Nato sostiene che, su 1.170 missioni eseguite dal 31 marzo al 7 aprile, ben 473 erano d’attacco – ma non tutte hanno visto l’impiego di missili o bombe. Il colonnello Abdul Salam Kemati, capo dell’aeronautica dei ribelli, sostiene che oggi i raid siano il 5 o il 10 per cento delle missioni alleate, contro il 90 della prima fase di “Odyssey Dawn”. La Gran Bretagna rafforza la componente di aerei per i bombardamenti impiegando sedici dei suoi venti Tornado e Typhoon, mentre la Nato chiede più aerei e disponibilità ai partner per condurre azioni d’attacco. Lo chiede soprattutto all’Italia, che potrebbe raddoppiare i sedici jet Typhhon, Tornado e Harrier assegnati alla missione. Il premier, Silvio Berlusconi, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, hanno però dichiarato che gli aerei italiani “non bombardano e non bombarderanno”.
Il piano di Gheddafi per fermare la Nato.
La Libia è grande come il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan messi assieme, ma il colonnello Gheddafi ha fatto sparire da sotto gli occhi dell’apparato di sorveglianza Nato i bersagli. I carri e i blindati non formano più colonne solitarie in mezzo alle piste del deserto, ma sono ora sparpagliati tra le case e i giardini dei civili, dove gli aerei – anche quando li riescono a vedere – non possono lanciare bombe per non fare vittime tra i civili, la cui protezione è il solo e poco realistico mandato di “Odyssey Dawn”. I soldati e i mercenari di Gheddafi sono diventati partigiani contro i partigiani, si spostano a bordo di pick up leggeri, di comuni automobili, persino di roulotte e stanno rendendo il lavoro dei bombardieri un inferno. Nell’ultima settimana ci sono stati già almeno tre episodi di “blu su blu”, come si dice in codice, “fuoco amico” (le forze blu sono gli amici, quelle rosse sono i nemici). Ieri dal comando di Napoli l’ammiraglio inglese Russ Harding, vicecomandante dell’operazione, ha rifiutato di scusarsi per l’uccisione di 13 ribelli libici in un bombardamento sbagliato. “Erano a bordo di veicoli blindati, noi credevamo che li avessero soltanto gli uomini di Gheddafi, avrebbero dovuto comunicarcelo”. Sembra che i ribelli mercoledì fossero appena riusciti a impossessarsi dei veicoli, ma sono stati colpiti da due razzi sparati dal cielo. Londra sta mandando d’urgenza 500 telefoni satellitari, e ieri i ribelli si sono disperatamente affrettati a verniciare i propri veicoli di rosa per distinguersi, ma i gheddafiani li tengono d’occhio e non ci metteranno molto a copiarli. I rapporti parlano di cecchini di Tripoli che s’infiltrano tra le case nelle periferie di Misurata e di Brega e sparano su ribelli e civili.
L’ipotesi (folle) “boots on the ground”.
A Londra gli analisti del gruppo finanziario Religare Capital Markets dicono che in Libia c’è una probabilità del 75 per cento che finisca tutto con uno stallo. Da una parte Gheddafi e i suoi, dall’altra i ribelli con sopra la testa l’ombrello aereo della Nato sempre più sottile, entrambi incapaci di prevalere sull’altro. Il capo militare dei ribelli ed ex ministro dell’Interno di Gheddafi, Abdel Fattah Younis, è furioso con la Nato: “Non stanno facendo nulla, quando indichiamo loro dove colpire passano otto ore prima che lo facciano, la gente sta per essere ammazzata e la comunità internazionale dovrà portarsi addosso questo crimine”. Il solo elemento che potrebbe modificare la situazione, anche se fa rizzare i capelli nelle cancellerie occidentali al suo solo essere nominato, è l’intervento militare a terra: “boots on the ground”, anfibi di soldati sul suolo libico. Due giorni fa il generale americano Carter Ham che comanda le operazioni si è lasciato sfuggire: “Mandare soldati americani in Libia non è l’ideale, ma è un’opzione da considerare”. Per ora, i governi hanno mandato tutti gli uomini che potevano mandare senza che sembrasse una reale operazione terrestre. Squadre della Cia, forze speciali per interventi di salvataggio, istruttori – ma non è confermato – soldati della Legione straniera francese, una squadra delle Sas britanniche subito respinta con sdegno dai ribelli: chissà se ora li rispedirebbero di nuovo indietro.
La trattativa proposta da Ankara.
La Turchia ha presentato giovedì una “road map” per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. “Stiamo lavorando sui dettagli con i rappresentanti del governo libico e con il Consiglio di transizione”, ha detto il premier, Recep Tayyip Erdogan, nel corso di una conferenza stampa. L’iniziativa comprende tre punti: un accordo per il cessate il fuoco nelle città in cui ancora si combatte; un canale umanitario che permetta l’ingresso dei soccorsi nel paese; e un processo di riforme che porti a nuove elezioni. Nei giorni scorsi Erdogan ha ospitato il nuovo ministro degli Esteri di Gheddafi, Abdel Ati al Obeidi, mentre un uomo della diplomazia turca è volato a Bengasi per incontrare i leader dei ribelli. Al Obeidi ha accolto con favore la proposta del premier turco, ma ha posto una condizione: Gheddafi deve restare al potere. Non è detto che i mediatori siano pronti ad accettare questa ipotesi: Erdogan ha detto giovedì che il rais deve fare un passo indietro, come già sostengono gli altri governi dell’occidente. Ma la Nato ha bisogno di levarsi dall’dall’impaccio di una guerra che non presenta vie d’uscita, e l’idea della soluzione diplomatica è tenuta in grande considerazione dai paesi dell’Alleanza. Se la guerra dal cielo mostra i suoi limiti – se nessuno intende affondare con le operazioni di terra – è il caso di adottare un approccio più realista. Il ministro al Obeidi ha lasciato Ankara ieri per fare ritorno a Tripoli. La “road map” turca sarà discussa con ogni probabilità all’inizio della prossima settimana a Doha, in Qatar, nel secondo Vertice degli alleati dopo quello di Londra – il terzo si terrà presumibilmente a Roma. Anche l’Italia si muove sul fronte diplomatico. Il presidente del Consiglio di Bengasi, Mustafa Abdel Jalil, sarà ricevuto a Roma la prossima settimana da Berlusconi. Per Jalil è previsto anche un “passaggio in Parlamento”, hanno fatto sapere ieri fonti della Farnesina. Secondo la maggior parte degli analisti, in futuro la Libia potrebbe essere divisa in due parti.
Le pretese dei ribelli.
I ribelli libici hanno veramente bisogno di tutto questo aiuto da fuori? Hanno già cominciato a vendere petrolio: potrebbero guadagnare 100 milioni di dollari dalla vendita del primo carico di greggio, partito via mare verso Singapore. E – anche se dicono “a noi non piace e non lo vorremmo” – si stanno abituando all’idea di una possibile spartizione della Libia in due stati più piccoli, con capitali Tripoli e Bengasi. Non hanno ancora evidentemente schierato tutte le forze a loro disposizione, perché l’esercito di Gheddafi, da distinguersi dalle forze di sicurezza, dopo avere abbandonato il rais al suo destino si è rintanato nelle sue caserme dell’est. “Non volevamo che sembrasse un golpe militare come quello che ha portato al potere Gheddafi”, hanno spiegato. E nelle fasi iniziali della rivoluzione i ribelli erano stati molto netti: non vogliamo alcun intervento militare straniero. Eppure ora non fanno che chiedere più impegno dall’esterno, vorrebbero altre armi, più moderne e potenti, “ci servirebbero elicotteri per colpire con precisione il nemico anche se si nasconde tra le case”. Eppure i corrispondenti stranieri che li seguono al fronte spiegano all’unanimità che è già tanto se non si fanno male con le armi che hanno a disposizione, e che avrebbero più bisogno di darsi una regolata che di elicotteri da guerra: “Non scavano nemmeno le buche e le trincee”, e poi si lamentano se gli aerei Nato non liquidano all’istante l’artiglieria del rais che li bombarda.
L’esercito fantasma di al Qaida.
Il primo a parlarne in maniera ufficiale è stato James Stavridis, la massima autorità militare della Nato: fra i ribelli di Bengasi ci sono “tracce” di al Qaida e di Hezbollah. Le parole del generale non hanno sorpreso gli osservatori – la Libia è stata per anni il principale serbatoio della guerra santa in Iraq e in Afghanistan – ma hanno creato grande imbarazzo nel governo britannico, che ha sostenuto con forza l’ipotesi di un intervento militare al fianco degli insorti. Allo stesso tempo, rendono più problematica la consegna di armi ai leader della rivolta. Secondo un ex ufficiale della Cia, Bruce Riedel, “non c’è dubbio che i combattenti libici di al Qaida abbiano un ruolo in questa rivolta. Hanno il loro quartier generale a Bengasi e sono da sempre un grande problema per Gheddafi. Resta da capire quale sia il loro peso in questo momento”. La guerra di Libia rappresenta una grande opportunità per al Qaida, che è rimasta esclusa da tutte le altre rivolte arabe. In Tunisia si fanno largo i movimenti democratici, e in Egitto i terroristi sono rimasti isolati dopo che le piazze sono riuscite a cacciare il vecchio presidente, Hosni Mubarak, senza che venisse usata la forza. Ma nel deserto della Cirenaica si combatte e c’è bisogno di soldati: i terroristi hanno la grande occasione di sconfiggere uno dei loro grandi nemici (Gheddafi), di fare nuovi proseliti e di conquistare spazio nelle terre islamiche dell’Africa settentrionale.
Il capo del Pentagono può dire la verità.
Ai soldati americani schierati a Baghdad, il segretario alla Difesa, Robert Gates, ha detto che questa “è l’ultima volta che mi vedrete in veste di capo del Pentagono”, ufficializzando così quello che tutti a Washington sanno: l’Amministrazione Obama sta per cambiare i vertici di Forze armate e servizi segreti, forse il direttore della Cia, Leon Panetta, potrebbe rimpiazzare Gates e il suo posto potrebbe essere preso dall’attuale comandante dei soldati americani in Afghanistan, il generale David Petraeus. Gates è il volto più saggio dell’Amministrazione, confermato al suo posto dopo essere stato nominato dal presidente George W. Bush, e ora gode di uno stato di grazia: non deve nulla a nessuno e non ha più traguardi, può parlare con candida franchezza di (quasi) tutto. Sull’Iraq ha detto l’indicibile: che Washington è interessata a prolungare la propria presenza militare, con buona pace del grande e strombazzato ritiro – se il governo di Maliki acconsentirà. Sulla Libia ha detto che “sarebbe da pazzi” imbarcarsi in un nuovo intervento di terra in un paese arabo o del medio oriente: “Non succederà, finché io avrò questo posto”. Fin dall’inizio, Gates è stato tra i più freddi sull’operazione “Odyessey Dawn”, come se l’impegno libico fosse poco più che un inopportuno stunt pubblicitario che viene a interrompere nel momento sbagliato le questioni più importanti di cui si sta occupando il Pentagono; su tutte la ricerca del percorso accidentato che porterà gli Stati Uniti fuori dall’Afghanistan (e dal Pakistan) senza compromettere la sicurezza in patria. Ma sono le questioni su cui ancora Gates mantiene la sua scontrosa, proverbiale riservatezza a essere interessanti. Il Pentagono ha quasi sostituito il dipartimento di stato nella diplomazia che conta. Dalla Libia che si solleva contro Gheddafi all’Egitto dove importano più di tutto le relazioni con l’esercito di Mohammed Tantawi all’Arabia Saudita che si rifiuta di incontrare Hillary Clinton, è lui l’uomo che si occupa delle rivoluzioni arabe per conto della Casa Bianca (e fa sentire la propria voce anche in Israele e in Pakistan). In Arabia Saudita si è appena accordato con il re – ancora furioso e risentito con la Casa Bianca – per mollare il rais dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, ormai impresentabile, ma per non cedere ai rivoltosi sciiti in Bahrein.
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