|
|
||
Perchè si è fermato l’effetto domino (traduzione di Angelo Pezzana)
Il presidente della Tunisia, Zine al-Abidine Ben Ali, se ne è andato dal suo paese in rivolta lo scorso 14 gennaio, dopo ventotto giorni di sollevazione e settecento morti. Hosni Mubarak, il presidente egiziano, si è dimesso l’ 11 febbraio dopo diciotto giorni di proteste e quattrocento morti. Tutti gli analisti hanno citato l’ “effetto domino”, che avrebbe dovuto far cadere, se non tutti, la maggior parte dei leader arabi. Al momeno, e malgrado le proteste continuino e le vittime in Libia, Yemen, Barhain, Marocco, Siria e Iraq, sono trascorsi due mesi senza che nessun re o presidente si sia dimesso o sia stato cacciato. Questo pone l’interrogativo perchè sia successo in Tunisia e in Egitto, e non negli altri stati arabi. La risposta sta nella struttura delle società arabe. Negli ultimi decenni, Tunisia e Egitto, hanno vissuto il passaggio da una società rurale a una moderna, la gente si è trasferita nelle città, individualmente o in interi nuclei famigliari. Vennero spezzati i legami tribali e di clan, nei quali erano cresciuti, nei villaggi o nel deserto, per unirsi a chi abitava nelle città dopo avere abbandonato la tradizionale vita nelle tribù. Entrarono a far parte di organizzazioni professionali (ingenieri, commercianti ecc.), create per migliorare e garantire i loro interessi, oppure associazioni politiche ( socialisti, comunisti, democratici, islamisti). In comune, in queste organizzazioni, c’erano gli interessi, non i legami famigliari. Che vennero sostituiti, appunto, da interessi e ideologie, disponibili anche a cambiare. Crebbe così intorno a Ben Ali e Mubarak una élite politica, senza legami famigliari e tribali, mentre, al contrario, re e presidenti, nella maggior parte degli altri stati arabi, hanno continuato a governare attraverso il potere tribale, da sempre rappresentato nei governi, esercito, servizi di sicurezza, partiti politici, autorità locali, industrie di stato e grand commis. Stanno dalla parte del regime non per devozione, ma per il loro interesse e quello della loro tribù. Ben sapendo che se cade, subiranno la stessa sorte. L’Iraq, dove Saddam Hussein aveva messo gente della sua tribù a capo di tutte le istituzioni dello stato, ne è un esempio perfetto. Lo stesso avviene in Libia, Siria, Yemen e Barhain, dove il presidente o il re eleggono alle cariche fratelli e cugini, sicuri che approveranno tutte le decisioni, essendo il loro destino strettamente legato. La lotta per mantenere il potere è una questione vitale nel vero senso della parola. E’ una combinazione tra “loro o noi” e “ governa o muori”. Al contrario, quando Ben Ali e Mubarak si guardarono intorno, si resero conto che i loro seguaci erano interessati soltanto a salvaguardare la loro forza e a curare abilmente gli interessi dei dimostranti. Ministri e ufficiali dell’esercito, quando si resero conto della debolezza dei presidenti, ritirarono il loro appoggio, abbandonandoli al loro destino. I cittadini dell’Arabia Saudita, in modo particolare gli sciiti a est, sono ben coscienti del sistema di mutuo aiuto che sostiene la monarchia, sanno che queste tribù combatteranno per la loro sopravvivenza fino all’ultima goccia di sangue. In Libia, entrambe le fazioni, si combattono malgrado le gravi perdite e migliaia di morti, perchè sanno che l’alternativa è il.massacro di chi perde. Gli alawiti in Siria sanno che saranno ammazzati in quanto infedeli, oltre al fatto di avere sterminato un numero enorme di musulmani da quando presero il potere nel 1966. In Yemen la tribù di Sanham, di Ali Abdallah Saleh, e i suoi alleati, combattono l’opposizione uniti da motivazioni comuni: ci sono coloro che vogliono restaurare l’indipendenza dello Yemen del Sud, esistita fino al 1990, altri, finanziati dall’Iran, rappresentano gli estremisti sciiti, altri ancora fanno parte dell’ Jihad globale legato ad al-Qaeda, che hanno trovato rifugio e riparo fra le alte e scoscese montagne rocciose. Nell’Iraq del 2003, è possibile che la resistenza ostinata di Saddam Hussein contro la Coalizione fosse dovuta alla convinzione che l’esercito iracheno, al comando di milizie legate alla sua tribù, avrebbe sconfitto le forze internazionali. In questi paesi tribali, le istituzioni quali il parlamento, i partiti politici, i poteri giudiziari, la costituzione e le elezioni, sono la facciata moderna che copre un governo tribale. Questa apparenza esteriore di legittimità aiuta il regime a mantenersi al potere. Il popolo conosce la verità, partecipa alle dimostrazioni, e viene represso con la volontà di uccidere dalla tribù al potere, secondo la ben conosciuta tradizione mediorientale. Ma questi regimi tribali non sono eterni. Finchè c’è l’ unita tribale, chi governa rimane al potere, opponendosi alle massa anche a costo di molte vite, persino reagendo contro forze occidentali, come in Libia. Ma se sopravvengono lotte intestine e divisioni, allora il sistema collassa. Andrebbero analizzate le motivazioni di quanti hanno abbandonato Gheddafi, che finirà per abdicare, lasciando i suoi seguaci nelle mani dei ribelli e dei loro coltelli. Cercherà di ottenere un salvacondotto per la loro sicurezza, ma sarà difficile che potrà ottenerlo. Una riflessione per quanto riguarda l’Iran: la funzione tribale degli ayatollah, è tenuta insieme dal collante del potere religioso, gli attacchi della maggioranza laica producono in loro un forte senso di lealtà. Le Guardie della Rivoluzione governano l’Iran sotto la leadership degli Ayatollah finchè rimane l’unità.Se Ayatollah e Guardie della Rivoluzione dovessere combattersi, il loro potere crollerebbe. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |