Rivoluzioni nel mondo arabo, Barack Obama non ha una strategia l'Iran, sì. Commenti di Alberto Mucci, Amy Rosenthal, Luigi De Biase
Testata: Il Foglio Data: 08 aprile 2011 Pagina: 7 Autore: Alberto Mucci - Amy Rosenthal - Luigi De Biase Titolo: «Teheran ha individuato i quattro paesi in cui la primavera araba può diventare riscossa sciita - Obama affronta le rivolte una a una, senza una dottrina complessiva. Ecco perché Israele si preoccupa - La crisi dei vecchi regimi dice a Erdogan che la sua T»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 08/04/2011, a pag. III, gli articoli di Alberto Mucci, Amy Rosenthal, Luigi De Biase, titolati "Teheran ha individuato i quattro paesi in cui la primavera araba può diventare riscossa sciita ", " Obama affronta le rivolte una a una, senza una dottrina complessiva. Ecco perché Israele si preoccupa " e " La crisi dei vecchi regimi dice a Erdogan che la sua Turchia non è ancora pronta per fare la potenza ". Ecco gli articoli:
Alberto Mucci - " Teheran ha individuato i quattro paesi in cui la primavera araba può diventare riscossa sciita "
Mahmoud Ahmadinejad
Roma. Gli Stati Uniti “vogliono creare crisi regionali”, puntando sullo scontro tra sunniti e sciiti, tra Iran e paesi arabi, per “salvare” Israele. La retorica complottistica di Mahmoud Ahmadinejad ha come sempre un che di scontato e un che di puntuale. Il presidente iraniano è intervenuto ieri per commentare quel che sta accadendo nel Golfo Persico e nel nord Africa – cosa piuttosto inusuale: Teheran ha sostenuto le rivolte contro i regimi, soprattutto all’inizio, quando ad andare giù erano i dittatori di Tunisia ed Egitto, ma poi il contagio ha preso altre vie ben più delicate – basti pensare al Bahrein – e così i commenti sono diventati più rari. Ora Ahmadinejad parla perché ha due buoni motivi per farlo: perché Israele tace, abbastanza atterrito, e perché deve dare la sua versione sull’analisi predominante, che ha a che fare con la riscossa sciita in tutta la regione. E infatti: “Le trame dell’occidente e dell’America hanno lo scopo di salvare il regime sionista, che si trova in crisi, a un passo dal crollo – ha detto il presidente iraniano – Nel Golfo Persico, l’occidente sta cercando di creare divisioni, puntando sul conflitto arabo-persiano e quello sciita-sunnita, ma non riuscirà nel suo intento, staremo attenti a non cadere nella trappola”. Nella trappola ci sta cadendo l’occidente, ovviamente. Il progetto iraniano ha obiettivi solidi: ribaltare l’equilibrio esistente, con i paesi sunniti che arginano l’ascesa sciita, in modo da isolare Israele. L’Arabia Saudita, principale azionista del fronte sunnita, ha capito presto l’antifona, non è stata lì ad aspettare che gli Stati Uniti definissero una strategia – anche perché sarebbe ancora in attesa – e alla prima zampata iraniana in Bahrein, a due passi da casa, ha mosso truppe e carri armati. Che intenzioni ha ora la Repubblica islamica d’Iran? Secondo Kadhim Abbas, professore di politica mediorientale all’Accademia navale americana, l’intenzione della Repubblica islamica è ancora da decifrare, “ma il suo parziale silenzio è indicativo del vantaggio che sta traendo dalla destabilizzazione”. L’Iran concentra i suoi sforzi principalmente su quattro paesi: l’Egitto, la Siria, lo Yemen e il Bahrein. “La prima caratteristica da evidenziare – continua Abbas – è la natura tutta interna e locale delle richieste dei manifestanti. Poco o niente è stato detto dalle piazze sulla politica estera dei dittatori contestati”. Il tema è stato affrontato a rivoluzione terminata, come spiega bene il caso egiziano. “Se i Fratelli musulmani vinceranno le elezioni, o quantomeno riusciranno a esercitare una certa influenza sulla politica del Cairo, le cose cambieranno sicuramente”, conferma l’esperto. Ma anche se dovesse imporsi la cosiddetta opposizione laica, non c’è da stare tranquilli – o meglio, è Israele che non può stare tranquillo. Mohammed ElBaradei, ex capo dell’agenzia nucleare dell’Onu e candidato alla presidenza al Cairo, ha detto che non si tirerà indietro: se Israele attacca Gaza, noi attaccheremo Israele. E l’Egitto in transizione, quello dei militari, è ancora più preoccupante: sono passate due navi da guerra iraniane dal canale di Suez, cosa che non succedeva dalla rivoluzione islamica iraniana del 1979, e si parla di riaprire i contatti diplomatici tra Teheran e il Cairo, in nome di una rinnovata amicizia. “Ma per capire l’umore di Teheran è sempre bene guardare ad Hamas – ricorda Abbas – E’ difficile che gli attacchi del gruppo palestinese abbiano una tempistica casuale”. Hamas si sente forte, ricomincia il logorio degli attacchi missilistici, ieri è stato colpito un autobus vicino alla Striscia di Gaza e subito sono stati lanciati 45 razzi in tre ore sul Negev. Israele deve prepararsi a reagire, è già pronto. In Siria invece la partita per Teheran è più facile, è un affare tra alleati, a dispetto di quanto abbia voluto credere la diplomazia di Parigi e di Washington, in questi anni di infruttuoso engagement. “Damasco è già una realtà antagonista a Gerusalemme – dice il professore – Se il presidente siriano, Bashar el Assad, cadesse, potrebbero arrivare al potere i Fratelli musulmani che, nonostante non siano sciiti, condividono con Teheran l’obiettivo di distruggere Israele, un po’ come accade con Hamas”. Si possono superare le barriere settarie, se il fine è così succoso. C’è di più. Storicamente l’Egitto e la Siria sono sempre state in sfere di influenza opposte, prima divise tra Russia (la seconda) e America (il primo), poi divise dalla pace dell’Egitto con Israele: “Questo antagonismo potrebbe risolversi tutto di un colpo. Avere i due paesi sulla stessa linea politica – pro iraniana – sarebbe il sogno di Teheran”. Se si aggiunge che a fianco alla Siria c’è il Libano ormai governato da Hezbollah, la riscossa sciita diventa sempre più trionfale. Yemen e Bahrein interessano all’Iran in funzione antiamericana e antisaudita. “Il Bahrein è come l’Iraq prima del 2003 – dice Abbas – C’è una minoranza sunnita che domina su una maggioranza sciita”. La Repubblica islamica esercita una forte influenza sul paese, lo fa da tempo, questo è un ponte indispensabile al di là del Golfo, per esportare il dogma sciita e l’influenza politica di Teheran: una parte consistente dell’élite del Bahrein ha studiato in Iran o è di origine iraniana, e qui i pasdaran hanno impiantato cellule militari con lo scopo di creare una forza modellata sull’Hezbollah libanese (di lotta e di governo). Ma qui c’è anche la più grande presenza militare americana. E’ ormai una frase fatta tra gli analisti dire che “l’unica cosa che si frappone tra l’Iran e l’Arabia Saudita è la Quinta flotta americana”. Se le rivolte degli sciiti avessero successo, sarebbe un grave colpo per gli americani e ancor più per i sauditi, che non si sono fatti troppi problemi a intervenire a sostegno della famiglia regnante degli al Khalifa. Gli sciiti infatti ci sono anche nel regno saudita, stanno soprattutto vicino al confine con il Bahrein, che è anche la zona più ricca di petrolio del paese: ecco perché Riad non poteva perdere tempo; ecco perché Riad non ha nemmeno voluto parlare con gli americani e di sua iniziativa ha mandato i soldati a reprimere la rivolta in Bahrein. La casa saudita non ha una natura multilateralista, come è noto, anche perché dove si è piegata a negoziati con gli occidentali – vedi il governo libanese – ha sempre finito per perdere. In Yemen, la strategia iraniana ha “per il novanta per cento uno scopo antiamericano”, dice Abbas. Il presidente Saleh ha servito gli interessi americani e ha combattuto al Qaeda nel paese, ottenendo così grandi investimenti statunitensi. Ora sia Washington sia Riad hanno deciso – così sembra – di abbandonarlo, ma l’alternativa è ancora da studiare. Ma c’è da stare attenti, perché – conclude Abbas – l’America ha spesso reso un gran servizio all’Iran, senza volerlo naturalmente. E’ questo il più grande paradosso. “Hamid Karzai, il presidente afghano, va più a Teheran che a Washington o Londra. In Iraq, la Repubblica islamica ha molti più alleati ora di quanti ne avesse quando c’era l’arcinemico Saddam Hussein”. Alla fine gli ayatollah e il loro presidente Ahmadinejad possono anche prendersi il lusso di aspettare: è facile che le cose giochino a loro vantaggio.
Amy Rosenthal - " Obama affronta le rivolte una a una, senza una dottrina complessiva. Ecco perché Israele si preoccupa "
Bibi Netanyahu, Barack Obama
New York. L’intervento delle forze americane ed europee (con un piccolo aiuto del Qatar) in Libia ha acceso il dibattito sulla politica d’intervento americana e il futuro ruolo dell’Iran e di Israele. Per fare chiarezza il Foglio ha intervistato Ilan Berman e Richard Perle, due esperti di medio oriente. Il primo è il vicepresidente dell’American Foreign Policy Council, un think tank americano con sede a Washington, dove si occupa di politica mediorientale e sicurezza della regione. Il secondo è un veterano della politica americana, ha lavorato sia per l’Amministrazione Reagan, come assistente del segretario alla Difesa, sia come consigliere della Difesa durante l’Amministrazione Bush. “L’indecisione sembra essere il leitmotiv della recente politica americana – dice Berman – E questa propensione ha fatto preoccupare alleati nella regione, come Israele e Arabia Saudita”. Nel discorso del 28 marzo scorso (si può leggere tradotto in italiano sul sito del Foglio, http://www.ilfoglio.it/soloqui/8417) il presidente Obama ha fatto attenzione a non pronunciare la parola dottrina, tentando invece di coniugare l’intervento umanitario con gli interessi nazionali in modo da dare una giustificazione ideologica (seppur contestata all’interno della stessa Amministrazione) sull’arbitrarietà degli interventi a sostegno di alcuni movimenti democratici invece di altri. Non mancano però i critici tra coloro, come Berman, che vedono nel discorso del titolare della Casa Bianca sottigliezze che cercano di nascondere la mancanza di una politica ben definita da poter offrire agli alleati mediorientali. Secondo Berman “l’idea di un intervento umanitario è frutto di una psicologia pop. Da un lato è facile giustificare l’intervento in Libia su basi morali, ma è difficile legittimare la guerra su basi strategiche”, una dicotomia che ha diviso anche l’Amministrazione Obama: “Da una parte il segretario della Difesa Robert Gates, contrario all’intervento in Libia, e dall’altra il segretario di stato Hillary Clinton, sostenitrice invece di un intervento umanitario”. Ma chi interpreta la mossa americana come un segnale di maggiore impegno da parte del governo americano a sostenere le piazze del mondo arabo sbaglia, sec o n d o Berman: “Bisogna capire se da parte dell’Amministrazione americana ci sia una volontà vera di farsi promotrice dei movimenti democratici in medio oriente. Se in Libano Washington è intervenuta, in Iran l’approccio è stato quasi opposto. Quando nella Repubblica islamica sono scoppiate le proteste nel 2009, Obama è rimasto in silenzio per paura di intralciare la diplomazia di Washington che tentava di riallacciare i rapporti con Teheran. L’anno successivo invece, il presidente ha espresso esplicita solidarietà alle piazze iraniane e alle loro aspirazioni democratiche. Certamente un progresso della politica americana, ma è ancora lontano il giorno in cui gli Stati Uniti decideranno per un intervento a favore dei movimenti democratici iraniani”. Berman non è l’unico critico dell’indecisione americana che si è fatta notare non soltanto nei confronti dell’Iran ma anche dei più recenti movimenti della primavera araba. Gli fa eco Richard Perle che giudica “la reazione di Obama all’ondata di proteste del mondo arabo vacillante, debole e contraddittoria”, politica di cui la prima vittima sembra essere proprio il suo alleato principale nella regione: Israele, che più di ogni altra cosa ha paura della mancanza di una dottrina a Washington. Gerusalemme ha fatto capire i suoi dubbi all’America in un articolo di Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, che sulle pagine del Wall Street Journal ha evidenziato: “Sostenere alcune rivolte, a discapito di altre, non è una politica estera efficace. L’intervento della comunità internazionale in paesi senza un arsenale nucleare (come la Libia) convince paesi come l’Iran della necessità di affrettare la costruzione di armi nucleari, da usare come deterrente verso possibili interventi esterni”. Richard Perle critica anche l’intervento libico perché l’azione americana è stata tardiva: “Un’organizzazione più efficiente avrebbe permesso di sfruttare il momentum creato dall’azione a sorpresa dei ribelli. Aver aspettato diverse settimane ha creato una situazione di stallo, che ha aumentato il rischio di una guerra di logoramento con il potenziale di favorire estremisti islamici”. C’è una sola formula che l’America può seguire: “Agire in maniera più decisa, senza offrire spazio ai vari movimenti islamici e impedire all’Iran di muoversi liberamente tra le rivolte. Se all’America sta davvero a cuore Israele deve dare un deciso sostegno alle aspirazioni democratiche che la nuova generazione in medio oriente chiede e vuole ottenere”. Come ha evidenziato Natan Sharansky, l’unica pace su cui Israele può sperare è una pace con un governo democratico: “Le tirannie hanno bisogno di nemici, sfruttati dai dittatori come strumento di propaganda per mantenere un clima di ostilità e rimanere al potere”.
Luigi De Biase - " La crisi dei vecchi regimi dice a Erdogan che la sua Turchia non è ancora pronta per fare la potenza "
Recep Erdogan
Roma. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, ha appena chiuso una visita ufficiale in Iraq, dove ha firmato intese economiche con il governo di Baghdad e con la provincia petrolifera del Kurdistan, nella parte nord del paese. Il suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, si muove da giorni fra il Cairo e Damasco per gestire le crisi più preoccupanti della regione. E’ così che il governo di Ankara cerca di usare la propria influenza in un momento decisivo per l’area: da Tripoli a Damasco, ci sono rivolte e proteste che cambiano rapidamente il profilo del mondo arabo. La Turchia vuole la leadership ed è pronta a usare due risorse importanti per ottenerla: da una parte cultura e religione, dall’altra la forza delle sue imprese economiche. Il partito filoislamico di Erdogan, Giustizia e progresso (Akp), è al potere da nove anni. In questo tempo il paese ha migliorato i contatti con tutti i vicini d’oriente e il processo si è rafforzata nel 2009, quando Davutoglu ha preso la guida della diplomazia. Il ministro vuole annullare tutti i conflitti intorno ai confini per assicurare lo sviluppo economico del paese. Sulla carta la dottrina Davutoglu pare scontata, ma la Turchia è un paese diviso a metà fra l’Europa e l’Asia: quando i tuoi vicini si chiamano Iran, Iraq, Armenia e Siria, i problemi non si possono evitare. Anche per questo le ambizioni di Erdogan e Davutoglu hanno prodotto scontri con Israele, che teme una deriva islamista ad Ankara, e con gli Stati Uniti, che non possono perdere il più grande paese europeo della Nato. Non si può dire che il governo Erdogan abbia reagito tempestiavemente ai segnali di rivolta in arrivo da Tunisi, dal Cairo e da Tripoli. Il premier è parso da principio sorpreso e impacciato, ha cambiato più volte opinione rispetto ai giovani che occupavano le strade dell’Egitto e ha scelto infine di tenere una linea basata sull’attesa: è meglio aspettare che la guerra sia finita prima di scegliere con chi stare. Le crisi non sono state accolte positivamente in Turchia, un paese che aveva buone relazioni con il rais egiziano Hosni Mubarak e con il tunisino Ben Ali. Erdogan è riuscito a muoversi meglio di molti colleghi europei nel nuovo scenario. Alla vigilia dell’attacco contro la Libia, il premier diceva che la Turchia non avrebbe mai contribuito ai bombardamenti; ha cambiato posizione appena si è accorto che l’attivismo della Francia e della Gran Bretagna riduceva rapidamente il suo spazio di manovra. Il ministro Davutoglu ha spinto per affidare alla Nato la guida della missione militare, Erdogan ha garantito quattro navi e un sommergibile per sorvegliare la costa della Libia, il suo esercito ha preso il controllo di due infrastrutture decisive come il porto e l’aeroporto di Bengasi. Cinquecento feriti sono stati evacuati dai campi della Libia e si trovano oggi negli ospedali di Izmir. Il premier è coinvolto anche nelle trattative per il cessate il fuoco fra i ribelli e l’esercito di Muammar Gheddafi – i suoi inviati si sono già visti con le due parti in Libia e in Egitto. La diplomazia turca ha rovesciato il proprio ruolo in tre giorni: da zero compiti a mediatori della transizione. Questo successo, però, non è stato replicato altrove. Erdogan affronta al Cairo difficoltà molto simili a quelle del presidente americano, Barack Obama, e del premier di Israele, Benjamin Netanyahu. I candidati alle prossime elezioni egiziane, a partire da Mohammed ElBaradei, che ha conquistato il sostegno di molti analisti occidentali nei giorni della rivolta, sono convinti che il paese dovrebbe dare il via a una nuova fase nei rapporti con Teheran, il che non premia certo le vecchie alleanze con Ankara, Gerusalemme e Washington. Un’ambasciata iraniana dovrebbe aprire presto al Cairo, e i militari hanno già permesso alle navi della Repubblica islamica di entrare nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez. L’Egitto si prepara a seguire il modello turco – meno conflitti con i vicini di casa, come dice Davutoglu – ma questa scelta potrebbe penalizzare proprio Erdogan. I diplomatici turchi non se la passano meglio in Yemen, dove hanno proposto di guidare i colloqui fra gli uomini del presidente, Ali Abdullah Saleh, e l’opposizione, ma hanno ricevuto in cambio un caloroso “no grazie”. Davutoglu è stato in Siria negli ultimi giorni e ha incontrato il leader di Damasco, Bashar al Assad, che si è congratulato per i progressi raggiunti dall’Akp negli ultimi anni e ha detto che seguirebbe volentieri il modello della Turchia, ma ha chiesto all’ospite di non intromettersi negli affari siriani. Come dice Semih Idiz del quotidiano turco Milliyet, la Turchia deve ancora dimostrare di essere una grande potenza. I movimenti compiuti da Erdogan nelle ultime settimane danno in parte ragione all’analista: la politica dell’Akp si è mossa troppo velocemente rispetto alle p o s s i b i l i t à reali del paese. Il governo di Ankara si scosta dall’occidente e vuole uno spazio proprio – è una tendenza più vicina a de Gaulle che ad Ataturk – ma è costretto a indietreggiare sul piano diplomatico ogni volta che avanza da solo. Chi ferma le ambizioni di Erdogan sono proprio i governanti che lui vorrebbe conquistare, dalla Siria all’Egitto passando per l’Iran. La Turchia continua ad avere grande peso negli equilibri della Nato, un fatto evidente se si prenden in considerazione quel che è avvenuto nel corso dell’intervento militare in Libia: quando Ankara ha sposato la linea di quanti chiedevano un impegno più forte da parte dell’Alleanza, l’Europa ha raggiunto l’intesa. E’ all’interno di quella cornice che Erdogan ha ottenuto il risultato migliore dall’inizio di questa crisi. Nonostante gli scontri, il premier sa di non poter rinunciare al patto con l’occidente – anche per questo, ha recentemente respinto l’ipotesi di chiudere il comando Nato di Izmir. La sua Turchia non è ancora pronta a fare la superpotenza.
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