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David Braha
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Profughi in casa propria: il problema dei cittadini israeliani evacuati da Gaza 07/04/2011

Profughi in casa propria: il problema dei cittadini israeliani evacuati da Gaza
di David Braha


David Braha

Eventi drammatici, piccoli o grandi, si consumano ogni giorno in tutto il mondo. Guerre, uccisioni, rivolte, proteste; oppure terremoti, naufragi, inondazioni, tsunami… Non importa quanto queste storie siano fisicamente vicine o lontane da noi: i media di oggi ci hanno abituati a farcele vivere in tempo reale, mostrando immagini e testimonianze, trasmettendo voci e grida. Qualunque cosa avvenga, ed in qualunque angolo del globo essa avvenga, nel giro di pochi minuti è possibile avere sugli schermi dei nostri televisori, computer e telefonini la diretta in tempo reale degli avvenimenti più recenti. Ma cosa succede una volta che i riflettori si spengono, che i giornalisti se ne vanno, e che le telecamere vengono rivolte altrove? Semplice: le vittime del dramma continuano a patire le conseguenze della loro disgrazia in un clima di indifferenza mediatica – e, purtroppo, talvolta anche istituzionale – da parte di quegli stessi spettatori che fino al giorno prima osservavano cinicamente ogni fotogramma dei drammi altrui.
 È esattamente questo ciò che è successo agli ex-abitanti di Gush Katif, il blocco di insediamenti israeliani a Gaza che, nell’estate del 2005, venne evacuato, smantellato e distrutto a seguito della decisione da parte del governo di ritirarsi dalla Striscia. Si tratta di 1800 famiglie – approssimativamente 8800 persone – che dopo essere state per diverse settimane al centro dell’attenzione del mondo intero, con le loro proteste, le loro barricate, il loro rifiuto a lasciare le proprie case, sono stati abbandonati. Dai media in primo luogo; ma in gran parte anche da un paese che ha provato a superare uno dei più grandi shock sociali della sua storia nella maniera più classica: dimenticando.
 Dati alla mano, lo status di queste centinaia di famiglie si avvicina a quello di veri e propri profughi. O meglio, paradossalmente, di profughi nel loro stesso paese. Ad oltre il 70% di essi non è stata ancora fornita una dimora definitiva; la costruzione dei siti permanenti che dovrebbero accoglierli, in gran parte dei casi, non è ancora iniziata. Ciò ha così costretto migliaia di persone a vivere in agglomerati di roulotte ed abitazioni temporanee nei quali anche i servizi pubblici – come scuole, ospedali etc. – sono carenti tanto numericamente quanto qualitativamente. Come se non bastasse, i compensi e i rimborsi economici che lo Stato avrebbe dovuto versare loro sono stati pagati solo in parte, mentre il tasso di disoccupazione tra questa gente supera di gran lunga il doppio della media nazionale. Secondo Eliahu Mazza, ex-giudice della Corte Suprema Israeliana e capo della commissione d’inchiesta che indaga sulla questione, gran parte delle responsabilità ricadono sui diversi governi avvicendatisi dal 2005 ad oggi. Tuttavia, aggiunge Mazza, non bisogna dimenticarsi delle parziali colpe di molti degli stessi cittadini evacuati i quali, sentitisi traditi dallo Stato, si sono rifiutati di comunicare e di cooperare con le istituzioni al fine di facilitare le operazioni di ricostruzione e/o di sistemazione.
 Ma, a causa del pericoloso precedente che gli ex-abitanti di Gush Katif rappresentano, il problema che deriva da questa situazione non è soltanto sociale, ma anche politico. Nel quadro di un ipotetico accordo di pace tra israeliani e palestinesi infatti, Israele dovrà indubbiamente smantellare almeno parte degli insediamenti presenti oggi in Cisgiordania. Ma visti gli evidenti malfunzionamenti della macchina burocratica nel sistemare le 1800 famiglie di Gaza, come si può pensare di affrontare una situazione simile, con un numero di persone evacuate decisamente maggiore rispetto al 2005? E alla luce di questa esperienza, come si può pensare di potersi ritirare da alcuni insediamenti, senza incontrare un’opposizione ancora più decisa da parte della popolazione?
Si dice che il tempo rimargini tutte le ferite ma oggi, a quasi sei anni dal ritiro unilaterale da Gaza, gli ex-abitanti di Gush Katif sicuramente non sarebbero d’accordo con questa affermazione. Tuttavia negli ultimi mesi uno spiraglio di ottimismo si sta aprendo per questa gente. Meno di un anno fa infatti la Knesset ha passato una legge che garantisce il perdono a tutti coloro i quali opposero resistenza violenta all’evacuazione dalle proprie case. La legge, fortemente voluta dall’attuale Presidente della Knesset Reuven Rivlin, è stata accolta da molti come un primo passo per correggere le ingiustizie e gli errori commessi dallo Stato nei confronti dei cittadini evacuati. Inoltre si spera che entro la fine del 2011 il la questione venga definitivamente risolta con la costruzione in tempi brevi delle abitazioni permanenti che fino ad ora sono mancate. Riuscirà il Governo Netanyahu a mantenere la promessa? Questo è ancora tutto da vedere. Ma certo è che dopo sei anni Israele, un paese che ha da sempre considerato coesione e supporto sociale due punti fondamentali della propria identità, non può più permettersi di lasciare indietro proprio quei cittadini che hanno dovuto pagare sulla propria pelle il prezzo più pesante della democrazia, e della speranza di una pace che ancora tarda ad arrivare.


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