Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/04/2011, a pag. 46, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Ebrei, il popolo della modernità ".
Yuri Slezkine
Non abbiamo ancora letto il libro di Yuri Slezkine, ci riserviamo una critica quando l'avremo fatto. Romano conclude con queste parole la sua recensione : " Il movimento sionista e la creazione dello Stato d’Israele non sono al centro degli interessi dell’autore. Il nome di Ben Gurion non è mai citato. Quello di Golda Meir è citato soltanto una volta per ricordare l’entusiasmo con cui fu accolta dagli ebrei moscoviti quando arrivò in Unione Sovietica come primo ambasciatore dello Stato d’Israele. Forse Slezkin ritiene che l’ebraismo, con la nascita d’Israele, abbia perduto alcune delle caratteristiche che sono il tema centrale del suo libro. ".
Consigliamo ai lettori che fossero interessati all'argomento la lettura del libro Storia degli ebrei di Paul Johnson. Cliccare sul link sottostante per leggere la scheda di Libri Raccomandati
http://www.informazionecorretta.com/main.php?sez=300&cat=rubrica&b=31082&ord=author
Ecco l'articolo:
L a sterminata letteratura sull’Olocausto ha avuto l’effetto di oscurare un aspetto fondamentale della storia contemporanea. Abbiamo parlato molto di antisemitismo ricercandone le origini soprattutto nelle società della Francia, della Germania e della Russia tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Ma non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla straordinaria rinascita del popolo ebraico e ai suoi grandi successi nello stesso periodo. Non lo abbiamo fatto, probabilmente, perché temevano che la trattazione contemporanea dei due temi (rinascita e persecuzione) desse a qualcuno il pretesto di giustificare l’antisemitismo con argomenti capziosi. Ma il rapporto esiste ed è stato affrontato con una analisi particolarmente acuta da uno studioso americano, Yuri Slezkine, che può contare, per meglio affrontare questo tema, su tre vantaggi. Ha una nonna ebrea, una nonna cristiana e appartiene a una famiglia che proviene dalla Russia, vale a dire dal Paese dove agli inizi del Novecento vivevano 5,2 milioni di ebrei su un totale, nel mondo, di 8,7 milioni. In un libro apparso ora presso Neri Pozza (Il secolo ebraico, pagine 464, e 20), Yuri Slezkine sostiene che gli ebrei hanno avuto per molto tempo caratteristiche analoghe a quelle di altri popoli (in Europa e nell’impero ottomano soprattutto gli armeni e gli zingari), che esercitavano mestieri a cui i nativi, per ragioni culturali o religiose, erano ostili o impreparati. Nelle società prevalentemente rurali della Russia occidentale e della Polonia orientale (Bielorussia, Ucraina, Galizia), gli ebrei erano mercanti, prestatori di denaro, sensali d’affari, gestori di negozi, artigiani. Erano quindi, per usare un termine contemporaneo, maestri dell’economia terziaria. Il concetto non è nuovo ma Slezkine lo allarga con una lunga e affascinante descrizione antropologica delle differenze fra i «mercuriani» , seguaci del dio delle astuzie mercantili, e gli «apollinei» , seguaci del dio del sole e delle attività agricole. I due gruppi si detestano, esercitano una sorta di reciproca apartheid, sono ossessionati dal desiderio di preservare la loro rispettiva purezza. Ma hanno bisogno l’uno dell’altro e vivono così su due piani distinti e opposti: quello dell’odio e quello dell’interesse comune. Fra tutti i mercuriani gli ebrei sono i meglio attrezzati a fare i mestieri del terziario e a preservare la loro coesione. Hanno antiche tradizioni e una forte coscienza della loro identità, sono endogamici, alfabetizzati, allenati alle dispute giuridico teologiche, attenti alla cura del corpo e infine uniti da legami familiari e religiosi a gruppi lontani con cui possono creare utili reti d’affari. Sino a quando gli ebrei vivono in queste condizioni non è possibile parlare di diaspora. Appartengono al paesaggio della Russia zarista come i tedeschi del Baltico, i tatari della Crimea, i georgiani e gli armeni del Caucaso, gli azeri del Caspio. La loro condizione di popolo estraneo ma indispensabile cambia quando, nel corso dell’Ottocento, l’industrializzazione trasforma gli apollinei in potenziali mercuriani. Se tutti diventano capitalisti, lo spazio in cui gli ebrei sono chiamati a operare si allarga prodigiosamente. Se l’Europa diventa liberale, gli ebrei possono contare sulla graduale scomparsa delle interdizioni di cui sono stati vittime nel corso della storia. Da un mondo che diventa al tempo stesso capitalista e tollerante gli ebrei possono quindi trarre grandi vantaggi, come accade in Germania, in Francia, in Gran Bretagna, in Italia. Ma possono anche essere costretti alla partenza se lo Stato, modernizzandosi, assume, come in Russia, alcune delle funzioni che erano proprie delle comunità ebraiche: riscossione delle imposte, vendita degli alcolici, gestione dei rapporti commerciali con l’estero. Slezkine ricorda che fra il 1897 e il 1915 gli ebrei che lasciarono l’impero russo furono 1.288.000, di cui più dell’ottanta per cento erano diretti verso gli Stati Uniti. Usciti dal grande ghetto del recinto (la zona d’insediamento in cui erano confinati), gli ebrei possono finalmente mettere a frutto su scala molto più grande le virtù e i talenti che hanno sviluppato nel corso del tempo. In tutti i Paesi in cui hanno scelto di risiedere non vi è professione liberale, attività economica, impresa finanziaria e disciplina scientifica in cui la loro presenza al vertice della società non sia proporzionalmente molto superiore alla consistenza della comunità. I trionfi del capitalismo sono quindi anche i trionfi dell’ebraismo. Ma lo spirito di contraddizione e il gusto della dialettica, fortissimi nell’intelligenza ebraica, hanno un effetto apparentemente paradossale: quello di suscitare all’interno dell’ebraismo i maggiori avversari del capitalismo. Marx è convinto che ebraismo e capitalismo siano la stessa cosa. Gli ebrei rappresentano quasi un quinto di tutti movimenti politici rivoluzionari della Russia zarista, il 31 per cento dei delegati bolscevichi al primo congresso panrusso dei Soviet nel giugno 1917 e sono 23 sui 62 membri bolscevichi del Comitato centrale panrusso eletto dal secondo Congresso. Ma non appena l’Urss muore e la Russia diventa capitalista, gli ebrei russi tornano al capitalismo con una straordinaria prontezza e una stupefacente efficacia: sei dei sette maggiori oligarchi, compreso Mikhail Khodorkovskij, sono ebrei. Dovunque vi è modernità, quali che siano la sua forma e il suo volto, gli ebrei sono fortemente presenti perché, sostiene Slezkine, ne sono l’incarnazione. Il movimento sionista e la creazione dello Stato d’Israele non sono al centro degli interessi dell’autore. Il nome di Ben Gurion non è mai citato. Quello di Golda Meir è citato soltanto una volta per ricordare l’entusiasmo con cui fu accolta dagli ebrei moscoviti quando arrivò in Unione Sovietica come primo ambasciatore dello Stato d’Israele. Forse Slezkin ritiene che l’ebraismo, con la nascita d’Israele, abbia perduto alcune delle caratteristiche che sono il tema centrale del suo libro. Un dato statistico sembra confermarlo. Nel 1940 il principio dell’endogamia era ancora universamente rispettato e il tasso dei matrimoni misti per gli ebrei degli Stati Uniti era di circa il tre per cento. Nel 1990 aveva superato il cinquanta per cento.
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