Gli Usa iniziano il disimpegno dalla guerra in Libia analisi di Mattia Ferraresi, Paola Peduzzi, Pio Pompa
Testata: Il Foglio Data: 05 aprile 2011 Pagina: 1 Autore: Mattia Ferraresi - Paola Peduzzi - Pio Pompa Titolo: «Obama si sfila dalla campagna Nato prima che diventi poco 'cool' - A tutta Saif - La guerra in Libia si poteva evitare, bastava leggere i dispacci di al Qaida in Africa»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/04/2011, a pag. 1-4, gli articoli di Mattia Ferraresi, Paola Peduzzi titolati " Obama si sfila dalla campagna Nato prima che diventi poco 'cool' " e " A tutta Saif", a pag. II, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " La guerra in Libia si poteva evitare, bastava leggere i dispacci di al Qaida in Africa ". Ecco i pezzi:
Mattia Ferraresi - " Obama si sfila dalla campagna Nato prima che diventi poco 'cool' "
Mattia Ferraresi
New York. Dopo un fine settimana di fermenti diplomatici, gli Stati Uniti hanno iniziato le manovre per il disimpegno militare dalla guerra in Libia. Da un ruolo di comando – effettivo a prescindere dal maquillage nominale e dal protagonismo interessato di Parigi – l’America passa a una “funzione di appoggio” del comando Nato, come ha spiegato un ufficiale dell’Alleanza atlantica al New York Times. L’impegno della Turchia a trattare una tregua con Muammar Gheddafi e il riconoscimento dei ribelli da parte dell’Italia (ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha detto che il fronte dei ribelli è “il solo interlocutore legittimo” e non a caso domani sarà a Foggy Bottom per incontrare il segretario di stato, Hillary Clinton) offrono a Washington la cornice politica necessaria per far sembrare il ritiro un disimpegno strategico tutto sommato irrilevante per l’esito positivo del conflitto. Nei fatti le cose sono un po’ diverse. Delle operazioni militari ora si occuperanno principalmente Francia e Gran Bretagna, le cui risorse messe nel conflitto non sono paragonabili nemmeno sommate a quanto fatto dagli Stati Uniti in termini di mezzi, manovre, uomini e soldi impiegati per “proteggere la popolazione della Libia”, come da mandato Onu, ma anche per creare le condizioni per un regime change che non può certo essere compiuto manu militari ma rimane l’orizzonte ideale dell’Amministrazione Obama. Basta pensare che le manovre di ripiegamento americano dovevano iniziare, parola del capo dell’esercito, Mike Mullen, già mercoledì scorso ma per via delle pessime condizioni atmosferiche gli americani sono rimasti qualche giorno in più a fare ciò che Francia e Gran Bretagna e tutte le forze Nato non sarebbero state in grado di fare. Dai cieli della Libia sono scomparsi sabato gli Ac-10 Thunderbolt e gli Ac-130, i bombardieri che puntano gli obiettivi a terra, mentre domenica un centinaio di caccia sono tornati negli hangar; in due giorni le forze della coalizione occidentale sono diminuite dell’80 per cento e di aerei sopra la Libia ne rimangono 143, ma meno della metà di questi sono mezzi da combattimento. La maggior parte dei mezzi della coalizione può soltanto sorvegliare, fare ricognizioni e trasportare soldati che non possono atterrare sul suolo libico ed è anche per questo che sinora il 76 per cento delle operazioni belliche sono state fatte dagli americani. Dei 214 missili cruise lanciati sulle infrastrutture del regime di Gheddafi, soltanto sette non arrivavano da aerei americani, mentre su 600 bombardamenti totali, 455 sono stati fatti dagli Stati Uniti. Gli esperti militari occidentali dicono che senza la potenza di fuoco americana, le forze Nato potranno mantenere la sicurezza per al massimo 24 ore e su porzioni minime di territorio (ad esempio potranno controllare le singole città di Tripoli, Misurata e Ajdabiya ma al prezzo di perdere di vista l’intero Golfo di Sirte, dove ribelli e lealisti si muovono in modo decisivo). Numeri alla mano, il ritiro degli americani dal centro del ring conferma la formula lapidaria ed evangelica del columnist del New York Post Michael Goodwin: “In verità, senza gli Stati Uniti la Nato non esiste”. Quanto costa ritirarsi Anche la più umanitaria delle guerre alla lunga viene a noia agli occhi degli elettori e così, con una coincidenza molto fortunata (o ben calcolata), il giorno in cui Washington abbassa di una tacca il livello del suo impegno in Libia è lo stesso in cui il presidente Obama inizia la campagna per la rielezione. Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, dice che “il presidente non sta pensando alla campagna elettorale” ma a tutti i problemi attuali dell’America, primo fra tutti il conflitto in Libia; eppure agli osservatori non sfugge il credito politico che Obama spera di ottenere richiamando gli aerei. La Casa Bianca ha avuto buon gioco a presentare dall’inizio l’operazione come un’iniziativa europea benedetta da tutti i gradi della diplomazia sopranazionale, salvo poi farsi carico della fetta più importante della torta delle responsabilità. L’opinione pubblica americana non ha molte idee sulla Libia, ma quelle poche dicono che Gheddafi è un parente stretto del male assoluto e l’idea di sostenere i ribelli in un’iniziativa multilaterale, senza la prepotenza della campagna irachena, ha fornito a Obama una finestra di tempo per passare all’azione. Ora il presidente fa un passo indietro nel timore che il tempo giochi contro di lui, ma anche il ritiro ha un prezzo. Come dice l’analista Gideon Rose in un’intervista al New Yorker, “ritirarsi non è la stessa cosa che non essere intervenuti affatto: adesso ci sono dei costi in termini di reputazione, di strategia e molto altro”.
Paola Peduzzi - " A tutta Saif"
Paola Peduzzi
Milano. Il regime libico ha deciso di trattare non soltanto con le parole ma con gli inviati e i piani di transizione. Espugnare Bengasi non è possibile, cedere Tripoli nemmeno, “in mezzo” c’è l’essenza della campagna libica: “In mezzo” si combatte, nelle città del petrolio, come se a scontrarsi fossero due forze ribelli, non un esercito contro dei rivoltosi, per non essere riconoscibili dall’alto dagli aerei dell’Alleanza atlantica; “in mezzo” ci sono due negoziati aperti: uno lo guida la Turchia, l’altro i figli più occidentalizzati, si fa per dire, del colonnello Muammar Gheddafi – e forse entrambi convergeranno verso lo stesso esito, cioè una transizione dinastica. Con il suo attivismo, Ankara è riuscita a strappare la leadership dei negoziati a tutti gli altri paesi, Italia compresa. Ieri – per bocca del capo della Farnesina, Franco Frattini, che ha accolto il “ministro degli Esteri” dei ribelli – il governo italiano ha abbandonato Gheddafi, riconoscendo i ribelli di Bengasi come “unici interlocutori”, non escludendo l’ipotesi di rifornirli di armi e chiedendo la dipartita del colonnello e di tutta la sua famiglia. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che è da tempo molto risoluta nell’influenzare gli eventi di tutta la regione, non soltanto ha scandito le fasi dell’intervento della Nato – inizialmente Ankara era contraria, poi si è lasciata convincere chiedendo in cambio di potersi occupare di Bengasi, cioè della nuova Libia e dei suoi contratti petroliferi – ma adesso tenta l’impresa impossibile: far parlare visà- vis un emissario del regime con uno del Comitato dei ribelli. Obiettivo formale: il cessate il fuoco. Obiettivo principale: negoziare la transizione. Verso dove? Gli esperti non si muovono dagli scenari della prima ora: spaccatura del paese in due parti, passaggio di poteri a figure del regime accettabili nei consessi occidentali, con promessa di dialogo con i capi della rivolta. I figli di Gheddafi, come ha ricordato il New York Times ieri, ma come già si era capito con il via vai di emissari a Londra, hanno deciso di non lasciarsi scippare l’impresa di famiglia. Fino a qualche settimana fa, Saif al Islam, il figlio “riformatore” di Gheddafi, quello con gli occhiali e una gratitudine munifica nei confronti della London School of Economics, non era più considerato un interlocutore accettabile. Era lui che, con l’aria di chi sta leggendo il resoconto del cda di famiglia, diceva a quei “ratti” dei ribelli di Bengasi “stiamo arrivando”, “vi veniamo a prendere” e altre amenità simili – amenità che hanno giustificato l’intervento militare umanitario in sede Onu. Ma ora la guerra sta durando ben più di quanto la coalizione dei riluttanti voglia permettersi, una soluzione va negoziata, così Saif si allea con il fratello calciatore, Saadi, in vista di una transizione a una democrazia costituzionale “sotto la direzione di Saif” stesso, come scrive il New York Times. Contro i due, c’è la cordata oltranzista dei “fratelli cattivi”, Khamis e Mutassim: il primo è a capo della milizia più feroce nel reprimere il dissenso; il secondo è consigliere per la sicurezza nazionale, è a capo di un’altra milizia (non si sa mai) e già in passato si è scontrato con Saif per la successione al padre. Secondo molte fonti, Saif sta già guidando la transizione, anzi forse guidava già buona parte del regime quando Muammar era ancora saldo al potere: Musa Kusa, fedelissimo del regime, sarebbe volato a Londra lasciando Tripoli dopo aver perso la battaglia contro Saif (sono rivali da sempre, Musa Kusa sarebbe il falco, Saif il riformatore, ma queste etichette a oggi non hanno molto senso). Il più alto in grado tra gli emissari del regime che fino alla settimana scorsa si erano mossi per negoziare, Mohammed Ismail, è uno dei più anziani collaboratori di Saif. I ribelli di Bengasi hanno già fatto sapere che non hanno alcuna intenzione di accettare un qualsiasi negoziato con i membri della famiglia Gheddafi: se volete una soluzione pacifica, hanno detto, non ci deve essere più il clan del colonnello a negoziare. Sul campo le sorti dei rivoltosi sono accidentate, l’inesperienza si fa sentire e l’avanzata procede a rilento. Ma sul fronte diplomatico il vento tira dalla parte giusta: i leader di Bengasi sono ricevuti e interpellati a vario titolo da tutti, l’ipotesi degli armamenti non è stata del tutto esclusa e c’è anche spazio per dettare le condizioni di una tregua. L’appoggio dell’Italia arrivato ieri è la dimostrazione che il futuro della Libia non è più dalla parte di Tripoli. In più c’è la stanchezza della guerra, che si è fatta sentire quasi subito, così le aspettative possono anche essere ridimensionate, basta avere una soluzione in fretta. E se c’è un po’ di clan Gheddafi dentro, c’è sempre la scusa della transizione.
Pio Pompa - " La guerra in Libia si poteva evitare, bastava leggere i dispacci di al Qaida in Africa "
Pio Pompa
Non è affatto esatta l’affermazione secondo cui la comunità di intelligence avrebbe collezionato l’ennesimo fallimento facendosi cogliere impreparata dalle sollevazioni popolari che stanno trasformando gli equilibri politici del nord Africa e del medio oriente. Ciò sulla base di due fondamentali considerazioni: la prima riguarda le puntuali analisi trasmesse ai vari governi occidentali, specie durante la conflagrazione dei conflitti iracheno e afghano dopo l’11 settembre, sulla duplice strategia perseguita dal fondamentalismo islamico. Da un lato, creare un fronte interno al mondo arabo contro quei regimi ritenuti collusi con l’occidente, e da esso sostenuti anche in chiave antiterroristica, fino a determinarne con ogni mezzo, a partire soprattutto dalle rivolte popolari, il rovesciamento. Tutto questo lo si evinceva chiaramente non soltanto dai proclami succedutisi nel tempo delle icone qaidiste, Bin Laden e al Zawahiri, ma dai documenti e dalle riviste diffusi in rete dalla emergente intellighenzia islamista spesso formatasi nelle università occidentali. Dall’altro insistere nell’offensiva terroristica portandola nel cuore dei paesi occidentali, specie quelli maggiormente impegnati nella lotta globale al terrorismo, per aumentarne i timori e le divisioni interne riapertesi dopo l’ondata emotiva seguita all’attacco alle Torri gemelle. La seconda attiene alla certezza, anch’esa espressa con estrema puntualità e chiarezza, che una volta calato il sipario sul conflitto iracheno le potenze mondiali si sarebbero trovate, irrimediabilmente, a doversi confrontare con la drammatica realtà di un continente, per anni, colpevolmente dimenticato dall’occidente: l’Africa. Una realtà fatta di eccidi e di guerre sanguinose, dentro cui hanno proliferato l’integralismo islamico e la politica di rapina dei dittatori al potere. Tant’è che una prima timida reazione, anch’essa puntualmente disattesa, la si ebbe nel marzo del lontano 2005 con la pubblicazione del “Report of the Commission for Africa” presieduta da Tony Blair. Non solo. Altri segnali sulla crucialità dello scacchiere africano per i futuri equilibri internazionali furono posti in evidenza iniziando dalla silenziosa e capillare penetrazione economico-finanziaria della Cina al primo posto nel volume degli scambi commerciali con diversi paesi di quel continente, compresa la poverissima Somalia, creando contestualmente linee di credito che ne hanno aumentato paurosamente il debito estero rendendoli praticamente dipendenti da Pechino. La Libia è soltanto l’esempio più evidente di questi fatti: la sua deflagrazione, sia pure incerta nel quando, era da tempo sotto gli occhi. Rimanere sorpresi, dopo aver scientemente voltato la testa, appare come una boutade di cattivo gusto. Una visione più responsabile e complessiva avrebbe consentito alla politica e alla diplomazia di evitare il ricorso alle armi. Le questioni umanitarie richiedono impegno e progetti di lungo respiro. Un conflitto bellico non risolve il problema e può avere l’unico effetto di cambiar spalla al fucile.
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