Con la ricorrenza, il prossimo 11 aprile, dei cinquant’anni dall’inizio a Gerusalemme del processo ad Adolf Eichmann, l’organizzatore a livello burocratico dello sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti, la storica americana Deborah Lipstadt ha appena pubblicato un libro (The Eichmann Trial, Nextbook/Schocken) con l’intento di ricostruire le fasi del processo, mettendo in discussione i giudizi espressi da Hannah Arendt con gli articoli scritti all’epoca, da inviata, per "The New Yorker" e poi raccolti nel volume Eichmann a Gerusalemme (1963). La Lipstadt, pur riservando alla filosofa un solo capitolo del libro, lancia nei suoi confronti accuse molto dure, tanto da far sembrare il suo un vero e proprio "processo ad Hannah Arendt". La storica ne critica in particolare la definizione di Eichmann come semplice "burocrate" e come uomo "terribilmente normale" (e lo descrive piuttosto come «uomo colto che sposò l’idea della causa razziale»). Le accuse più gravi, accompagnate da giudizi piuttosto gratuiti sulla persona (la Arendt sarebbe stata "frivola" e "crudele"), sono tuttavia quelle di aver minimizzato l’antisemitismo, fino ad assolverlo nei fatti, e di non essere stata una convinta sionista.
Le critiche della Lipstadt in realtà non sono nuove e tuttavia meritano un approfondimento. La posizione della Arendt rispetto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata chiara fin dal 1940, quando ancora si trovava in Francia a fianco di un convinto sionista come Erich Cohn-Bendit: secondo lei quella soluzione, il "sogno" di Theodor Herzl, non avrebbe risolto il problema delle minoranze ebraiche in Europa. Di fronte alla minaccia delle deportazioni, meglio sarebbe stata, una volta sconfitto il nazismo, la creazione di un’unione di Stati al cui interno gli ebrei potessero godere del riconoscimento di minoranza nazionale e di una rappresentanza in un Parlamento europeo. Giunta negli Usa nel 1941, alla Arendt venne affidata su "Aufbau", un giornale per gli esuli ebrei di lingua tedesca, una rubrica per trattare questioni attinenti la politica ebraica: evidentemente per stima, ma anche perché, come ha scritto opportunamente la studiosa arendtiana Antonia Grunenberg, «intellettuale sionista alquanto dotata, energica e bellicosa». Certo è che dopo aver preso le distanze, nel 1942, dalla "Conferenza Biltmore", con la quale si chiedeva la costituzione di uno Stato israeliano con minoranza araba, la sua posizione fu sempre più isolata. E a poco servì la creazione del "Gruppo dei giovani ebrei", insieme a Josef Mair, anche perché lotte e rancori all’interno del movimento sionista erano allora all’ordine del giorno: non a caso la Arendt e Mair si rivolsero polemicamente «a tutti coloro che sanno che la lotta per la libertà non può essere guidata né da notabili né da rivoluzionari internazionali».
Negli ’47 e ’48 la filosofa conobbe Judah Magnes, «leggendario capo sionista» (così Grunenberg), già rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme e propugnatore di una federazione arabo-israeliana. Condividendo con lui la critica all’establishment sionista, la Arendt lavorò come sua intermediaria e persona di fiducia negli Usa. Insomma è davvero difficile condividere il giudizio di Gershom Scholem, fatto proprio dalla Lipstadt, per cui la filosofa «mancava di amore per il popolo ebraico». Quanto ad Eichmann, le questioni gravi messe in luce dalla Arendt furono due: il ruolo dell’accusato in relazione agli eventi e il giudizio che si dovesse dare sull’operato degli stessi ebrei e sulla politica delle loro organizzazioni durante le fasi attuazione dello sterminio. I suoi articoli provocarono subito critiche durissime da parte dell’intera comunità ebraica (le stesse riprese oggi dalla Lipstadt nel suo libro).. Con la definizione di "banalità del male", secondo i suoi critici, avrebbe mirato alla banalizzazione del crimine. In realtà, come essa stessa scrisse rispondendo a Scholem che l’accusò di aver creato uno "slogan", secondo la Arendt «il male è sempre e solo estremo, non "radicale", e le motivazioni che spingono al male non vanno ricercate sul piano del profondo e del demoniaco. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero, precisamente perché si propaga in superficie come un fungo. Solo il bene ha profondità e può essere radicale».
In questo senso l’aver fatto di Eichmann un "mostro", l’averlo posto sul banco degli imputati con intenti che non erano solo giuridici (affrancare il popolo ebraico dal ruolo di vittima), per la Arendt rappresentò una commistione non salutare tra politica e giustizia. La storia potrebbe anche averle dato torto, ma da qui a dire, come fa ora la Lipstadt – non storica ma polemista –, che la filosofa ha fornito allora «una versione dell’Olocausto in cui l’antisemitismo ha un ruolo minoritario», ce ne corre.