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Il Foglio Rassegna Stampa
02.04.2011 Israele: analisi, commenti, previsioni
di Giulio Meotti, Alberto Mucci, Ariel David

Testata: Il Foglio
Data: 02 aprile 2011
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti, Alberto Mucci, Ariel David
Titolo: «La scelta di Israele-Per capire la paura di Israele basta contare i missili puntati-Le tre regole di Yossi Klein Halevi per sopravvivere alle rivolte-Perchè Israele finirà per pagare il onto della primavera araba»

Un numero del FOGLIO molto accurato, quello di oggi, 02/04/2011,  per quanto riguarda Israele, dal pezzo in prima fino alla quarta quasi interamente dedicata allo Stato ebraico.
Li riprendiamo tutti:

" La scelta di Israele "

Roma. “Il pessimismo è un lusso che un ebreo non può concedersi”, diceva Golda Meir, che un paio di cose attorno a Israele e alla politica in medio oriente le sapeva. Oggi però Israele ha solidi motivi per essere pessimista. Sempre circondato da un ambiente ostile, da un accerchiamento di regimi arabi che non hanno mai firmato una pace vera, ora vede crollare anche quegli spicchi di panorama che non erano pregiudizialmente e dichiaratamente governati da nemici mortali. C’era un’architettura di sicurezza fatta di nazioni che da tempo non hanno più al primo posto della loro agenda politica l’aggressione a Israele – e che hanno raggiunto questa condizione di neutralità soltanto dopo essere state battute severamente in guerra e dopo essere scese sul terreno del compromesso politico con Gerusalemme. Questa architettura sta sparendo, travolta dai giovani arabi che aspirano a migliori condizioni di vita, a società più aperte e a sistemi politici meno corrotti. Il caso macroscopico è naturalmente l’Egitto. Il paese degli accordi di pace firmati a Camp David si è sbarazzato a febbraio di Hosni Mubarak, che tra le altre cose si era assunto il compito coraggioso di esserne garante. Per quanto fosse dispotico e imbroglione con gli egiziani, il rais e il suo vice ombroso ai servizi segreti, Omar Suleiman, erano la dimostrazione che un paese arabo può vivere in pace con Israele e collaborare a lungo alla causa della sicurezza comune contro lo stesso nemico, il fondamentalismo islamico. Dal 2005, da quando Israele si è ritirato per decisione unilaterale dalla Striscia di Gaza, è (era?) il governo del Cairo a occuparsi del contenimento di Hamas sul lato sud. Ora dall’Egitto arrivano cattive notizie: l’amministrazione ad interim del paese, che in teoria scade fra soli cinque mesi e si dovrebbe occupare soltanto di migliorare la Carta costituzionale e di preparare il paese alle prime, grandi elezioni democratiche, sta rivoluzionando la politica estera, promette aperture diplomatiche al regime di Teheran e anche aperture materiali, altrettanto preoccupanti, nella barriera con la Striscia di Gaza. E quello che sta succedendo al Cairo non è che un esempio. Eppure, il crollo di quest’architettura di sicurezza era ineluttabile. Non si poteva davvero pensare che i regimi arabi più omeno autoritari reggessero per l’eternità, se non altro perché l’età media dei rais malfermi o già andati è tra i settanta e gli ottant’anni. Contare su Mubarak, che per quanto tetragono sull’accordo di pace era pur sempre ottantenne e gravemente malato, non era più da tempo un’opzione reale. Il quotidiano Haaretz scrive che Israele ha bisogno di lanciare un’offensiva diplomatica preventiva. “Non c’è bisogno di essere dei geni per capire che Israele deve pensare a un’iniziativa per dare una bella rimescolata alle carte in un gioco che altrimenti è sul punto di perdere”. Eppure, per ora prevale l’attendismo. Il lento sgocciolio quotidiano dei brutti presentimenti: la metà libera della Libia è diventata terreno di scorribande per estremisti che si mescolano facilmente ai ribelli aiutati e protetti dall’occidente, in Libano il governo è di colore Hezbollah, lo Yemen è diventato un’incognita oscura, persino la rivolta in Siria promette un punto d’arrivo più preoccupante dello status quo che c’era alla partenza. Non mancano gli ottimisti coriacei. La leggenda militare Ehud Barak, oggi ministro della Difesa, dice che “sul lungo periodo” il vento di cambiamento che soffia sui paesi arabi sarà un fatto “estremamente positivo”. Il presidente di Israele, Shimon Peres, ha scritto un lungo editoriale sul quotidiano britannico Guardian per dire che queste rivoluzioni non sono uno scontro di civiltà, ma uno scontro tra generazioni: “I giovani vogliono pace e progresso nella nostra regione, e noi in Israele diamo il benvenuto a queste sollevazioni”. Ehud Barak e Shimon Peres: sono due che appartengono alla vecchia guardia, hanno combattuto per la fondazione e la difesa del paese fin dai primi momenti, non sono due scrittori benintenzionati di romanzi. Non possono essere accusati di ottimismo ingenuo, ma nella loro vita ne hanno viste abbastanza per sapere che Israele se la caverà costruendo un nuovo schema di sicurezza attorno a sé, con nuove alleanze e anche – dove servirà – con nuove pressioni e nuove minacce, a partire dalla questione sempre aperta con i vicini palestinesi, sia in Cisgiordania sia a Gaza. Con lo stesso spirito pragmatico e pionieristico che soffiava sui padri fondatori di Israele e senza il quale il paese non sarebbe nemmeno mai nato.

Giulio Meotti: " Per capire la paura di Israele basta contare i missili puntati"

 Roma. E’ impossibile prevedere che cosa cambierà per Israele, strozzato in mezzo allo straordinario movimento rivoluzionario che investe il medio oriente. Un buon metro di giudizio è sempre stato contare il numero di missili puntati verso lo stato ebraico. Il potere di morte nella regione è salito drammaticamente. Da Gaza è stato appena lanciato un missile iraniano a dieci chilometri da Tel Aviv. Non arrivavano così vicino dal 1991, quando a lanciarli era Saddam Hussein. Da Gaza fino a tre anni fa i terroristi riuscivano al massimo a colpire Sderot, ad appena tre chilometri dalla Striscia. Poi sono arrivati ad Ashkelon (20 km), Beersheba (40 km), Ashdod (31 km), Rehovot (42) e adesso Rishon Lezion (58 km). La prossima sarà Tel Aviv (68 km). E Gerusalemme (74 km). Da nord Hezbollah è più letale di Hamas. E’ notizia di ieri che i terroristi libanesi hanno a disposizione 550 bunker e 40 mila missili. In pratica tutto il territorio d’Israele è a tiro dei missili islamisti. La nuova ondata di cannoneggiamenti, la più intensa dalla fine dell’operazione “Piombo Fuso” a Gaza, giunge a meno di una settimana dal raid con cui un commando israeliano ha intercettato la nave Victoria Portava dall’Iran un letale carico di obici da mortaio, sistemi radar e missili antinave. La bomba a Gerusalemme vicino all’autobus numero 74 e prima ancora la strage della famiglia a Itamar sono state un ritorno drammatico al terrorismo islamista che ha fatto duemila morti nella Seconda Intifada. Nell’intelligence israeliana si sussurra che l’Iran attenda soltanto l’ordine dell’ayatollah Ali Khamenei per annunciare l’atomica. E sui media israeliani si inizia a parlare di “perdita della deterrenza” da parte di Gerusalemme. Fino alla caduta di Hosni Mubarak in Egitto, le minacce a Israele coincidevano con quelle ai regimi arabi: Iran e islam politico. Con la caduta di questi regimi sono in discussione tre decenni di calma relativa fra vicini. Come ha detto l’esperto di medio oriente Walid Phares, “Israele sarà scosso da questo moto in maniera estremamente positiva o estremamente negativa”. Dipende da che cosa uscirà dal vaso di Pandora delle rivolte. I segnali non sono incoraggianti. “Dimenticatevi della democrazia, Israele vuole un medio oriente governato dai generali”, ha scritto il maggiore quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Purtroppo la storia ha dimostrato che ciò che vogliono i popoli arabi non coincide spesso con ciò che è bene per Israele. Il medio oriente di oggi è come l’Iran del 1979 e i territori palestinesi del 2006: molte parole su liberalismo e democrazia e nei fatti anarchia, morte e islamismo. Purtroppo l’islam politico si è rivelato l’unica alternativa ai dispotismi e ora si parla di “squareocracy”: autocrazia della piazza araba. In Egitto, dove si è visto che non erano solo fiori e Facebook, un alleato di ferro ha lasciato il passo a una transizione dominata dai Fratelli musulmani, madrina dell’alveo islamico antisemita globale, incluso Hamas. L’attuale ministro degli Esteri del Cairo, Nabil el Araby, fu quello che a Camp David criticò Sadat per il trattato di pace con GerusalemmeOggi è il suo momento. A nord Hezbollah domina il Libano e la Turchia post kemalista ha stretto rapporti senza precedenti con la Siria. Le visite reciproche fra il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, e il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, sono molteplici, i trattati aumentano e il sostegno di Ankara a Teheran contro le sanzioni dell’occidente è evidente quanto l’incitamento contro Israele. Per la prima volta da “Settembre Nero” trema il regno di Giordania, che ha richiamato al potere noti personaggi antisraeliani come Khaled al Karaki. In Siria lo spettro di Hama, la roccaforte islamica distrutta dal padre di Bashar el Assad, Hafez, nel 1982, scuote il potere baathista e il Golan, strategico per la sicurezza israeliana. Le voci di una riunificazione fra Hamas e Fatah lasciano prefigurare, nella peggiore delle ipotesi, che il confine più stretto e fragile di Israele, i nove chilometri che separano Netanya e Qalqilia, possa finire nelle mani dei tagliagole. C’è un detto arabo che sta a significare come Netanya sia la gola sottile e più esposta di Israele: “Quando vi impiccheremo, vi impiccheremo per Netanya”.

Alberto Mucci: " Le tre regole di Yossi Klein Halevi per sopravvivere alle rivolte"

 Roma. Negli ultimi mesi di rivolte, rivoluzioni e scontri in medio oriente il silenzio della politica israeliana si è fatto sentire. Per Yossi Klein Halevi, senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme e commentatore ospitato su molti media internazionali, il silenzio è però la migliore politica che Gerusalemme possa adottare, in un momento in cui “il mondo arabo sta affrontando i fallimenti della sua struttura morale”. Parlando con il Foglio, Halevi traccia tre punti cardine che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe perseguire per destreggiarsi tra vecchi dittatori, piazze in rivolta e un panorama politico in mutamento. Primo. Tenere un profilo basso e farsi notare il meno possibile. I manifestanti arabi, con grande sorpresa, hanno citato più Jan Palach, l’eroe della ribellione cecoslovacca del 1968, che noti estremisti del jihad. Dalle piazze non si sono levati slogan anti israeliani e gli unici a far riferimento allo stato ebraico sono stati i dittatori (in modo a dir poco grottesco) che non hanno fatto mancare la solita retorica sulla cospirazione sionista. “Il mondo arabo sta sicuramente maturando – continua Halevi – e bisogna evitare in qualsiasi modo che le rivolte prendano una via anti israeliana”. Ma restare in secondo piano non significa essere passivi.C’è un detto in Israele che recita: “Finché i razzi di Hamas non giungono sugli asili nido è meglio stare a braccia conserte”, ed è su queste linee che sembra improntata la politica del premier Netanyahu, anche dopo gli ultimi razzi lanciati da Hamas sul territorio israeliano. Secondo. Bisogna guardare ai cambiamenti in medio oriente con ottimismo, mantenendo però una realistica cautela. “Israele non è l’occidente, e non può illudersi sul ruolo democratico dei Fratelli musulmani come fanno i governi occidentali: l’Egitto è un vicino potente e uno dei pochi paesi arabi con cui ha firmato una pace, perderlo sarebbe una tragedia”, dice Halevi. La formula è perciò “cauto ottimismo” anche se, nel suo silenzio, Gerusalemme segue con apprensione ognimossa, ogni dichiarazione e ogni sotterfugio che prende forma al di là del Sinai. Terzo. Israele non può rimanere fermo a guardare, deve dare un segnale di sostegno alle piazze arabe. E’ troppo presto per capire in che direzione andranno i cambiamenti nel mondo arabo ma c’è anche la possibilità che si sviluppino a favore di Israele. Secondo Halevi la carta migliore da giocare è quella palestinese. Le popolazioni arabe hanno sempre tenuto alla questione palestinese più dei dittatori che li governavano, questo Israele lo sa e deve mostrare, con una mossa forte e decisa, la sua volontà “di risolvere il conflitto con la Palestina”. Nelle piazze deve trapelare il messaggio che “Israele è a favore di una soluzione che crei due stati, che Israele vuole cessare l’occupazione, pur legittimadi parti della Cisgiordania a condizione che i palestinesi accettino il diritto di esistere di Israele”. Yossi Klein Halevi fa un passo in più e spiega che fino a poco tempo fa non sarebbe stato a favore di un nuovo blocco unilaterale (senza un accordo con i palestinesi) degli insediamenti, ma adesso auspica che il governo israeliano fermi la costruzione di altri settlement: “Questa decisione manderebbe un chiaro segnale al mondo arabo”. Non è però una mossa facile. Netanyahu ha e ha avuto grandi problemi con i suoi alleati di governo, i partiti legati agli ambienti ultraortodossi israeliani, che si oppongono a un nuovo blocco e qualsiasi politica che possa essere letta come una concessione. Soprattutto alla luce dell’insuccesso politico dell’altro tentativo: dieci mesi di congelamento di nuove costruzioni, “snobbato dalla comunità internazionale”. Halevi non è inebriato di ottimismo, conosce i rischi, e li elenca: “I dittatori rimasti sono quelli più vicini all’Iran, e se i nuovi governi del dopo rivolta si allineassero con la Repubblica islamica si realizzerebbe il peggior incubo per Israele”. Perché se è presto per trarre giudizi e conclusioni sui futuri sviluppi in medio oriente, i problemi certi per Israele si possono riassumere in tre parole: “Iran, Iran e ancora Iran”.

Ariel David: " Perchè Israele finirà per pagare il onto della primavera araba "

 Gerusalemme. Una nuova guerra con Hamas e forse con l’Egitto. La fine della calma sul fronte siriano. Un’egemonia iraniana dilagante. Questa è soltanto una parte di ciò che Israele si aspetta dalle rivolte che stanno cambiando il volto del medio oriente. Gerusalemme osserva con senso d’impotenza e frustrazione gli stravolgimenti politici delle ultime settimane: impotenza perché Israele sa di non poter influenzare l’esito degli scontri interni al mondo arabo e frustrazione per una politica americana che molti qui giudicano controproducente. Gli esperti israeliani interpellati dal Foglio ritengono che finora l’Iran sia il grande vincitore della crisi dei regimi dittatoriali nella regione. Con la caduta di Hosni Mubarak, l’Egitto alleato di Israele e degli Stati Uniti “è diventato, nell’ambito del conflitto con l’Iran, al meglio neutrale e al peggio un nemico”, afferma Barry Rubin direttore del Global Research in International Affairs Center. Nel breve termine, Rubin prevede la fine delle sanzioni del Cairo contro Hamas e la crescita del contrabbando di armi tra il Sinai e la Striscia di Gaza, controllata dall’organizzazione islamista. “Questo porterà molto probabilmente a una nuova guerra tra Israele e Hamas entro i prossimi due anni – dice Rubin – e non si può escludere un intervento egiziano”. La fine del trattato di pace firmato nel 1979 è la vera grande paura d’Israele, e pensare che in Egitto i militari bastino a tenere a bada i Fatelli musulmani e le altre forze estremiste potrebbe rivelarsi un errore. “Non si può supporre che l’esercito sia moderato e pragmatico: molti ufficiali sono nazionalisti radicali e islamisti, e molti pensano che l’Egitto uscirebbe vittorioso da una guerra con Israele”, dice Rubin. Per questo Gerusalemme dovrà ora rivedere i suoi piani militari, rinforzare le difese, ora quasi inesistenti, sul lungo confine egiziano e rimpolpare i contingenti nel sud. Ma tutto questo ha un prezzo, ricorda il generale Giora Eiland, consigliere per la sicurezza nazionale all’epoca del premier Ariel Sharon. Grazie al trattato con l’Egitto, Israele ha potuto ridurre il budget della difesa dal 30 per cento del pil nel 1974 all’attuale 7 per cento. “Questa è una delle ragioni del successo dell’economia israeliana negli ultimi anni, ma un aumento delle spese militari avrebbe un impatto immediato”, dice Eiland. L’Egitto non è l’unica grana per Israele. Il governo teme che il leader siriano Bashar el Assad usi la sua influenza sull’Hezbollah libanese per aprire un nuovo fronte come distrazione dalle proteste interne che continuano a essere molto violente. Anche se Assad è il migliore alleato di Teheran, il governo israeliano non sa se augurarsi la fine del regime degli alawiti, minoranza vicina allo sciismo che da decenni governa la Siria. “Quando lavoravo con Sharon, molti premevano perché Israele cercasse di rimuovere Assad – ricorda Eiland – Sharon rispondeva: siete matti? Le uniche alternative sono un regime estremista sunnita legato ad al Qaida o un governo democratico che si avvicinerà agli Stati Uniti per costringerci a restituire il Golan”. Se la permanenza di Assad al potere sembra dunque essere il minore dei mali per Israele, ancora più importante è salvaguardare i regimi moderati rimasti in piedi e bloccare la penetrazione iraniana nel Golfo persico, che già si prefigura con la rivolta sciita in Bahrein. Su questo punto Gerusalemme non ha molte carte da giocare, ma si aspetta di più da Washington, sia sull’opposizione all’Iran, sia sull’appoggio agli alleati. Eli Shaked, ex ambasciatore d’Israele al Cairo, ritiene che l’abbandono di Mubarak sia stata una mossa “disastrosa” da parte dell’Amministrazione Obama. “Hanno perso un amico e un alleato come Mubarak, ma non si sono certo guadagnati l’amore del popolo egiziano”. Ora tocca agli Stati Uniti “salvare” i regimi di Giordania, Arabia Saudita e del Golfo. “La democrazia si costruisce dal basso e nel tempo tramite una forte classe media, una stampa libera e un’economia di mercato: tutte cose che in questi paesi non esistono – dice Shaked – pensare che delle democrazie possano sostituire questi regimi è soltanto un sogno”.

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