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Il Foglio Rassegna Stampa
31.03.2011 Giordania, il timore che scoppi la rivoluzione
Cronaca di Tatiana Boutourline

Testata: Il Foglio
Data: 31 marzo 2011
Pagina: 6
Autore: Tatiana Boutourline
Titolo: «Cherchez la regina Rania»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 31/03/2011, a pag. IV, l'articolo di Tatiana Bouturline dal titolo " Cherchez la regina Rania ".


Tatiana Butourline, Rania e Abdallah II di Giordania

Il 7 febbraio re Abdullah II di Giordania ha festeggiato dodici anni di regno, i cartelloni lo ritraggono sorridente. Ma è stato un inverno difficile, il più inquieto dalla sua investitura, e la primavera non promette nulla di buono. I venerdì della collera di Amman erano stati finora i più tranquilli nel tempestoso panorama regionale, ma una settimana fa un manifestante è morto e più di cento persone sono state ferite. Il governo ha annunciato che d’ora in avanti i contromanifestanti pro regime responsabili delle violenze non saranno più autorizzati a riunirsi nella capitale. Il re ha invocato un’accelerazione delle riforme e premuto sul tasto della solidarietà nazionale. Ma ad Amman l’illusione di rappresentare l’eccezione nello sconquasso degli equilibri regionali è stata infranta. Islamisti, associazioni professionali, ex militari, leader tribali continuano a protestare e il Comitato per il dialogo voluto da Abdullah si sta arenando defezione dopo defezione. “Preoccupazione non è una parola corretta per la situazione che stiamo vivendo.
C’è nell’aria il senso che tutto potrebbe esplodere da un momento all’altro”, ha scritto Fahed al Khitan, editorialista del quotidiano al Arab al Yawn. Le rivolte a Deraa, in Siria, sono a un passo dal confine con la Giordania e lì i legami tra i clan siriani e giordani sono molto forti, il contagio può essere immediato. Gli analisti americani dicono che il paese non ha ancora raggiunto il punto di massima tensione: il segretario alla Difesa, Bob Gates, è andato a rassicurare l’alleato giordano, ma l’effetto domino è rapido, non fa sconti a nessuno. La crisi in Giordania ha picchiato duro.
La crescita economica si è più che dimezzata dal 7,6 per cento del 2008 al 3,4 dello scorso anno. Secondo i dati governativi la disoccupazione è intorno al 13 per cento, ma stime non ufficiali la attestano vicino al 30. La bolla immobiliare che aveva riempito di gru il cielo di Amman è scoppiata, buona parte degli investitori del Golfo persico è fuggita. La Borsa di Amman ha perso milioni di dollari e nel frattempo Moody’s ha retrocesso i bond giordani come già aveva fatto con quelli egiziani. “Per riprenderci ci vuole rigore, rigore e ancora rigore fiscale”, insistono i consiglieri economici di re Abdullah. Ma a Maan e Keraq le tribù hanno gridato contro il carovita, la corruzione e la stagnazione degli stipendi nel pubblico impiego.
I veterani dell’esercito si sono uniti alle proteste. “Anche i soldati sono cittadini – ha detto l’ex generale Ali Habashna – La Tunisia e l’Egitto ci hanno aperto gli occhi”. L’iniziale assenza, nelle proteste, degli attivisti giordano-palestinesi (in contrapposizione ai transgiordani, una distinzione seminale in Giordania) ha prestato il fianco a facili ironie. Per una settimana il ritornello è stato: a loro importa soltanto del Libano, di Gaza e soprattutto di Israele. Poi sono arrivati anche i Fratelli musulmani del Fronte d’azione islamico divisi tra la fazione tradizionalista e quella più radicale vicina ad Hamas. Accompagnati dagli oppositori di sinistra. Gli slogan si sono fatti più radicali. La piazza ha chiesto la revisione della legge elettorale (che penalizza i cittadini palestinesi rispetto a quelli transgiordani) e la dissoluzione del Parlamento. “Vogliamo una monarchia costituzionale”, si leggeva sui manifesti. Il re ha risposto stanziando un pacchetto da 550 milioni di dollari, ha ripristinato i sussidi sul carburante e i generi di prima necessità e alzato gli stipendi dei dipendenti pubblici. La piazza ha continuato a rumoreggiare.
Abdullah ha destituito un primo ministro e ne ha nominato un altro. “Voglio riforme reali – ha ordinato – e le voglio velocemente”, ha ripetuto quando si è riunito il nuovo esecutivo. Ma il fronte del dissenso non è stato domato. Poi si è messa di traverso anche Randa Habib, corrispondente dell’Afp, in Giordania da quando aveva vent’anni, vicinissima alla famiglia reale. “Il malcontento popolare – era l’apertura del suo dispaccio – ha preso una piega inaudita con le critiche alla regina Rania accusata di corruzione dalle maggiori tribù”. Trentasei leader tribali hanno scritto una lettera aperta a re Abdullah: la Giordania sta vivendo una “crisi di autorità” e il regno potrebbe essere soggetto a una sollevazione popolare. Responsabile di questo malessere è “l’interferenza di coloro che non hanno poteri costituzionali”: “gli uomini d’affari corrotti che non si curano dell’interesse nazionale” e “la famiglia Yassin”, ossia la regina e il suo clan. Non è un segreto che la bella Rania che incanta l’occidente con la sua eleganza e il suo impegno umanitario abbia nemici in patria.
Agli occhi di una parte dei “giordani puri” (i transgiordani) sconta l’origine palestinese e il sospetto di voler trasformare la Giordania nel cosiddetto “Hotel Hashemite Palestine”. S’insinua che tra il 2005 e il 2010 abbia aiutato 78 mila palestinesi a ottenere la cittadinanza giordana. A settembre Rania ha festeggiato i suoi quarant’anni tra le dune di Wadi Rum. La festa è stata descritta come il trionfo dell’opulenza e i paralleli scontati sono volati di bocca in bocca: Rania come Maria Antonietta, Rania a Wadi Rum come lo scià a Persepolis.
Siamo ancora leali al trono – hanno detto i 36 capi tribali – ma Abdullah deve impedire a sua moglie e alla sua famiglia di abusare della loro posizione, o il trono sarà in pericolo. E’ stato rotto un tabù, ha spiegato Habib, e per Abdullah è stato come ricevere una pugnalata. Ma chi il vero Abdullah? Il leader populista con la barba finta e gli occhiali che esplora il paese e mette alla prova i suoi amministratori? Un liberista autoritario? Un riformatore mancato? O un sovrano che accontenta una volta gli uni, una volta gli altri con il risultato di scontentare tutti? Il 7 febbraio del 1999 Abdullah avanza con un vestito scuro, la kefiah in testa e lo sguardo solenne. Percorre venti, trenta passi. Poi tira indietro le spalle e si ferma sotto un ritratto del padre in alta uniforme. Altri dieci passi lo separano dal futuro. Sale sul podio, appoggia la mano destra sul Corano e giura fedeltà alla Giordania.
Deve consolare una nazione pietrificata dalla morte di un uomo che l’ha governata per 46 anni e al contempo rassicurare gli alleati. Ha ereditato una pace che suscita sentimenti ambivalenti, un’economia fragile, una coesione sociale dietro la quale ribollono tensioni mai sopite. Lungimirante e autoritario (alle volte anche furbo e spregiudicato), l’ex sovrano Hussein hashemita poteva permettersi di trascinare la Giordania anche dove l’opinione pubblica non sarebbe voluta andare, come nel caso del trattato di pace con Israele. Abdullah, invece, rappresenta un’incognita, non era l’erede designato, è stato reggente soltanto per due settimane e le Cassandre già insinuano che è debole, che potrebbe rinnegare la politica estera del padre e che la monarchia sarà risucchiata da un vortice di rancore tra il neosovrano e lo zio Hassan, ex erede al trono.
Da Clinton a Obama attraverso l’11 settembre, l’Afghanistan e l’Iraq, re Abdullah non delude le attese. Si schiera contro il fondamentalismo e offre una sponda al contenimento dell’avanzata sciita targata Teheran. L’esercito giordano addestra quello iracheno e i servizi di intelligence del regno collaborano con quelli americani nella lotta al terrorismo, anche in prima linea come nel caso della cattura di Abu Mussab Zarqawi. Di pari passo gli Stati Uniti elevano l’ammontare degli aiuti alla Giordania fino a 300 milioni di euro annui e non sorprende nessuno che nell’aprile del 2009 sia proprio re Abdullah il primo leader arabo a incontrare il presidente Obama.
Ma più che sulla politica estera il sovrano hashemita si concentra sull’economia. Se re Hussein è riuscito a nobilitare lo status di una nazione piccola e povera di risorse (anche se ultimamente sono stati scoperti significativi giacimenti di uranio) grazie al suo ruolo di power-broker nelle principali controversie regionali, Abdullah sogna che il futuro della Giordania non sia determinato soltanto da quello che accade al di là dei suoi confini. E’ una partita complicata: “Per capire la Giordania – spiega al Foglio il giornalista Moaffaq Mohaddin – bisogna ricordare che il regno è fragile: da un lato ha bisogno della protezione di alleati potenti, dall’altro non può permettersi il lusso di conservare troppo a lungo l’ostilità con nessuno dei suoi nemici. La nostra storia è schiava della geografia”.
La Giordania deve diventare appetibile per gli investitori: i modelli sono Hong Kong e Singapore. Il re è un tipo spiccio, non ama i simposi internazionali e diffida dei discorsi chilometrici infiorettati di metafore e ritornelli sulle ingiustizie nei territori occupati. Alle delegazioni straniere preferisce gli uomini d’affari, una cena con Bill Gates piuttosto che con Nancy Pelosi. E’ il primo leader arabo a scrivere su un blog, e sua moglie Rania è la prima regina a lanciare un canale su YouTube. Hanno bisogno di una squadra che condivida il loro approccio. Prese le misure del proprio ruolo, re Abdullah ascolta i consulenti inglesi che lo esortano ad allungare le distanze dalla vecchia guardia. Si circonda di giovani e promettenti tecnocrati (spesso di origine palestinese) e spiega a chi lo taccia di ingratitudine di non poter tenere a lavorare con sé “gente che per riguardo dovrei chiamare ‘zio’”.
La corte reale diventa un via vai di giovani ambiziosi che poco hanno a che spartire con le vecchie gerarchie. La promozione di una politica inclusiva per i cittadini giordani di origine palestinese è vista con il fumo negli occhi dalla componente transgiordana. Accampare oggi la propria discendenza da un clan, ribadire di avere radici nelle roccaforti tribali vuol dire certificare una patente di autenticità e un diritto di precedenza rispetto agli “ospiti” palestinesi, che rappresentano ormai la maggioranza, tra il 50 e il 75 per cento della popolazione. La regola è: settore pubblico ai transgiordani, privato ai palestinesi. I funzionari pubblici rappresentano il 43 per cento della forza lavoro e assorbono il 60 per cento della spesa. Le tribù transgiordane sono il pilastro dell’esercito e al contempo della monarchia hashemita. Come contropartita della loro lealtà alla corona, i transgiordani hanno ricevuto privilegi che negli anni si sono cristallizzati in totem inviolabili. Nutrono ostilità nei confronti della revisione della legge elettorale che, di fatto, discrimina i giordani di origine palestinese.
Le privatizzazioni (telecomunicazioni, acqua, cemento, trasporti) hanno eroso il settore pubblico, mentre i businessmen palestinesi hanno fatto grandi affari. I transgiordani si sentono confinati in un purgatorio in cui mangiano soltanto le briciole mentre una nuova classe globalizzata di nouveau riche entra nei saloni del palazzo di Raghadan. Il re sta oltraggiando il suo patto con noi, dicono le tribù. Re Hussein era il padre della nazione, ricordano nostalgici, Abdullah nemmeno un fratellastro. “L’ultima volta che è venuto a trovarci – ha raccontato un capo tribù al New York Times – gli abbiamo offerto un piatto di mensaf (piatto tipico giordano a base di riso e agnello cotto in yogurt di capra) e lui guardava il suo Rolex ansioso di andarsene”.
La diga di Dhiban è uno dei simboli della crisi tra la monarchia hashemita e i transgiordani: dopo aver inondato le fertili terre tribali le acque del Giordano sono state convogliate in canali destinati ad approvvigionare l’assetata capitale. “La nostra acqua è finita nelle piscine dei palestinesi”, dicono i beduini, mentre i coltivatori locali (con l’eccezione di un ex ministro) non hanno l’autorizzazione a usare l’acqua della diga per irrigare. Per molti transgiordani la parola “riforme” evoca nuove perdite a favore dei palestinesi. Per i “palestinesi” è un grande bluff, un contentino di cui beneficia chi ha già raggiunto i vertici della piramide del potere. Per l’establishment, turbato dal passaggio da re Hussein ad Abdullah, “riforme” e “democrazia” sono un modo per consegnare il regno ai Fratelli musulmani. Così, a parole tutti le auspicano, ma nessuno è d’accordo sul loro significato.
Di tutti i leader arabi re Abdullah è quello che ha parlato più spesso di democrazia. “La gente vuole andare avanti, vuole vedere una differenza tangibile nella propria vita. Il futuro è nelle nostre mani”, ha spiegato nel 2005 alla platea del World Economic Forum. Quello fu l’anno dell’Agenda nazionale che in dieci anni avrebbe dovuto cambiare il volto della Giordania. Nel 2004 l’Amministrazione di George W. Bush aveva iniziato a lavorare alla “Greater Middle East Initiative”, un vasto programma di democratizzazione per il medio oriente allargato (dal Marocco all’Afghanistan). Re Abdullah, pur critico, interpretò l’iniziativa americana come un’opportunità. Chiamò a raccolta i suoi consiglieri e diede loro l’incarico di elaborare una piattaforma di riforme politiche ed economiche da presentare ai ministri degli Esteri della regione in occasione del summit arabo di Tunisi.
L’ex ministro degli Esteri giordano, Marwan Muasher, ha raccontato quell’esperienza nel libro “The Arab Center. The promise of Moderation”. Oltre alla Giordania furono Marocco, Bahrein, Kuwait e Qatar gli stati più favorevoli a una road map per la democrazia. Siria, Egitto e Arabia Saudita i più refrattari. La Libia si tirò fuori dal negoziato. Dopo accese discussioni Egitto e Giordania stilarono un documento congiunto, piuttosto blando, e Muasher volò a Washington per illustrare gli esiti del sofferto compromesso. Invitato al G8 del giugno 2004 in Georgia, re Abdullah avanzò l’idea di un Piano Marshall per il medio oriente legato agli obiettivi raggiunti da ogni stato in tema di riforme. Tuttavia, senza meccanismi di controllo e di implementazione, i princìpi di Tunisi naufragarono in un mare di distinguo e di rimandi. Per trascinare con sé la regione, Abdullah decise di provare a mettere ordine in casa sua. Gli serviva un incorruttibile con charme, un uomo capace di resistere alle pressioni dell’establishment, ma anche di trascinare intorno a un tavolo gli opposti: transgiordani e palestinesi, leader tribali ed esponenti del Fronte d’azione islamico, intellettuali e militari.
Tornò a bussare alla porta di Muasher, “una persona intelligente, pacata e affidabile. Tra gli uomini che contano è il più autentico democratico”, come lo descrisse al Foglio il politologo Mustafa Hamarneh, all’epoca della sua nomina come ministro della Corte reale e presidente dell’Agenda nazionale. Gli avversari del processo di democratizzazione – racconta Muasher nel suo libro – appartenevano a due tipologie: la “vecchia guardia” e gli “affaristi”. I primi, “un insieme di individui legati al settore pubblico funzionari ed ex funzionari governativi, burocrati di lungo corso e membri del Parlamento, capivano benissimo che le riforme avrebbero trasformato la cultura politica giordana in base al merito piuttosto che al privilegio”.
I secondi, “un gruppo di businessmen che avevano acquisito potere economico e politico grazie a un’alleanza con lo stato, temevano una perdita di status”. Contro Muasher e i suoi collaboratori, mostrificati come “traditori neoliberisti” pronti a disintegrare la Giordania, partì una campagna di linciaggio politico che influenzò negativamente un’opinione pubblica già delusa da decenni di promesse non mantenute. I buoni propositi di re Abdullah navigavano in pessime acque quando il 9 novembre 2005 tre attacchi suicidi in tre alberghi della capitale scaraventarono una pietra tombale sulla sfortunata Agenda nazionale.
Di lì a poco Muasher sarebbe uscito di scena (oggi è al Carnegie Endowment a Washington). Ad Amman tornarono in auge gli uomini della sicurezza, interpreti di antiche certezze: la Giordania è minacciata, (Hamas avrebbe trionfato di lì a poco a Gaza) e le riforme potrebbero essere il cavallo di Troia degli islamisti. Il generale Marouf al Bakhit fu nominato premier, lo stesso Bakhit cui Abdullah ha riaffidato l’incarico in queste settimane. Oggi la maggior parte degli osservatori scommette sulla tenuta della monarchia. L’operazione-sicurezza non fallirà. Come spiega Oraib al Rantawi, direttore del Centro di studi politici al Quds, “in un paese come la Giordania, dove metà della popolazione è transgiordana e l’altra metà palestinese, è impossibile stabilire una piattaforma comune: le priorità sono antitetiche”. Ma se c’è qualcosa che gli arabi hanno imparato in questi mesi è quanto aleatorie possano essere le previsioni. “Una volta che apri la porta alle riforme – ha detto re Abdullah nel 2005 a Christiane Amanpour – è molto difficile richiudere quella porta”.

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