Che Guido Ceronetti ami israele è fuor di dubbio. Un amore che si esprime attraverso la poesia, com'è giusto che sia per un poeta quale Ceronetti è.
Ma, come tutti i poeti, anche Ceronetti è spesso ermetico, con frasi che sembrano contraddire quelle successive.
Va da sè che questo elzeviro uscito sul CORRIERE della SERA di oggi, 31/03/2011, a pag. 47, con il titolo "L'immaginazione è la via della pace" è un esempio illuminato della sua prosa.
Guardiamo la firma e lo accettiamo interamente, anche se scrivendo per un quotidiano a grande diffusione come il Corriere della Sera, avremmo preferito che il "ti amo, Israele" fosse stato meno incomprensibile.
Ecco il pezzo:

Guido Ceronetti
Per la prima volta Israele non è al centro di un sanguinoso, immutabile garbuglio mediterraneo. Questo terribile privilegio gli è stato tolto dalle rivoluzioni politiche islamiche e dalla guerra civile libica tentata di mondializzarsi. Non gli è mancato il funesto copione che ha saziato: missili da Gaza — attentato interno — rappresaglia immediata — pace senza più ipotesi, ma questo non ha scalfito la sua parte d’ombra: è inutile strage. A Israele quelle figure di rovesciati e di rotolanti garantivano un certo respiro e poteva tenerli tutti sotto tiro. Di colpo, la solitudine assoluta, accresciuta dal timore che l’ombrello americano sulla sua testa abbia cessato i suoi scatti automatici. Non del tutto, s’intende; tuttavia basta poco al più inquietante dei pensieri: si aprirà in tempo? L’osservatore che mediti su questo, ormai uscito dall’uovo, scontro di civiltà, sicuramente destinato a comunicarci altri sconcertanti messaggi, vedrà con più tormentosa evidenza quanto lontano sia Israele dal fare realmente parte di quella porzione di mondo che gli è inevitabile crocevia destinale. Israele è carne nostra. Questo è certissimo. Carne nostra perché Occidente, democrazia e diritti dell’uomo, nostra perché l’irriducibile Diaspora ha bardato con sella da elefante il mondo romano di una ontologia antigreca che si è universalizzata in voragini di rottami del pensiero religioso; e umanamente nostra perché una sorprendente massima di Emil Cioran, del dopo Shoah, dice che «una città senza ebrei è una città morta» . Carne d’Europa, dunque, nel bene e nel male. Marco Pannella fece venire all’Europa dei lunghi brividi quando propose, durante una trance, che Israele facesse parte dell’Unione Europea! Era la proposta di una eutanasia e non delle più miti: li conteresti, in Europa, quelli che vorrebbero Israele nell’Unione, roba da scongiuri. Tuttavia Pannella parlava da lucido folle puro: perché, questo figlio carnale, non prenderselo in casa e mai più staccarsene? L’Europa, è talmente chiaro, è disperatamente aggavignata alla sua raggiunta pax perpetua e Israele è perpetuo Marte. Nell’Unione che vuole un futuro alla Marcegaglia, Israele piomberebbe con la sua coda di cometa, che non gli permette di avvolgersi e sparire in un simile, identico futuro. Queste sono nazioni di pensionati, non di samurai. E anche Israele lo sarebbe, se non fosse sospesa sulla sua testa e non fosse polvere della propria cometa, la visione di Gog e Magog del trentottesimo di Ezechiele. L’europeo, i piedi nei suoi due bagni, le mani nei suoi carrelli pieni, non sa niente di Gog e Magog ma istintivamente dice: alla larga! L’unione con l’Europa ci fu, per chi la ricorda, con la Guerra dei sei giorni; nelle strade si raccoglieva il sangue per i feriti di Israele; poi fu sempre più marcato lo scollamento e Israele parve non essere altro che il cuore battente di quella assurda cosa che ancora viene chiamata «il problema mediorientale» . Al Cairo, Obama sfilò Israele dalla sua centralità ombelicale: la centralità vera è passata (forse da allora) all’identità musulmana-africana e musulmana d’Oriente in un violento, implacabile rimescolamento. Israele, coi suoi occhi a migliaia di Mossad, è rimasto passivo a guardare, perplesso e di malumore. E qualcosa è accaduto: il suo rientro in Europa. Non l’Unione: Europa come mater, identità paleoeuropea, divano freudiano — rientro nella casa dell’esilio, per diritto di appartenenza. Se l’enorme movimento rivoluzionario in corso non si fermerà a questi pochi esiti nelle nazioni islamiche e la stolida via, turata a ogni immaginazione, dell’odio meccanico per Israele venisse ripresa dai successori, non saprei prevedere niente di buono per tutti loro e per noi. Ma un Israele decentrato e in penombra suturerebbe molte ferite. Riformarsi, anche per Israele, può essere imperativo. Serve più la forza dell’immaginazione e l’invenzione di altre paci seguirebbe, che la forza di un esercito ultrapotente. Il suo rischio premente muto è la riperdita di patria, di identità patria e religiosa, in un Oriente islamico in convulsioni crescenti, metà Africa e metà Asia nel turbine. E nella sua casa madre europea non ci sono idee; in quella americana stanno sempre venendo. Molte cose e non dipendenti dai governi (vedi Qohélet 9,11) si celano nel silenzio di Israele.
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