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La Stampa Rassegna Stampa
27.03.2011 A.B.Yehoshua e la strage di Itamar
Manca la cornice, il quadro è incompleto

Testata: La Stampa
Data: 27 marzo 2011
Pagina: 1
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Riflessioni sull'omicidio dei coloni»

A.B.Yehoshua interviene oggi, 27/03/2011, a pag. 1, sulla STAMPA, con un commento sulla strage di Itamar, dal titolo "riflessioni sull'omocidio dei coloni". ABY è un sincero sionista, molte delle sue opinioni in questo articolo sono largamente condivisibili, ma nelle analisi politiche degli intellettuali - e gli israeliani non fanno eccezione - c'è sempre un aspetto mancante, la cornice entro la quale inseriscono il loro commento.
L'espansione territoriale di Israele dopo la guerra del '67 è una diretta conseguenza del tentativo, per fortuna fallito, degli Stati arabi di dsitruggere lo Stato ebraico. Se non ci fosse stata quella volontà, è probabile, anzi, è sicuro, che Israele sarebbe ancora entro il territorio pre '67, non avendo mai avuto intenzioni acquisitorie in tutta la sua storia.
Se si dimenticano i precedenti, diventa impossibile capire perchè ci sono oggi circa 300.000 israeliani - chiamiamoli così, per favore, e non coloni -  che vivono a cavallo della linea del 'cessate il fuoco ', che, come pochi ricordano, non è un confine, in quanto quei territori sono 'contesi'.
Con Egitto e Giordania, con i quali la pace è avvenuta, non esistono più dispute, i confini sono condivisi.
Ma il raggiungimento della pace con i palestinesi è cosa quanto mai ardua, come ben sanno i lettori di IC, per cui un articolo, pieno sì di buone intenzioni, come quello di ABY che riprendiamo più avanti, non ottiene il risultato voluto. E' pubblicato su un quotidiano, per cui non può avere la dimensione di un saggio, anche breve, manca quindi di una cornice, per cui il quadro che ne deriva è fortemente incompleto. Peccato, perchè l'intelligenza di Yehoshua lo meriterebbe.
Ecco il pezzo:


A.B.Yehoshua

Nel cuore del Negev, il più grande deserto di Israele, c’è il famoso kibbutz Sde Boker. Famoso non solo perché i centri abitati del Negev sono pochi e ciascuno di essi merita di essere menzionato, ma soprattutto perché il primo capo del governo israeliano, David Ben Gurion, vi si stabilì già agli inizi degli Anni 50.

Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.

Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all’ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.

La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.

Nell’istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d’ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all’anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.

Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell’unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l’atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.

Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell’omicidio della famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.

Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell’Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall’Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l’immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?

La terra è una delle principali componenti dell’identità di un popolo, forse la più importante. L’ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?

Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all’interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l’avvento della pace con l’Egitto.

E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l’ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l’intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?

Queste sono state le nostre riflessioni nell’udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.

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