Un utile aggiornamento sullo Yemen sul FOGLIO di oggi, 26/03/2011, a pag.1, di Daniele Raineri, con il titolo " La rivolta in Yemen si è trasformata nel divorzio fra due settantenni".
Yemen in piazza
Sana’a, dal nostro inviato.
Nel centro della capitale la grande protesta dell’opposizione è la Giornata dell’Addio – s’intende al presidente Saleh – e la grande manifestazione dei tifosi filogovernativi è invece la Giornata della Tolleranza, come a dire: vi abbiamo sparato, ma ora che metà dell’esercito è passata dalla vostra parte, volemose tutti bene. Il presidente ha offerto il perdono e l’amnistia ai militari che lo hanno abbandonato, se torneranno dalla sua parte non succederà loro nulla. In realtà ieri è stata la Giornata dell’Adesso che Cosa Facciamo? Nelle ultime 30 ore il presidente e il suo rivale, il generale Ali Muhsen al Ahmar, hanno prima negoziato febbrilmente al telefono e poi si sono incontrati di persona in casa del vicepresidente per trovare una quadra difficile. Un funzionario del governo americano che segue la trattativa ha detto a Laura Kasinof del New York Times che “i giorni del presidente sono contati, ma è determinato a essere lui a decidere il numero. E non si tratta di un semplice colloquio in una stanza, stanno partecipando i rappresentanti di almeno venti gruppi d’interesse yemeniti, alcuni attraverso intermediari”. Il presidente a questo punto è pure disposto a cedere la carica, ma vuole una transizione parziale, la perpetuazione del suo potere in seno alla sua famiglia, che ha in mano gli affari più redditizi del paese e importanti cariche militari. E vuole che l’antico rivale Ali Muhsen si dimetta pure lui, per non consegnargli il paese. Il generale dice in televisione che non gli interessa il potere politico, “il potere ai generali è una cosa sorpassata, da vecchi stati arabi”, e per ora trattiene la folla dal marciare sul Palazzo presidenziale. Le ultime notizie danno i negoziati in fase di stallo. La rivoluzione dei giovani yemeniti si è trasformata nel divorzio di due settantenni. Nella stanza dei negoziati sono presenti anche americani e sauditi. Washington è criticata dall’opposizione per essere stata troppo cauta e per essersi pronunciata in ritardo e troppo blandamente sulle violenze del regime. Da Sana’a si percepisce con chiarezza che l’Amministrazione Obama considerava il suo orizzonte di guai con il medio oriente e l’Asia circoscritto all’Iraq e all’Afghanistan, e che ora vede come una calamità l’onda destabilizzante che investe i regimi arabi. A gennaio, nella stessa settimana delle prime proteste, Hillary Clinton arrivò in Yemen per la prima visita ufficiale di un segretario di stato americano negli ultimi vent’anni, e garantì al presidente Saleh 300 milioni di dollari nel 2011 e una visita a Washington a marzo in cambio di collaborazione contro al Qaida. Oggi quel panorama non esiste più. Gregory Johnsen, un analista americano esperto di Yemen e ascoltato – invano, dice lui – alla Casa Bianca, scrive che il problema del dopo Saleh può essere risolto soltanto con un copioso investimento americano nelle infrastrutture civili e cita l’esempio di Radfh, nel sud negletto dove gli abitanti rimasti senza maestri statali – oltre che senza acqua e luce – hanno chiesto ad al Qaida di fare lezione ai bambini in mancanza di meglio. Resta da vedere se l’idea di pagare acquedotti, strade e scuole allo Yemen per impedire che una generazione di rivoltosi democratici delusi si converta all’estremismo affascini un’Amministrazione a metà mandato e senza soldi da spendere. I sauditi sono consci che è inutile tenere tutto sotto controllo in casa propria se lo Yemen brucia. Fu il fondatore di casa Saud, re Abdel Aziz, a dire sul letto di morte: “Il bene e il male per noi verranno dallo Yemen”. Il presidente ha chiesto al ministro degli Esteri saudita, il principe Saud al Faisal, di mediare tra governo e rivoltosi, e cinque giorni fa ha spedito il suo ministro degli Esteri Abu Bakr al Qirbi – di un governo che non c’è più perché è stato sciolto da Saleh stesso – dal re saudita con una lettera. Il regno, meno vincolato della Casa Bianca agli ideali democratici universali, se non riesce a salvare Saleh vorrebbe almeno che il maggior numero possibile dei suoi uomini restasse ai propri posti
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