Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 25/03/2011, a pag. 1-49, l'articolo di Gabriele Romagnoli dal titolo "L´apartheid delle ragazze e il film segreto di Panahi ".
Jafar Panahi
L´inizio sembra un thriller, ti tiene con il fiato sospeso anche se quel che succede è una delle cose (altrove) più normali al mondo. Guardi la ragazza (travestita da maschio) mentre cerca di entrare nello stadio di Teheran e ti senti come quando palpitavi per il protagonista di Fuga di mezzanotte mentre cercava di uscire dal carcere.
È uno strano film Offside di Jafar Panahi. Ha una strana storia, per molti motivi. Il primo è che esce (l´8 aprile) dopo 5 anni dalla realizzazione. Il secondo è che per riuscire a girarlo, applicando il proverbio farsi «se non passi dalla porta, passa dalla finestra» hanno dovuto consegnare una sceneggiatura falsa, fare riprese di nascosto, comportarsi né più né meno come le protagoniste della storia. Il terzo è che il regista è segregato dal 2010, con il divieto di lavorare e rilasciare interviste per i prossimi vent´anni. Il che, visto il film, è una punizione non solo per lui, ma per tutti noi.
Panahi decise di raccontare questa storia la volta in cui, applicando una legge non scritta, i militari in servizio a uno stadio impedirono a sua figlia di entrare. In assenza di una norma codificata, si sa, il diritto diventa una variabile impazzita, la sua applicazione un abuso permanente. Non si può risalire a una volontà del legislatore, né a una interpretazione autentica.
Quali siano le ragioni di questa proibizione per le donne ad assistere a una partita rimane un mistero della fede (deviata). Nel film i militari danno alle ragazze arrestate spiegazioni diverse e confuse: «Non potete sedervi a fianco degli uomini», «Là dentro si impreca, non potete ascoltare», fino a «Che cosa volete capirne?».
L´obiezione di una di loro è: «Ma quando venne a giocare il Giappone lasciaste entrare le giapponesi. Dunque la mia maledizione non è essere donna, ma donna iraniana». Nessuna replica. È il relativismo della sfortuna. Non c´è in assoluto una posizione debole, il mondo disegna a macchia di leopardo una mappa delle inferiorità, anche se è vero che le donne hanno più possibilità di farne parte. Quelle raccontate da Panahi sono ragazze (attrici non professionali) consumate da una passione che travalica la rivendicazione.
Vogliono essere parte di una festa collettiva, non sentirsene escluse. L´Iran gioca con il Barhein la partita decisiva per la qualificazione ai mondiali di Germania 2006. Autobus pieni di maschi esaltati si dirigono allo stadio.
Camuffate, con abiti larghi e cappelli calcati sul volto, una addirittura fingendosi un cieco, le ragazze s´infiltrano. Vogliono esserci perché ci sono i loro padri e fratelli, vogliono esserci perché è una (così rara) occasione di gioia. Una vuole esserci, si scoprirà alla fine, per un motivo particolare: un suo amico era morto, nella calca impazzita scatenata da un intervento militare dopo il match con il Giappone. La citazione di quell´episodio non è casuale: i morti, si disse, furono sette. Nelle fotografie ufficiali: sei.
L´assente sarebbe stata una ragazza. Invisibile.
Coperta da un chador di omertà. Non doveva esserci e quindi non c´era.
Bandita perfino dal regno dei morti, dal pietoso sacrario delle vittime.
Panahi non vira in tragedia, mantiene un tono lieve, da farsa che ben accompagna la narrazione degli effetti di una dittatura, soprattutto se teologica. Indulge sulla personalità dei soldati, carnefici volontari, ma comici e spaventati. Il punto più alto è quando le ragazze smascherate e chiuse in un recinto da un ufficiale che, non a caso, evoca il bestiame di cui si occupava da civile, si fanno raccontare la partita da un militare che la vede attraverso le sbarre. È una telecronaca sbilenca e infelice, ma basta a suscitare indirette emozioni, a far palpitare mentre quello descrive una discesa a rete, perfino se l´attribuisce a un giocatore che non c´è, ma secondo lui avrebbe dovuto esserci. E´ il trionfo della fantasia sulla realtà.
È così, in effetti, che si sopravvive al duro tempo in cui l´imbecillità prende il potere e, conscia dei propri limiti, infiniti ne impone alle vite degli altri. Si va avanti aggrappandosi al mondo non come è, ma come dovrebbe essere. Ascoltando le voci che lo evocano, guardando film clandestini scaricati sui cellulari, come accadde proprio in Iran con Persepolis di Marjane Satrapi.
Avendo scelto il tono della commedia Panahi conduce il film verso un lieto fine. L´Iran vince e si qualifica: andrà in Germania. Me la ricordo bene la squadra, la visitai nel suo ritiro rupestre, circondata dalla diffidenza, come fosse portatrice di armi atomiche, con il mondo in allerta per la possibile visita di Ahmadinejad. All´improvviso i paria erano diventati loro.
Le cameriere tedesche ronzavano serene tra un tavolo e l´altro dell´albergo servendo perplesse ma ben istruite boccali di succo di frutta. Poi, eliminata, la squadra tornò a casa. A giocare per soli uomini. La felicità è spesso nel retrovisore. È in quel momento in cui le porte e le finestre si schiudono e si passa.
Panahi lo racconta e, cedendo al desiderio di liberarsi dalla prigione della realtà con la fantasia, invita infine anche le ragazze alla festa finale.
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