Yemen, continuano le rivolte, il regime si sta sgretolando Commento di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 22 marzo 2011 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Ora cede anche lo Yemen»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/03/2011, a pag. 1-I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Ora cede anche lo Yemen".
Daniele Raineri
Sana’a, dal nostro inviato. Il problema reale per l’Amministrazione Obama non è in Libia – quello è un affare soprattutto europeo, per gli aerei di Parigi e di Londra – ma è più a est, nella penisola arabica: Bahrein e Yemen. Fino a venerdì scorso, il regno arcipelago sembrava essere la questione aperta, per colpa dei blindati sauditi in azione nelle strade della capitale e per la repressione brutale contro la maggioranza sciita e troppo vicina all’Iran. Da venerdì scorso, la giostra araba ha di nuovo cambiato musica, per lo sgomento della Casa Bianca. Tocca allo Yemen. Da quattro giorni, da quando i cecchini assoldati dal governo di Sana’a hanno ammazzato 52 manifestanti a braccia alzate e non sono riusciti a fermare la marea inarrestabile della protesta, il regime sta accelerando verso la dissoluzione. “Mi aspetto che il regime cada nelle prossime 24 ore”, ha detto il direttore dello Yemen Post, Hakim al Masmari, ad al Jazeera. Per il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, il presidente Ali Abdullah Saleh starebbe per abbandonare il paese. Sarebbe la vittoria di un minuscolo gruppo di studenti universitari che dall’inizio di gennaio ha iniziato a protestare per solidarietà con la rivolta in Tunisia e che grazie a un effetto palla di neve è riuscito sulla sua strada a inglobare tutte le forze che contano in un paese frammentato in centinaia di sottopoteri e di clan. Non erano che poche decine, e il presidente li aveva definiti “un’influenza passeggera, con cui anche lo Yemen deve fare i conti”, e in queste settimane stanno disintegrando il sistema di potere trentennale del presidente. L’influenza ha raggiunto i gradi più alti. Ieri il generale Ali Muhsen Saleh, comandante della potente Prima brigata e figlio della stessa madre del presidente Ali Abdullah Saleh, ha abbandonato il rais ed è passato con i rivoltosi. “Lo stato, rappresentato dal presidente, è totalmente responsabile per il sangue che è stato versato”, ha detto. Ora, dicono speranzosi dall’accampamento degli oppositori, i suoi soldati non attaccheranno più la rivoluzione ma la proteggeranno. Con lui hanno cambiato campo altri due generali di livello inferiore, che sotto il suo comando controllano i settori nord e ovest. Otto ambasciatori yemeniti, da Washington a Pechino, hanno rassegnato le dimissioni in segno di protesta contro la strage. Il consigliere personale del presidente per gli Affari militari, un personaggio oscuro e sempre al suo fianco, lo ha lasciato. Tra le defezioni a catena c’è anche quella del capo dell’aviazione militare nella capitale Sana’a, i cui caccia volano ogni giorno a bassa quota sulla città e che forse teme di ricevere un ordine alla Gheddafi. Giù per Sherre Rabat, la strada che costeggia l’area in mano agli oppositori, le divise verdi delle odiate forze di sicurezza nazionali fedeli al rais sono state rimpiazzate dalle mimetiche in stile Desert Storm, o forse sono proprio un avanzo di magazzino americano del 1991, e dalle facce tranquille fedeli al generale Muhsen – ma forse si tratta soltanto di un provvedimento governativo per allentare la tensione e schierare i soldati più benvoluti. Metà dell’esercito non obbedirà all’ordine di fare fuoco, l’altra metà per ora è in bilico. Con Saleh restano certamente la Guardia repubblicana, temuta e comandata da suo figlio, le forze di sicurezza e i gruppi speciali. Gli studenti sono sconcertati dall’arrivo trionfale dei soldati nel cuore della manifestazione e dallo spettacolo degli ufficiali portati a spalla dagli uomini dei clan. “Siamo contenti, perché è un segno dello sgretolamento del potere di Saleh, ma – esita il capo degli studenti, Adel al Sabery, dietro gli occhialetti – siamo anche spiazzati, non ce lo aspettavamo così presto”. Fin dall’inizio della protesta il timore degli studenti è che i gruppi che si aggregano alla carovana antiregime finiscano per farle cambiare direzione. E’ successo con i partiti d’opposizione e con i rinforzi arrivati da fuori Sana’a, figurarsi se non potrebbe accadere con i generalissimi. E’ chiaro che il modello che Ali Muhsen ha in mente è una transizione all’egiziana, dalle mani del despota riluttante a quelle dell’esercito rifiorito a nuovi ideali democratici. E’ da vedere se andrà così liscia anche nello Yemen. I soldati hanno combattuto per dieci anni sempre all’interno dei confini del paese e si sono fatti numerosi nemici, e agli occhi di molti sono troppo compromessi con il governo. Per ora c’è un fronte comune dettato dalle circostanze, ma in seguito l’illusione potrebbe non reggere. Saleh prova a tenere sotto controllo il paese. E’ considerato da tutti un politico abile, mezzo fondista e mezzo slalomista, con un talento prodigioso nel bilanciare i poteri e nel giocare con le fazioni rivali. Ma questa volta sembra tragicamente inadatto al proprio salvataggio, le sue manovre scivolano sul blocco compatto che si trova davanti. Sabato ha proclamato una Giornata del Dolore per “i martiri della democrazia”: è stato un eccesso di gaglioffaggine persino per gli standard politici yemeniti. Domenica ha sciolto il gabinetto dei ministri, ma alcuni si erano già dimessi ed è sembrata una mossa per coprire la fuga generale. “Prima li ammazza e poi li piange? E ora che si è levato di torno i ministri, che cosa ci importa, che cosa è cambiato?”, dicono in strada. E’ fuori discussione che è lui il responsabile dietro alle violenze e che il problema è la sua permanenza al potere, non quella dei ministri. Il “governo amico” Washington soltanto nel 2011 ha in programma di investire 300 milioni di dollari nello Yemen, per aiutare il governo nella lotta al terrorismo. L’edizione yemenita di al Qaida ha già dimostrato di essere pericolosa quanto la casa madre nascosta in Pakistan, con due tentate stragi su aerei di linea diretti verso l’America. L’ideologo dei terroristi yemeniti ha passaporto americano ed è il mandante della strage di soldati a Fort Hood e dell’accoltellamento di una parlamentare britannica. Almeno cinquanta americani sono in Yemen assieme ad al Qaida. Il paese è un pezzo centrale della lotta al terrorismo, ed è anche in una posizione strategica, davanti alla Somalia, tra Suez e il Golfo Persico. Ma ora la Casa Bianca è in imbarazzo: può finanziare un governo amico che si è appena dissolto e un presidente che ha incontrato il segretario di stato, Hillary Clinton, due mesi fa e che ora fa sparare sulla folla? Questo mese era previsto un viaggio premio del rais alla Casa Bianca, per rafforzarlo e legittimarlo agli occhi del mondo. La visita è saltata. Come pure è saltata la conferenza degli Amici dello Yemen, il tavolo dei paesi donatori guidati da Arabia Saudita, Gran Bretagna e Italia che riempiono le casse di Sana’a. La situazione in Libia al confronto sembra lineare: non si possono imporre le dimissioni a Saleh bombardando i suoi radar e i suoi carri. Washington ha chiesto di non usare la violenza non più tardi di dieci giorni fa, e si è visto come è stata ascoltata. Persino i rifugiati somali hanno fatto marcia indietro, in duecento, per scappare dalla situazione di instabilità del paese. Due baltagiya, i cecchini del gruppo di fuoco filo Saleh, sono stati catturati durante il massacro di venerdì mentre scappavano dalla loro postazione di tiro, la casa a due piani di un altro uomo del presidente, uno “rispettabile”, il governatore del distretto di Mahawat. Con loro avevano un fucile con mirino telescopico, e questo spiega la precisione di alcuni colpi dritti nelle teste dei manifestanti, una radio militare e una mitragliatrice. Hanno ammesso di essere stati pagati – la versione del governo è che si trattava di cittadini infastiditi dalla presenza ingombrante della manifestazione dai cortei. Quanto? “Cinquanta dollari a testa al giorno quelli con i fucili. Dieci dollari, quelli armati soltanto con i pugnali”. Sono passati per le mani del capo del comitato di sicurezza della rivoluzione, uno smilzo, senza capelli, con una tuta all’occidentale che alloggia, interroga e riceve in un cubicolo di cemento con un paio di stuoie per terra e un cartellone con i numeri di telefono attaccato con lo scotch al muro. L’odore è tremendo perché accanto ci sono i bagni improvvisati per la folla, “il governo ha mandato i suoi infiltrati fra la gente dentro il campo a otturarli con sassi e terra, stiamo cercando di rimetterli in funzione”. Ogni espediente è valido per mettere in crisi i nemici. Che cosa avete fatto ai due sparatori? “Non abbiamo mai pensato di ucciderli, siamo una protesta pacifica. Persino gli uomini dei clan che stanno arrivando fuori dalla capitale per unirsi a noi stanno venendo senza le loro armi e ostentano questa loro condizione di disarmati. I due li abbiamo picchiati molto, perché devono capire il nostro potere, la forza della gente, devono capire che con noi non si scherza. Lo abbiamo già fatto con altri che abbiamo preso, e alcuni di essi, quando li abbiamo rilasciati, sono tornati per unirsi a noi”. “L’albero della rivoluzione” “L’albero della rivoluzione è diventato più grande perché è stato innaffiato dal sangue dei martiri”. I rivoltosi yemeniti sotto le tende e i teloni di plastica in centro stropicciano un po’ la citazione di Thomas Jefferson, ma hanno ragione. Sono sempre più numerosi ogni ora che passa. Da sopra una torre con le bandiere della Libia libera e della Tunisia, la telecamera fissa di al Jazeera mostra ogni pochi minuti alle televisioni le centinaia di migliaia di persone che arrivano e affollano il viale dell’università (ma nessuna telecamera di al Jazeera inquadra il Bahrein, dove i sauditi amici stanno spegnendo la rivolta sciita).
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