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La Stampa Rassegna Stampa
12.03.2011 Israele e le rivoluzioni del mondo arabo
L'opinione di Arrigo Levi

Testata: La Stampa
Data: 12 marzo 2011
Pagina: 1
Autore: Arrigo Levi
Titolo: «Israele e il risveglio arabo»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/03/2011, a pag. 1-35, l'articolo di Arrigo Levi dal titolo "Israele e il risveglio arabo".


Arrigo Levi

Arrigo Levi sostiene che la 'causa palestinese' non sia stata invocata nel corso delle rivoluzioni del mondo arabo, che la questione sia passata in secondo piano. Ci permettiamo, con il dovuto rispetto, di ricordargli che pochi giorni fa Avigdor Lieberman ha incontrato a Roma Franco Frattini. Nel corso di una riunione del Ministri degli Esteri dei Paesi del Mediterraneo, i ministri dei Paesi musulmani non hanno quasi commentato ciò che stava succedendo nei rispetivi Paesi, ma si sono affrettati a indicare Israele come unico elementodi destabilizzazione del Medio Oriente.
Ecco l'articolo:

AmosOz eSariNusseibeh,duedellepiùalte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come unmago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse GoldaMeir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso ». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un talemiracoloso evento. Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nellaWest Bank, della rivolta popolare che ha già investitoTunisia,Egitto, Libia,Bahrein,Yemen,ArabiaSaudita e in futuro chissà chi altri.Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è ilmomento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta inmoto il negoziato di pace.Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei dueStati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione diNetanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenzamilitare sulGiordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremotopolitico che si è verificatoe di cuinonabbiamo visto la fine». Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale,ha finora ignorato, in tutti iPaesi coinvolti,una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttostopassivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere inEgitto e inGiordania.Ma non sembra proprio temereper il suo futuro.Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettivameno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente unaccordodi pace conipalestinesi. Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nelMediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista.Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte.La proposta di qualche giorno fa delMinistro degli Esteri britannicoWilliamHague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il soloPaese chepossaportare Israele al tavolodiun nuovonegoziato. Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come ilmotivo dominante della «crisi delMedio Oriente». E forse non lo sarà permolto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi? Etuttavia, gliEbrei (che sono tornati aGerusalemme dopo aver continuato per duemillenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «laPalestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo nonmeno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni.Tuttavia, diceNusseibeh, che è ildiscendentediuna stirpe aristocraticadominanteda secoli aGerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò èmolto doloroso.Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggeredolore all'altro».

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