Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/03/2011, a pag. 17, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo "La giornata della collera a Riad. Trema il gigante del petrolio minacciato dal nemico iraniano".
Abdullah, re dell'Arabia Saudita
BEIRUT - Il reame assediato innalza le sue difese contro il propagarsi della "peste" rivoluzionaria. L´Arabia Saudita non ci sta a farsi contagiare, ma d´altra parte il "morbo" la minaccia da tutti i suoi confini: dalla Giordania allo Yemen, dal Bahrein all´Oman. E allora, dopo aver speso qualche parola per esaltare «il dialogo», come «il mezzo migliore per affrontare i problemi della società», il ministro degli Esteri, Saud al Feisal, non diversamente dal Colonnello Gheddafi, evoca lo spettro dell´"untore": «I cambiamenti - dice - verranno attraverso i cittadini sauditi e non attraverso dita straniere. Noi taglieremo qualsiasi dito che oserà penetrare nel regno».
Non ci vuol molto ad intuire che dietro al parallelismo delle "dita straniere" si nasconde il timore di un complotto iraniano. Domani, venerdì 11 marzo, dovrebbe essere il giorno della "collera" saudita. Dopo una serie di tentativi abortiti, i firmatari (si dice oltre 25mila) di tre petizioni coincidenti nel reclamare libertà, migliori condizioni di vita e una monarchia costituzionale, dovrebbero ritrovarsi in piazza sfidando il divieto di ogni manifestazione imposto dal ministro dell´Interno e la fatwa prontamente emanata dagli ulema, i depositari del verbo divino, secondo cui la pubblica protesta è contraria al Corano e alla legge religiosa (sharia).
Di rimando, gli attivisti che hanno aderito alla mobilitazione, una variegata schiera di militanti dei diritti umani, islamisti moderati, intellettuali, hanno voluta battezzare la giornata come "La rivoluzione di Hunayn", dal nome della località, presso la Mecca, dove nel 633 d.c. Maometto combatté e inaspettatamente, con l´aiuto divino, vinse la battaglia contro una coalizione di tribù beduine. Il messaggio, in sostanza, è che i rapporti di forza contano fino ad un certo punto.
In realtà, le voci provenienti dal regno, rimbalzate su alcuni media occidentali, dicono che il regime ha risposto agli appelli apparsi sui social network schierando sul terreno 10mila uomini soprattutto nella regione di Qatif, quella più ricca di petrolio, dove si concentra la minoranza sciita (fra il 5 e il 10% della popolazione). Sarebbe gli sciiti, secondo lo schema delle "dita straniere", ad agire come cavallo di Troia della manovra iraniana.
Tuttavia, soltanto una piccola parte delle rivendicazioni avanzate dai firmatari degli appelli può essere ricondotta alla minoranza sciita. Ad esempio, la liberazione dei prigionieri politici arrestati da anni e detenuti senza processo. Ma per il resto, le richieste di libere elezioni degli organi di governo, diritto di espressione, libertà di formare partiti politici, monarchia costituzionale, lotta alla corruzione, sono rivendicazioni tipiche della società civile tutta e non sono dissimili da quelle lanciate al Cairo, a Tunisi, a Manama, a Sana´a, o a Bengasi.
Davanti alla travolgente "primavera araba", uno strappo si è consumato tra l´Arabia Saudita e il suo grande alleato e protettore americano. Mentre Barack Obama incoraggiava Mubarak e Ben Ali ad andarsene, i governanti sauditi hanno scelto di prendere le distanze dai movimenti popolari offrendo invece ospitalità al dittatore tunisino in fuga e telefonando la propria solidarietà al raìs egiziano poche ore prima che si dimettesse. Ora, cosa accadrebbe se la protesta dovesse arrivare anche a Riad? Oserebbe Obama incoraggiare re Abdullah a cedere parte del suo potere o piuttosto sarebbe costretto ad inchinarsi alla dipendenza americana dal petrolio saudita?
Si sa che il pluralismo dei partiti è nemico dei regimi assolutistici. Ne bastava uno solo, di partito, nei regimi di tipo sovietico. Qui, al posto del partito unico c´è la famiglia reale, con il suo rodatissimo sistema di potere, basato su un vertice di 6mila principi e una struttura per così dire ministeriale di 25mila componenti che, in pratica, occupano, o sorvegliano, o condizionano ogni ambito della società e dello Stato. Finendo, sostengono molti osservatori, con il lasciare spazio alla corruzione.
Al riproporsi di queste rivendicazioni nei confronti di una corona che non ha mai concesso ai suoi sudditi alcun diritto di cittadinanza, re Abdullah ha risposto allargando i cordoni della borsa, come se tutto si risolvesse in un problema di pancia: 36 miliardi di dollari, in sussidi, piani per l´edilizia popolare e per l´occupazione, incentivi all´istruzione, aumenti di stipendio fino al 15%, regolarizzazione dei precari assunti dallo Stato, servizi pubblici, stadi, piscine, palestre. Può sembrare una grossa cifra, e in assoluto lo è, ma rappresenta anche meno del 10% degli asset che l´Arabia Saudita, titolare delle più grandi riserve petrolifere al mondo e maggiore esportatore di petrolio, possiede all´estero.
Paradossalmente, la generosa elargizione di re Abdullah si è rivelata come una manifestazione di debolezza. In un sol giorno, alla fine di febbraio, davanti alla piega che prendeva la protesta in Bahrein, un Paese che si potrebbe definire satellite, e alle voci di possibili manifestazioni anche a Riad, la Borsa saudita ha perso il 21%. Da allora ha recuperato una quindicina di punti. Il reame assediato è un gigante dai piedi di argilla?
È che il "sistema saudita", un abile dosaggio di welfare e autoritarismo, libertà di arricchimento e dogmatismo religioso, un dogmatismo che incide profondamente sui costumi della società e sulla condizione delle donne, ha improvvisamente mostrato una crepa. Nonostante le sue ricchezze e i suoi recordil Paese s´è ritrovato con un pesante deficit di democrazia e un surplus di malessere tra i giovani, che anche qui rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. È per questo che, dicono in molti, i dollari di re Abdullah non basteranno a soddisfare la fame di libertà.
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