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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Alon Hilu, La tenuta Rajani 07/03/2011

La tenuta Rajani                    Alon Hilu
Traduzione di Alessandra Shomroni
Einaudi                                    Euro 21

L'ebraico non conosce i tempi dei verbi. Perfetto e imperfetto delineano, per convenienza, il passato e il futuro. Il presente si esprime con un evasivo participio: «io andante» e non «io vado». Quando si traduce da questa lingua, la consecution temporum è un indomito busillis - alla fin fine, il tempo dell'azione resta irrimediabilmente vago e sfuggente, anche per chi l'ha scritto. Quanto ai nostri trapassati, prossimi, anteriori - bisogna congetturarli. Assumersi la responsabilità di dare al tempo una sequenza vagamente logica, di fronte alla beata indifferenza dell'ebraico. Deve essere stato arduo più che mai, dunque, districarsi fra le pagine de La tenuta Rajani di Alon Hilu in lingua originale, con quel suo apparentemente statico e invece vorticoso avvicendarsi del tempo. Ma la scelta metodologica di alternare il passato remoto e quello prossimo a volte lascia un po' spiazzato il lettore, mette a repentaglio la sequenzialità della storia.È questo certamente un romanzo complesso, dove i tempi e i luoghi si stratificano nelle pagine dei due diari protagonisti, l'uno di un pioniere ebreo aitante e vitale, l'altro di un bambino arabo assai problematico - ma forse soprattutto bisognoso d'affetto. Isaac Luminski approda in Terra Promessa nel 1895, insieme a una moglie tanto bella quanto indisponente. Lui ha tanta voglia di far fiorire il deserto quanto di amoreggiare. Farà l'una e l'altra cosa, in un intreccio di vite che si svolge quasi tutto sullo sfondo di quella che molto presto diventerà Tel Aviv ma che ancora non lo è. La tenuta Rajani, una dimora araba signorile contornata da fertili terreni, diventerà ben presto l'oggetto di un duplice desiderio. Le pagine del diario di Isaac (come gli altri protagonisti della storia, ispirato a un personaggio vero) si alternano con quelle, visionarie, di Salah, il figlio della bella Afifa, la padrona del podere: lei vede in questo ebreo un giovane appetibile, il bambino ne fa una specie di angelo, ma anche un impagabile compagno di giochi. Ne viene fuori una vicenda serrata, che ha per teatro quello spazio aperto e cangiante - i nuovi e minuscoli quartieri ebraici, la colonia dei templari tedeschi, Jaffa, la campagna - che un giorno non lontano diventerà Tel Aviv. Un'epopea delle origini, insomma, che prefigura il conflitto ma al tempo stesso pare anni luce distante, soprattutto entro il confine della tenuta Rajani, una specie di piccolo paradiso, della natura e dei sensi. I rapporti fra ebrei e arabi vengono descritti qui in modo niente affatto convenzionale, ricco invece di sfumature interessanti, piccoli e grandi scenari imprevedibili.Questo secondo romanzo di Alon Hilu, nato a Jaffa nel 1972, ha destato tanto entusiasmo quanto scalpore. Ha vinto premi ed è stato tacciato di «decostruzionismo» spinto, perché sgretolerebbe con il suo approccio i fondamenti del sionismo, ponendo in luce, per così dire, i suoi chiaroscuri. Il male del colonialismo come tentazione. La sua presunta natura di appropriazione indebita, sul piano morale ed economico. Va detto al proposito che se la parole pesano, forse il termine «colono» per definire qui in italiano Luminski, il protagonista ebreo, non è del tutto adeguato. Ci riporta infatti a un presente di taglio ben diverso, quello dei Territori Occupati. Ma soprattutto non calza con le avventure del nostro qui. Che tratteggiano con sapienza una figura ambigua, discutibile, a volte sprovveduta a volte fin troppo smaliziata. Più che colono, Luminsky ci sa di avventuriero. Del resto, questo romanzo non «decostruisce» il sionismo più dell'ironia sofferta e sapiente del grande Agnon in Appena Ieri, cui Hilu si riconnette sicuramente con consapevolezza. L'andamento brillante della narrazione, la capacità di muovere e far parlare i suoi personaggi secondo tonalità diverse e cangianti, non può non far pensare anche a A. B. Yehoshua. Perché questa storia avvincente - sono solo un po' tirati, a volte, i soliloqui sconclusionati del piccolo Salah, formidabile quando interpreta la realtà, un po' meno quando immagina il futuro - ha dalla sua una attendibilità storica condita della giusta dose di surrealismo, di ironia e manipolazione.

Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa


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