Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/03/2011, a pag. 52, l'articolo di Stefano Semeraro dal titolo "Palestina, fischio d’inizio. Il calcio entra nei Territori".
L'obiettivo di Semeraro quando ha scritto questo pezzo non era quello di descrivere l'inaugurazione di uno Stadio nei Territori Palestinesi e la prima partita che vi si giocherà, ma disinformare i lettori su Israele e i suoi rapporti con l'Anp. A partire dalla frase : " Sull’erba del «Faisal-Al Husseini», (...) la nazionale maggiore ha debuttato in amichevole nel 2008, 1-1 (storico) con Giordania. Era costato 4 milioni di dollari, poco tempo dopo è stato sventrato dalle bombe israeliane durante l’Intifada.". Come se l'Intifada fosse partita da Israele contro i palestinesi e non il contrario. I terroristi suicidi non vengono menzionati. Evidentemente uno stadio bombardato suscita la pietà di Semeraro, le vittime degli attentati terroristici palestinesi in Israele, gente comune che era sul tram sbaliato all'ora sbagliata o in pizzeria con gli amici, no.
Semeraro continua : " Il problema è che sono tutti ventenni che giocano in Palestina, tranne Hicham Ali che sta in Svezia, al Malmö FF, temo un blocco nervoso. (...) Israele rende tutto più difficile impedendo i movimenti. La gente a Gaza non potrà vedere il match in tv, e 5 dei nostri giocatori che vivono lì non hanno potuto aggregarsi alla squadra. Io stesso sono stato bloccato in Giordania fino a ieri ". Uno dei giocatori della nazionale (ma può chiamarsi così la squadra di uno Stato inesistente?) palestinese è a Malmö, la città svedese a maggioranza musulmana nota per le sue partite di tennis a porte chiuse se a disputarle c'è un israeliano, per non turbare i musulmani locali.
Alcuni giocatori di Gaza sono rimasti bloccati laggiù. Che sia colpa di Hamas ? No, ovviamente è colpa di Israele. E' difficile spostarsi da Gaza, chissà come mai. Forse per limitare i movimenti dei terroristi di Hamas. Ma questo è un fatto di poco rilievo, finchè non vengono distrutti edifici palestinesi, tutto è tollerabile.
L'allenatore si lamenta di essere rimasto bloccato in Giordania. Poverino. Magari avrà fatto due chiacchiere con gli ebrei che cercano di andarci e rimangono bloccati al confine con Israele se rifiutano di non portare con loro la kippah ?
La foto in alto a destra mostra quello che succede quando una 'civiltà' unifica stadio e moschea. Il nostro futuro prossimo ?
Ecco l'articolo:
Se hai un campo ci puoi alzare sopra una bandiera, se hai una bandiera esisti. Se esisti puoi mostrare al mondo che sai anche dribblare gli avversari, non solo tirare pietre al nemico che vive sulla tua terra.
Dopodomani il mondo guarderà la Palestina giocare la sua prima partita di calcio ufficiale sul campo di casa, dentro lo stadio di al-Ram, periferia Nord-Est di Gerusalemme, vicino a Ramallah e a un tiro dal muro che divide Israele dai territori occupati. L’avversario è la Thailandia, il match vale per le qualificazioni alle Olimpiadi del 2012, ma la posta in gioco non è solo sportiva. «Storico» è un aggettivo ormai fatto di cartapesta, ma stavolta regge il futuro: «Questo match sarà l’occasione per capire se meritiamo uno stadio in patria o no», ha detto Abdul Majeed , il segretario della federazione calcio palestinese, nata nel 1928 ma affiliata alla Fifa solo dal 1998.
Sull’erba del «Faisal-Al Husseini», come si chiama ufficialmente l’impianto, intitolato a un leader dell’Olp morto nel 2001, la nazionale maggiore ha debuttato in amichevole nel 2008, 1-1 (storico) con Giordania. Era costato 4 milioni di dollari, poco tempo dopo è stato sventrato dalle bombe israeliane durante l’Intifada. La Fifa, con Blatter presente all’inaugurazione, aveva contribuito a tirarlo su (1,5 milioni di dollari, il resto da Francia, Arabia Saudita, Abu Dhabi e governo locale), e lo ha anche ricostruito. La capienza è stata aumentata da 6.500 a 12.500 persone, ma mercoledì a al-Ram sulle tribune, affacciati dalle case in mattoncini che lo circondano, ce ne saranno 50-60 mila. «Possiamo vincere, e passare al secondo turno», spiega al telefono Mukthar al-Talele, tunisino, detto «il Dinosauro», ex allenatore della Tunisia, grande ammiratore di Josè Mourinho e da un anno alla guida della nazionale olimpica palestinese. «Il nostro morale è alto. A Bangkok abbiamo perso 1-0 ma fatto una buona prestazione dopo un viaggio faticoso, mercoledì dovremo attaccare, segnare gol senza subirne. Giocheremo con il 4-2-3-1: io seguo il calcio italiano, la mia squadra preferita è l’Inter ma stavolta a centro campo i miei dovranno essere come Pirlo e Gattuso. Il problema è che sono tutti ventenni che giocano in Palestina, tranne Hicham Ali che sta in Svezia, al Malmö FF, temo un blocco nervoso. Per la Palestina questo sarà un grande evento, ci sarà una grande attenzione mediatica, e i ragazzi non sono abituati a giocare davanti a migliaia di persone. Ma dovranno riuscirci, perché questa partita può inaugurare una nuova era del calcio palestinese».
Passare il turno è l’obiettivo, qualificarsi per Londra «è una storia molto complicata e lunga. Il calcio qui non è allo stesso livello di Tunisia, Algeria o Egitto. Serve l’argent, il denaro, e soprattutto la possibilità di viaggiare e allenarsi insieme. Invece Israele rende tutto più difficile impedendo i movimenti. La gente a Gaza non potrà vedere il match in tv, e 5 dei nostri giocatori che vivono lì non hanno potuto aggregarsi alla squadra. Io stesso sono stato bloccato in Giordania fino a ieri». C’est la vie, nei territori occupati.
La nazionale maggiore, che è guidata dall’algerino Moussa Bezaz, ha appena concluso un mini-tour in Pakistan, per anni è stata costretta a giocare i match casalinghi in Egitto o in Qatar, facendo i conti con mille problemi logistici, con la diaspora del talento e l’esilio del cuore. «Giocare sul tuo campo ti dà un’altra carica», spiega Roberto Kettlun, 31 anni, nato in Cile nella comunità (450 mila persone) di origine palestinese e che oggi gioca in Italia con la Virtus Casarano. «Io sono stato capitano della nazionale olimpica della Palestina, ho vestito la maglia dal 2002 al 2006, un po’ di tifosi con noi c’erano sempre ma questa è un’occasione diversa. Sono stato anche ricevuto da Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, a novembre stavo per trasferirmi là, poi il Casarano mi ha chiamato e visto che ho una bimba di 5 mesi ho preferito l’Italia perché c’è più tranquillità. Ai miei tempi un imprenditore che viveva in Kuwait, Tyseer Warakat, pagava tutti i costi: voleva dimostrare che la Palestina non è solo guerra e disperazione. Il problema erano e rimangono i visti, a volte eravamo 11 in campo e solo 3 in panchina. Io litigai con la federazione: guai con le trasferte, soldi che sparivano, molta politica. Ma ora ci tornerei. Il livello sta crescendo, ci sono giocatori meglio preparati, Fahad Attal, Abdullatef Al-Badhari, qualcuno sta facendo bene anche all’estero come Ahmad Kash Kash, che gioca e segna spesso in Giordania. Un match contro l’Israele? Perché no, una selezione mista ha giocato delle amichevoli in Spagna, però la coscienza sociale di chi vive lì non è facile da cambiare, dopo tutto quello che è successo».
Ci sono organizzazioni, come il Centro Peres di Tel Aviv, che da tempo organizzano match interetnici, ma, come spiega Majid Balaawi, manager e talent scout che da Dallas, Texas, coordina molti dei giocatori palestinesi sparsi nel mondo, soprattutto in Sud America, «trattare ufficialmente con la federazione israeliana significherebbe accettare l’occupazione. E non lo possiamo fare, anche se siamo un popolo che vuole la pace. Per noi lo stadio di al-Ram è a Gerusalemme, gli israeliani lo negano. In Palestina il calcio è lo sport più popolare, può unire la gente. La nuova dirigenza ha inaugurato una lega semi-professionistica, dove da quest’anno possono giocare solo palestinesi, che sta aiutando la nazionale. Al Jazeera trasmette qualche match, e ci sono 2 o 3 stelle che guadagnano 16.000 dollari all’anno, moltissimo per la Palestina. Ai nostri calciatori però ancora manca una vera mentalità professionistica. E l’esperienza: fra gli olimpici che hanno perso a Bangkok molti erano al primo viaggio. Il match di mercoledì è quello che il mio cuore aspetta da anni, sarà fondamentale per il nostro futuro». Il figlio di Majid si chiama Ibrahim: «È uno dei migliori under 16 degli Usa, il migliore del suo college, e da grande giocherà per la Palestina». In un mondo, si spera, dove alzare una bandiera in uno stadio sarà meno difficile.
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