Perché Israele non riscatta (e non riscatterà) Gilad Shalit L'analisi di David Braha
Testata: Informazione Corretta Data: 06 marzo 2011 Pagina: 1 Autore: David Braha Titolo: «Perché Israele non riscatta (e non riscatterà) Gilad Shalit»
Perché Israele non riscatta (e non riscatterà) Gilad Shalit
di David Braha
David Braha Gilad Shalit
Sono passati poco più di 1700 giorni dal rapimento di Gilad Shalit, avvenuto il 25 Giugno 2006. E sono passati circa 500 giorni da quando si è avuta l’ultima prova che egli è ancora in vita: quel video di appena due minuti, risalente al Settembre del 2009, che Israele ha dovuto “pagare” con il rilascio di venti donne detenute nelle proprie carceri. Da quel momento, silenzio. Dopo quasi cinque anni di prigionia, Gilad è ancora nelle mani di Hamas e la situazione appare quanto mai in fase di stallo. Numerose sono state le campagne nazionali ed internazionali promosse per ottenerne il suo rilascio: i genitori del soldato rapito, Noam ed Aviva Shalit, hanno girato il mondo in cerca di solidarietà popolare ed istituzionale, mentre la tenda allestita da volontari e situata di fronte all’ufficio centrale del Primo Ministro a Gerusalemme è ormai diventata una presenza fissa nella realtà cittadina. Ma, ammesso che sia ancora vivo, perché dopo tutto questo tempo Gilad ancora non è stato fatto tornare a casa? Come tutti sappiamo, lo scoglio sul quale l’intera questione si è arenata è l’altissimo prezzo richiesto da Hamas come riscatto: oltre mille palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, molti dei quali colpevoli di attentati terroristici o di omicidi plurimi. In questa maniera, una questione politico-strategica si è trasformata in un dilemma etico che ha a sua volta acceso la miccia di un dibattito pubblico sui valori alla base di una società intera: pagare il prezzo per ottenere la liberazione di Gilad, o lasciare il giovane in balìa del gruppo terroristico nemico? Le posizioni attorno alle quali si è spaccata l’opinione pubblica sono principalmente due. Da un lato vi sono quelli secondo cui un soldato rapito va liberato a qualunque prezzo: infatti se ogni cittadino israeliano è tenuto a contribuire alla sicurezza del proprio paese tramite tre anni di servizio obbligatorio nell’esercito, lo Stato e le sue istituzioni sono a loro volta responsabili per la salute ed il benessere dei propri ragazzi. Per questo motivo sarebbero moralmente obbligati a riportarli – vivi o morti – alle loro case, dalle loro famiglie. A questa visione si oppone invece quella secondo la quale il prezzo richiesto da Hamas per il rilascio del soldato è troppo alto, in quanto non sarebbe giusto concedere la libertà incondizionata a gente responsabile di omicidi talvolta crudeli ed efferati. Inoltre questi mille detenuti, una volta liberi, potrebbero ben presto tornare alle loro attività di terrorismo, e ciò metterebbe potenzialmente a rischio la vita di numerosi altri cittadini israeliani. Il problema, quindi, è un evidente inconciliabilità tra due doveri morali assoluti: da una parte quello di salvare la vita al giovane soldato, vittima di un conflitto più grande di lui; dall’altra quello di non lasciar andare dei criminali, mettendo così a rischio la sicurezza del resto della popolazione. Che cosa farebbe ciascuno di noi, se ci trovassimo nella posizione di chi questa drammatica decisione la deve prendere? Come è evidente, in una situazione del genere è impossibile fare una scelta che possa essere considerata universalmente giusta: qualunque direzione si decidesse di intraprendere significherebbe compiere una grave ingiustizia nei confronti di qualcuno. Per questo motivo, probabilmente, si dovrebbero mettere da una parte le questioni etiche, al fine di analizzare la situazione nella maniera più realistica – e cinica – possibile: ovvero prendere una decisione mettendo sui piatti della bilancia non i due principi morali in conflitto, bensì le implicazioni che ciascuno di essi comporterebbe. In altre parole, si dovrebbe decidere in base al principio del “danno minore”. E allora quale sarebbe, in questo caso, il danno minore? Ovviamente, purtroppo, il sacrificio di Gilad Shalit. Perché se, da una parte, la sua liberazione significherebbe il potenziale sacrificio di altri civili innocenti per mano degli stessi terroristi liberati, dall’altro lato il sacrificio di un singolo individuo comporterebbe una maggiore sicurezza per la popolazione e, di conseguenza, per lo Stato. In fin dei conti non è una novità che, fin dai tempi di Aristotele, gran parte delle teorie politiche hanno sempre affermato che il bene dello stato e della comunità viene prima di quello del singolo individuo. E allora, se questa è la conclusione alla quale puntano gran parte dei ragionamenti razionali e teorici, esiste veramente una questione Gilad Shalit? Ebbene sì, una questione Gilad Shalit esiste eccome. Soprattutto considerando che il paese in questione è Israele: un paese con dei precisi valori sociali e di rispetto per la vita umana. Perché un conto è il mero ragionamento razionale e cinico sulla scelta del danno minore; ma l’applicazione di queste conclusioni alla realtà, condannando così a morte un giovane innocente, è tutt’altra cosa. E di conseguenza l’unica soluzione ad un interrogativo di questa portata è fare ciò che Israele – ed i suoi due governi avvicendatisi dal 2006 ad oggi – hanno fatto fino ad ora: niente. Infatti sapendo esattamente quale sarebbe la decisione migliore sul piano razionale – non riscattare Gilad – ma non potendo permettersi di prenderla per ovvi motivi morali, si è optato per una non-decisione. O meglio per una decisione senza pubblica ammissione. Perché, paradossalmente, anche scegliere di non scegliere è di per se una scelta: e questo caso non fa eccezione. È questo il motivo per cui non bisogna illudersi. A meno di alquanto improbabili atti di generosità o di compassione da parte di Hamas, Israele non riscatterà Gilad Shalit se gli oltre mille detenuti resteranno il prezzo richiesto per la liberazione di un solo soldato. Proprio nei giorni scorsi i quotidiani israeliani hanno parlato di un nuovo giro di trattative che avranno luogo a Damasco sotto la mediazione di un diplomatico tedesco. Ma quante volte, in cinque anni, incontri di questo genere si sono conclusi con un nulla di fatto? Su una cosa, di certo, i genitori di Gilad hanno ragione: Israele potrebbe fare di più per portare loro figlio a casa. Potrebbe, ma non vuole. Ma forse sarebbe più corretto dire: vorrebbe, ma non può. dav.braha@gmail.com