Liberi? Democratici?
di Federico Steinhaus
Federico Steinhaus
Da settimane il mondo si interroga sul futuro del mondo arabo: non solo di quello maghrebino nel quale si sono scatenate le rivolte più furibonde e più sanguinosamente represse, ma anche di quelle sue parti che ne sono solamente lambite o ne sono rimaste, per ora, immuni.
Non c’è giornalista o commentatore che non usi le due parole magiche, “libertà” e “democrazia”, per indicare lo scopo ultimo di queste rivolte. E nessuno, o quasi, sembra preoccuparsi di analizzarne le diversità di significato che esse hanno per noi e per loro.
Sono, è vero, rivolte gestite attraverso i sistemi informatici più sofisticati e moderni, da facebook a twitter a youtube; sono, è vero, rivolte in cui predominano i giovani, che per loro natura hanno in sé una carica di vitalità ed un bisogno di rinnovamento che ci ricordano (sbagliando) il nostro Sessantotto.
La libertà che concepiamo noi non è però quella alla quale pensano loro, perché la nostra ha una carica di individualismo e di diritti umani talmente radicata ed ampia da non essere immaginabile nell’Islam; ugualmente la democrazia occidentale, quella che deriva dalla Rivoluzione Francese e da quella Americana, dall’ illuminismo e dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (che menziona anche il diritto individuale alla felicità...) , dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e da istituzioni garantite dalla separazione dei poteri, non è di certo la democrazia che l’Islam è disposto a riconoscere.
Tutto ciò detto, il vento di rinnovamento che proviene dalla sponda meridionale del Mediterraneo e si estenderà, forse, alla Penisola Arabica squassa un assetto immobilista basato sul potere bruto delle armi e del denaro, che portano con sé corruzione, repressione, perpetuazione dell’autocrazia. Facciamo ora la classica eterna domanda degli ebrei dinanzi alle grandi novità della storia: e per noi cosa significa?
Nel mondo palestinese regna una certa preoccupazione; Hamas pare disposto ad accettare una condivisione del potere con Fatah, il che potrebbe anche far intravedere spiragli di attenuazione dell’intransigenza teocratica di chi non vuole una soluzione diversa dalla cancellazione di Israele. Nel frattempo i razzi che arrivano da Gaza in Israele sono sporadici, più che altro per ricordare che il problema esiste, ma nel frattempo Israele ha sperimentato con successo un sistema di difesa che intercetta e distrugge in volo questi razzi, ed evita di reagire con la forza alle aggressioni. La Siria ha represso sul nascere un barlume di insurrezione ed è resa audace dalla presenza di due davi da guerra iraniane, che hanno lo scopo di ricordare a tutti (inclusa la Turchia) che senza la protezione di Teheran i regimi arabi sono esposti a molti pericoli.
Anche i jihadisti non perdono di vista le opportunità che questa crisi offre loro su un piatto d’argento. Emarginati ed incarcerati da Mubarak, possono ora tornare, con i Fratelli Musulmani, a fare da fulcro della politica egiziana. Non dimentichiamoci che Al Zawahiri, il numero 2 di Al Qaeda, è egiziano e prese parte al complotto per assassinare Sadat. Non per nulla già il 16 febbraio l’ideologo di Al Qaeda Atiyyat Allah Abu Abd Al-Rahman (noto anche come Al-Libi) ha scritto un articolo, poi postato nel forum jihadista Shumukh Al-Islam, in cui evidenzia le opportunità che i disordini nel Medio Oriente prospettano e ne auspica l’allargamento ad altri stati, indicando fra questi lo Yemen. In particolare, Al-Libi propone ai jihadisti di dare alla loro presenza nel Sinai (ai confini di Israele, dunque) una veste stabile e ben armata. E come lui molti leaders religiosi, in particolare egiziani, hanno auspicato fin dai primi giorni una deriva islamista delle rivolte.
In questo quadro, più che il debole e tormentato Libano oramai in balia di Hezbollah, è la Turchia che potrebbe assumere un ruolo di stabilità e di relativa affidabilità nel mondo islamico del Mediterraneo. Ma nello scorso novembre il suo primo ministro Erdogan ha ricevuto con gran pompa dalle mani del leader libico il Premio Internazionale Al-Ghaddafi per i diritti umani, il che spiega il suo imbarazzo nel momento decisivo della lotta dei rivoltosi contro il regime dei Gheddafi. “Come il sole splende per ognuno, così la libertà è un diritto per ognuno” recita con amaro umorismo la homepage del sito di questo premio, dedicato “senza discriminazioni di razza, etnia, sesso, colore o religione” a quanti “hanno contribuito in maniera significativa...alla difesa dei diritti umani...sostenendo la pace ovunque nel mondo” ed elargito in passato a campioni di libertà e dignità umana quali Chavez, Farrakhan,Castro.
La coerenza e la serietà politica di Erdogan, dunque, non costituiscono una garanzia e non offrono agganci all’ottimismo, anzi sembrano avvicinarlo al piano inclinato della destabilizzazione complessiva della regione. Israele è attualmente al centro di azioni concentriche e contrapposte, una rivolta popolare il cui esito non è prevedibile come non lo è la sua estensione, ed una dimostrazione di forza in difesa di uno status quo delle principali potenze, Iran Siria e Turchia, che da nord tentano di arginare a loro beneficio lo scontento delle masse.