Riportiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 01/03/2011, a pag. 15, gli articoli di Stanley McChrystal e Christian Rocca titolati " Al-Qaeda si batte con le sue armi " e " A Kabul il «nation building» sa di trappola ".
Ecco i pezzi:
Stanley McChrystal : " Al-Qaeda si batte con le sue armi "
Stanley McChrystal
Pur essendo una forza rivoluzionaria per molti versi profondamente imperfetta, i talebani rappresentano una minaccia tipica del XXI secolo. Oltre a godere del vantaggio tradizionale dei ribelli che vivono mescolati a una popolazione cui sono strettamente legati per storia e cultura, sfruttano anche la sofisticata tecnologia che collega le vallate isolate e le aspre regioni montuose in un istante, consentendo di proiettare il loro messaggio in tutto il mondo, senza ostacoli di tempo o filtri. Sono profondamente radicati nella complessa società afghana e, allo stesso tempo, incredibilmente agili. E proprio come i loro alleati di al-Qaeda, questi nuovi talebani sono più una rete che un esercito, più una comunità di interesse che una struttura di tipo societario.
Per l'esercito statunitense, di cui ho fatto parte per tutta la vita, non è stato facile arrivare a capirlo. Negli scontri feroci e sanguinosi in Afghanistan e in Iraq, è diventato chiaro per me e molti altri che per sconfiggere un nemico organizzato in rete avremmo dovuto adottare la stessa struttura. Dovevamo trovare un modo per mantenere le nostre tradizionali doti di professionalità, tecnologia e, dove necessario, forza imbattibile, raggiungendo contemporaneamente i livelli di conoscenza, rapidità, precisione e unità dello sforzo che solo una rete può fornire.
La lezione irachena
Quando sono andato in Iraq per la prima volta, nell'ottobre del 2003, per dirigere la Joint Special Operations Task Force (Jsotf) statunitense, creata ad hoc con dimensioni relativamente ridotte nei mesi successivi all'invasione iniziale, ci siamo trovati alle prese con una minaccia sempre più accentuata proveniente da fonti molteplici, ma in particolare da al-Qaeda in Iraq. Abbiamo cominciato a esaminare il nostro nemico e noi stessi, incontrando non poche difficoltà su entrambi i fronti.
Come fin troppe forze militari della storia, inizialmente abbiamo visto il nemico come vedevamo noi stessi. Ma più andavamo a fondo e meno il modello teneva. I luogotenenti di al-Qaeda in Iraq non aspettavano i dispacci dei loro superiori e men che meno gli ordini emanati da bin Laden. Le decisioni non erano centralizzate, ma prese rapidamente e comunicate in tutta l'organizzazione per vie laterali. I combattenti di Zarqawi erano adatti alle loro zone di caccia, come Fallujah e Qaim nella provincia di Anbar, nell'Iraq occidentale, eppure con la tecnologia moderna erano in stretto contatto con il resto della provincia e del paese. Denaro, propaganda e informazioni circolavano a ritmi allarmanti, consentendo un coordinamento agile ed estremamente efficace. Assistevamo ai loro cambi di tattica (dagli attacchi con i razzi alle bombe dei kamikaze, per esempio) quasi simultanei in città distanti fra loro. Era una coreografia letale ottenuta con una struttura in continuo cambiamento, spesso irriconoscibile.
Col tempo, è diventato sempre più chiaro, spesso grazie alle comunicazioni intercettate o ai racconti dei ribelli catturati, che il nostro nemico era costituito da una costellazione di combattenti organizzati non per gradi gerarchici, ma sulla base di rapporti e conoscenze, reputazione e fama.
Tutto questo generava flessibilità e un'incredibile capacità di espandersi e sostenere le perdite. Il nemico non convoca comitati di promozione; la rete si forma da sé. Abbiamo osservato un giovane iracheno stabilirsi in un quartiere e acquisire rapidamente importanza. Dopo aver ottenuto qualche successo tattico, si impegnava nell'autopromozione, instaurava relazioni, raccoglieva seguaci e, improvvisamente un nuovo nodo della rete veniva creato e assorbito. L'energia della rete aumentava.
In guerra, si prendono decisioni sulla base di indicatori. Quando si affronta il nemico, si stima la sua forza tattica e si cerca di intuire la sua strategia pianificata. Questo è molto più facile quando il nemico è una colonna che avanza verso di te in bella vista. Il nostro problema, nell'Iraq del 2003 come nell'Afghanistan di oggi, è che gli indicatori spuntavano da tutte le parti, in modo sconnesso e inatteso, per poi spesso sparire rapidamente come erano emersi, balenando all'orizzonte solo per qualche istante.
Ci siamo resi conto che dovevamo acquisire la capacità di rilevare velocemente i cambi di sfumature, dalla comparsa di nuove personalità e alleanze a qualche improvvisa modifica tattica. E dovevamo elaborare quelle nuove informazioni in tempo reale, in modo da poterle trasformare in azione. Un flusso di tizzoni ardenti ci cadeva intorno e dovevamo vederli, afferrare tutti quelli che potevamo e reagire istantaneamente a quelli che avevamo mancato e che cominciavano ad appiccare il fuoco. Un'idea vaga si è presto trasformata in un mantra: serve una rete per sconfiggere una rete.
Il nostro primo tentativo si è incentrato sulla creazione fisica di una rete. Abbiamo convinto le agenzie partner di Jsotf a unirsi a noi in una grande tenda, in una delle nostre basi, affinché potessimo condividere ed elaborare le notizie di intelligence in un unico posto. Operatori e analisti di diverse unità e agenzie lavoravano fianco a fianco tentando di fondere le attività operative e di intelligence, oltre alle rispettive culture, in uno sforzo unificato. Potrebbe sembrare ovvio, ma all'epoca non lo era affatto.
L'accelerazione
Questa intuizione ci ha permesso di avvicinarci alla costruzione di una vera rete, mettendo in collegamento chiunque avesse un ruolo in un'operazione antiterrorismo di successo, a prescindere che fosse di scarso rilievo, geograficamente distante o organizzativamente diverso. In gergo, l'abbiamo chiamata F3ea, per «Find, fix, finish, exploit and analize» (trova, fissa, finisci, sfrutta e analizza). L'idea era combinare gli analisti che trovano il nemico (tramite il lavoro di intelligence, sorveglianza e ricognizione); gli operatori dei droni che fissano l'obiettivo; le squadre combattenti che finiscono l'obiettivo catturandolo o uccidendolo; gli specialisti che sfruttano l'intelligence raccolta con il raid, come cellulari, mappe e prigionieri; e infine gli analisti di intelligence che trasformano questi dati grezzi in conoscenze utilizzabili. In questo modo, abbiamo accelerato il ciclo di un'operazione antiterroristica, ricavando informazioni preziose nel giro di ore, anziché di giorni.
Il materiale raccolto presso un obiettivo a Mosul, per esempio, poteva consentirci di individuare, fissare e finire un altro obiettivo a Baghdad, o addirittura in Afghanistan. Talvolta, trovare un solo obiettivo iniziale poteva portare a risultati notevoli. In alcuni casi, la rete ha completato questo ciclo tre volte in una sola notte, in località distanti centinaia di chilometri fra loro, e tutto grazie ai risultati della prima operazione.
Con l'intensificazione delle nostre attività in Iraq e Afghanistan, il numero di operazioni condotte giornalmente è decuplicato, e anche il nostro tasso di precisione e di successo è aumentato in misura significativa.
Anche se trasmettevamo il nostro messaggio in modo diverso dal nemico, le due organizzazioni hanno acquisito progressivamente le stesse caratteristiche distintive di una rete efficiente. Le decisioni sono state decentralizzate e propagate a tutta l'organizzazione per vie laterali. Le tradizionali barriere istituzionali sono cadute e le diverse culture si sono mescolate. La rete si è estesa includendo più gruppi, compresi vari attori non convenzionali. La competenza ha assunto più valore di ogni altra cosa, compreso il grado. La rete ha cercato una definizione chiara e dinamica del problema e ha analizzato costantemente la struttura, gli obiettivi e i processi propri e del nemico. Ma soprattutto, ha continuato ad acquisire una capacità sempre maggiore di informarsi.
Dopo la nascita in Iraq, sia la rete in sé che il meritato apprezzamento per quel modello organizzativo si sono estesi gradualmente all'Afghanistan, tanto più che l'attenzione del nostro paese si è spostata verso quel teatro.
Quando ho assunto il comando in Afghanistan, abbiamo iniziato a costruire una solida architettura di comunicazioni e abbiamo lavorato per instaurare rapporti con attori chiave, spostandoci di frequente in giro per il paese per diffondere la comunanza di obiettivi e di conoscenze indispensabile per un moderno esercito con una struttura a rete. Ma è stata solo la prima parte del compito. Così come abbiamo imparato a costruire una rete efficiente, abbiamo imparato anche che guidare quella rete, un insieme disomogeneo di organizzazioni, personalità e culture, è in sé una sfida titanica. Quell'impresa resta un capitolo vitale e non svelato della storia di un conflitto globale ancora in corso.
Christian Rocca : " A Kabul il «nation building» sa di trappola "
David Petraeus Christian Rocca
L'ennesima tragedia italiana in Afghanistan riapre la questione della guerra contro i talebani. Come sta andando a Kabul, a quasi dieci anni dall'invasione? Il presidente Barack Obama ha definito «necessaria» la guerra in Afghanistan, ha triplicato il numero dei soldati americani, ha sostituito due generali e dopo molti mesi di studio ha cambiato anche strategia militare, adottando il "surge" del generale David Petraeus che in Iraq aveva permesso a George W. Bush di ribaltare la situazione.
Petraeus, chiamato da Obama a ripetere in Afghanistan il miracolo iracheno, ha spiegato di recente che la missione non è ancora compiuta, nonostante i buoni progressi. La Nato ha rinviato la data del disimpegno al 2014, inizialmente prevista per luglio di quest'anno. Gli studiosi del più importante centro studi di sicurezza nazionale dell'era Obama, il Center for a New American Security di Washington, sono più ottimisti: Nathaniel Fick e John Nagl hanno scritto sul New York Times che la cosiddetta "guerra lunga" potrebbe essere più breve del previsto. Secondo i due analisti, ex ufficiali con esperienza militare irachena, in Afghanistan la situazione migliora di giorno in giorno, specie ora che i 30mila uomini promessi da Obama sono arrivati a destinazione ed eseguono gli ordini di Petraeus. Il capo del Pentagono Bob Gates ha annunciato all'Accademia di West Point che nel XXI secolo non ci saranno più guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan.
L'analisi più interessante sulla situazione afghana è quella del settantenne Bing West, il leggendario ex ufficiale dei marines ed ex vice segretario al Pentagono negli anni di Reagan che col tempo è diventato uno dei migliori reporter di guerra e tra i più lucidi analisti militari degli Stati Uniti. Negli anni scorsi, West ha scritto No True Glory, la formidabile e cruenta storia della presa di Falluja, e The strongest tribe, la cronaca del successo in Iraq ottenuto grazie alla decisione delle tribù sunnite di schierarsi con "la tribù più forte", ovvero con gli americani. Il nuovo libro di West, appena uscito in America, dice già tutto fin dal titolo The wrong war, la guerra sbagliata. Scritto da uno come West, e non da un pacifista, il giudizio è di quelli che pesano.
Gli Stati Uniti, scrive West, hanno invaso l'Afghanistan per distruggere la rete terroristica di al-Qaeda e abbattere il regime talebano. Gli uomini di bin Laden e i talebani si sono rifugiati in Pakistan, ma anziché andare a prenderli oltre confine, l'America ha deciso di rimanere a Kabul e di impegnarsi a costruire una nazione democratica capace di prevenire il ritorno di estremisti e terroristi. Sono stati compiuti molti passi avanti, ma lasciare l'Afghanistan non è ancora possibile.
Oggi la strategia militare consiste nel garantire sicurezza e servizi alla popolazione afghana in cambio dell'impegno a schierarsi con la "tribù più forte", in nome della nuova religione della counterinsurgency che prevede la protezione della popolazione locale, più che l'uccisione dei nemici. La dottrina anti-insurrezionale, codificata nel manuale dell'esercito e dei marines scritto da Petraeus e Nagl, impone ai soldati americani di essere operatori civili, non solo guerrieri.
Proteggere la popolazione, distribuire denaro, stimolare il patriottismo e sostenere un governo competente sono i compiti di nation building secondo la dottrina Petraeus. Ma la strategia che ha funzionato in Iraq, scrive West, non va bene per l'Afghanistan. Le tribù sunnite si sono schierate con gli americani perché avevano capito che gli americani stavano vincendo, ma le tribù pashtun afghane sono organizzate in modo meno gerarchico rispetto a quelle irachene. Soprattutto, rifiutano di scaricare i talebani e restano neutrali. Il governo centrale di Hamid Karzai, dotato di poteri semi dittatoriali, non ha alcuna intenzione di costruire la democrazia, è inefficace e tollera la corruzione. I dubbi e le esitazioni di Obama non aiutano.
La guerra, sostiene West, si deciderà tra le forze afghane e i talebani, non perché le tribù passeranno con i buoni. L'esercito afghano, però, è impreparato e manca di motivazioni rispetto ai talebani. Le forze internazionali, quindi, non si potranno ritirare perché scatenerebbero una guerra civile che i talebani molto probabilmente vincerebbero. A quel punto tornerebbe al-Qaeda, il Pakistan sarebbe a rischio e l'America subirebbe un colpo letale.
L'alternativa suggerita da West è cambiare la missione: neutralizzare il nemico, invece di proteggere la popolazione. Il numero dei soldati andrebbe dimezzato, limitando l'impegno militare all'addestramento dell'esercito afghano e alla partecipazione ai combattimenti al fianco delle forze locali. Le forze speciali, invece, dovrebbero continuare a cacciare i capi islamisti dentro il confine pakistano. Obama e Petraeus non ne sono convinti. Almeno per ora.
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