Nemesi Philip Roth
Traduzione di N. Gobetti
Einaudi Euro 19
Un dramma della coscienza, da un narratore vicino e da una distanza che non è solo quella del tempo - chi è il narratore, lo si scopre a lettura molto inoltrata. Siamo nella rothiana Newark, è l'estate del 1944. Bucky Cantor, insegnante di educazione fisica e animatore del campo giochi del quartiere ebraico, ha ventitre anni, si vergogna di essere stato scartato alla visita di leva per una forte miopia e così di non essere in Europa con i suoi due amici. Atleta valente ancorché di piccola statura, Mr Cantor, così lo chiamano i suoi ragazzi, ha sviluppato un corpo perfetto e la determinazione dell'uomo giusto. Coscienzioso, svolge il suo compito con solerzia e devozione e i suoi ragazzi lo venerano come un eroe, da quando ha affrontato da solo un gruppo di teppisti italiani venuti a portare guai al campo. Poi scoppia una epidemia di polio, alcuni dei ragazzi vengono ricoverati d'urgenza, ci sono i primi due morti, tra cui Alan, atleta dotato e ragazzo ammirevole, tra i preferiti di Bucky. Davanti alla tomba di Alan, quella fossa maledetta, i pensieri del narratore sono quelli ossessivi dell'ultimo Roth. La rivelazione della morte, per Bucky, orfano della madre dalla nascita, è l'innesco della deflagrazione del dubbio nella coscienza: se prima era un credente convenzionale, come il nonno e forse molti degli ebrei del quartiere di Weequahic, ora si interroga sul senso delle preghiere ai defunti e delle lodi al Signore, "quello stesso Dio che permetteva che ogni cosa, compresi i bambini, venisse distrutta dalla morte". Dopo un prologo molto dettagliato, il dramma prende consistenza e iniziamo a riconoscere quella forte aderenza ai corpi e ai fatti che è peculiare di Roth. Il capitolare della virilità e la determinazione del giovane di fronte alla scoperta della distruzione dei corpi, l'inesorabilità del richiamo dell'eros, in questo caso la ragazza Marcia che vuole che Bucky abbandoni il campo giochi e Newark per raggiungerla al campo sulle Pocono Mountains: questo è Roth al meglio. Osserviamo il declinare della determinazione di Bucky, il lasciare il compito, cosciente della umiliazione e quasi presciente della nemesi che lo attende. C'è però una terza e ultima parte, dalla voce in prima persona del narratore che si rivela per quel che è, e che non si può qui rivelare: un lungo colloquio conclusivo che sa di didascalico, inutile ammonimento. Come in Indignazione, la inarrestabile necessità del vaniloquio laico nel corpo del libro ha l'effetto di irritare: per fortuna alla penna c'è Philip Roth, cui basta un sussulto per scrivere un finale memorabile, degno di un narratore migliore del moralista.
Tiziano Giannotti
D La Repubblica delle donne