Un CORRIERE della SERA quello di oggi, 27/02/2011,particolarmente denso di commenti di rilievo. Pierluigi Battista,del quale ricordiamo l'importante " lettera a un amico antisionista", da leggere assolutamente, sulla tragica fine delle rivoluzioni violente, Angelo Panebianco sul buon uso della Realpolitik, Bernard-Henri Lévy con un réportage dal Cairo.
Pierluigi Battista: " Le rivoluzioni, eterne fabbriche di falsi "


Pierluigi Battista da leggere !
Hanno detto che la «verità è rivoluzionaria» . Ma troppo spesso è vero il contrario: nei grandi tumulti è la menzogna la favorita. Assieme al suo alleato: il complottismo. Anche in Libia la sindrome del complotto si sposa alla fabbricazione di falsi. L’incapacità di capire che una rivoluzione non può essere solo cospirazione. O solo purezza di verità. Il paradosso è che in Italia stavolta è la stampa di destra a scagliarsi in invettive antiamericane, come l’esplosione di Tunisi, del Cairo, di Bengasi e di Tripoli fosse stata architettata nelle segrete stanze di Washington, attualmente occupate dall’arcinemico Barack Obama. Si legge sul Giornale: «teniamo presente che con la propaganda che stanno facendo in giro per il mondo il gioco è chiaro, togliere la Libia all’Italia (…) per accaparrarsi il petrolio libico, le infrastrutture e la posizione strategica» . Su Libero Bat Ye’or, l’autrice di un libro a suo tempo molto apprezzato da Oriana Fallaci, Eurabia, non ha esitazione a rileggere l’intera vicenda dell’ «89 arabo» secondo i canoni della più frusta retorica cospirazionista: «Mi sembra che queste persone abbiano avuto l’ordine di gridare "Vogliamo la libertà e la democrazia"» . L’ «ordine» ? E da chi? Ma naturalmente da chi tiene il bandolo del grande complotto musulmano per impossessarsi dei Paesi arabi e invadere l’Europa con una marea di immigrati infiammati dal verbo dell’Islam. Curiosa coincidenza: la stessa interpretazione viene rimodulata pro domo sua dallo stesso Gheddafi quando accusa Al Qaeda di «drogare» i giovani libici rivoltosi trascinati nelle piazze imbottiti di stupefacenti. «Chi c’è dietro?» è la domanda che il complottista mette sempre al primo posto, sostituendo con questo interrogativo inquisitorio la domanda che dovrebbe essere centrale: «che cosa sta accadendo?» . I cospirazionisti non possono neanche immaginare che nella rivolta delle capitali del mondo arabo non ci sia una centrale occulta, che tutto controlla e dispone nella penombra. A metà dell’Ottocento, di fronte all’incendio che divampò contemporaneamente in tante capitali europee nel ’ 48, l’opinione conservatrice, per spiegare questa sospetta e incomprensibile simultaneità, prese a bersagliare il Grande Nemico: cioè la massoneria, in tutte le sue varianti. Nel crollo repentino dell’Unione Sovietica e dei Paesi suoi satelliti dell’Est, era altrettanto difficile pensare a un collasso interno, all’autocombustione distruttiva di un sistema che sembrava infrangibile. Chi c’era «dietro» quel drammatico e spettacolare afflosciamento del gigante comunista? Oggi i siti online, il paradiso della comunità cospirazionista che si abbevera alle teorie più strampalate, abbondano di dietrologie e complottismi che accusano l’orco imperialista di destabilizzare i regimi arabi per i loro loschi interessi. È la gara alla sparata più conturbante, alla cospirazione più pazzesca. Ma il mondo online, quando nei giorni tumultuosi della Libia non c’era nemmeno l’ombra di un giornalista indipendente, questa volta è stato lo strumento di esagerazioni abnormi, incontrollate, clamorosamente false. La bugia ha trovato accoglienza nel mondo quando è saltato ogni filtro di controllo e di verifica. Gheddafi è un tiranno sanguinario disposto a fare strage dei libici che si ribellano, ma diecimila morti e cinquantamila feriti in un solo giorno sono una cifra che, a parità di ore di bombardamento aereo, non venne raggiunto né a Coventry né a Dresda. E poi le finte fosse comuni, riprese in un luogo che lo storico Angelo Del Boca ha identificato come un cimitero ampiamente noto. Finte fosse comuni, come quelle di cui si nutrì nell’ 89 la leggenda nera di Timisoara e che dovevano dimostrare l’incomparabile crudeltà del dittatore Ceausescu. Non era vero. Non che non fosse vera la crudeltà di Ceausescu, così come è incontestabilmente vera la forsennata ferocia del delirio repressivo che sta muovendo le mosse di Gheddafi. Non era vero, in quelle proporzioni, l’eccidio di Timisoara e non erano nemmeno veri, e qui lo slittamento nel macabro appare inevitabile, i cadaveri disseppelliti. La menzogna consustanziale ai grandi incendi rivoluzionari trova nell’inferno libico una dilatazione mai vista prima. Non è la solenne bugia che sublimò l’epopea della presa della Bastiglia, abitata quel 14 luglio da soli sette detenuti e difesa da un pugno di guardiani malamente armati. O lo sparo di cannone dell’incrociatore Aurora che nell’ottobre del ’ 17 diede grandiosamente il via alla presa del Palazzo d’Inverno, praticamente sguarnito e conquistato con pochi colpi, più la manifestazione di un colpo di Stato che la miccia di una grande sollevazione rivoluzionaria. Non è solo l’epico ritocco che i protagonisti sono soliti dare alle sommosse che hanno cambiato il volto del mondo. Stavolta, nel buio delle informazioni verificate, prima dell’arrivo della stampa internazionale, la menzogna è diventata orrore planetario istantaneo. Non c’era bisogno di esagerare: Gheddafi non è nuovo agli orrori di un dispotismo privo di freni. E non c’era bisogno dei complottisti per constatare come, ancora una volta, la verità è la prima vittima della storia.
Angelo Panebianco: " Il giusto e l'utile"

Angelo Panebianco
I n politica si dà spesso uno spiacevole divario fra ciò che «è giusto» e ciò che «è utile» , fra ciò che pensiamo sarebbe giusto fare alla luce dei principi che professiamo e ciò che sappiamo essere utile per i nostri interessi. In politica internazionale, poi, quel divario è la regola. Ciò contribuisce a spiegare l’elevato tasso di ipocrisia che, con buona pace di WikiLeaks, circonda i rapporti interstatali. Si finge di fare ciò che è giusto ma si opera per realizzare solo l’utile. Soltanto in rare, eccezionali, circostanze, il giusto e l’utile coincidono. Adesso, per l’Italia nei suoi rapporti con la Libia, e per l’Occidente tutto nei suoi rapporti con il Medio Oriente, è arrivato uno di quei momenti: fare ciò che è giusto per sostenere le ribellioni contro i tiranni coincide con l’utile, con il nostro interesse. Nelle fasi di effervescenza rivoluzionaria va di moda criticare la Realpolitik, le commistioni e le complicità con i tiranni. Ma in circostanze normali, non rivoluzionarie, la Realpolitik è una necessità. Saremo tutti contenti se e quando i cinesi si libereranno del giogo autoritario ma, fino ad allora, continueremo a trattare con la dittatura. Non possiamo autoflagellarci per avere trafficato per decenni con i dittatori mediorientali, da Ben Alì a Mubarak, a Gheddafi. Lo imponevano gli interessi delle democrazie occidentali: nessun governante democratico può conservare il potere se non tutela l’interesse del proprio Paese così come esso viene definito dai gruppi interni, politici, sociali ed economici, che contano. E l’interesse richiedeva di coltivare quelle relazioni. Adesso però il gioco è cambiato e anche i nostri interessi in rapporto al Medio Oriente sono in via di ridefinizione. Il giusto e l’utile tendono ora a coincidere: contribuire, da parte nostra, a favorire in quei Paesi l’affermazione di regimi politici più accettabili per i loro cittadini è coerente sia con i nostri valori che con i nostri interessi. A che cosa siamo interessati? Siamo interessati al fatto che le transizioni in Medio Oriente non acquistino, col tempo, un segno antioccidentale. Come opportunamente ricordava Pierluigi Battista sul Corriere di ieri, anche in Iran la rivoluzione contro il regime oppressivo dello Scià cominciò in nome della libertà ma sappiamo come andò a finire. Ci sono vitali interessi occidentali, di sicurezza ed economici, in gioco. Aiutare in modo non blando o episodico gli insorti può contribuire a prefigurare una situazione nella quale riusciremmo forse a esercitare una qualche influenza sulle condizioni post rivoluzionarie. Le sanzioni già decise dagli Stati Uniti contro Gheddafi, quelle che l’Onu sta adottando, e quelle che probabilmente varerà l’Unione Europea nei prossimi giorni, sono solo un primo passo. C’è un problema italiano in rapporto alla Libia e c’è un problema europeo in rapporto al Medio Oriente nel suo insieme. La vicenda libica ha posto il nostro Paese in prima linea. Ha detto il vero Pier Ferdinando Casini quando, primo fra tutti, ha denunciato il fatto che ciò che accade in Libia è per noi una emergenza nazionale che andrebbe affrontata con il massimo di coesione della classe dirigente.
Siamo i più esposti per gli intensissimi rapporti che abbiamo sempre coltivato con il regime libico, per gli approvvigionamenti energetici, per il volume dei nostri interessi in Libia, per le questioni di sicurezza coinvolte (la possibile ripresa di massicci sbarchi dall’Africa entro breve tempo). E siamo i più esposti anche perché, sfruttando la cattiva fama che ci hanno procurato in Libia le nostre storiche relazioni con Gheddafi, vari competitori occidentali potrebbero tra poco farsi avanti per subentrare all’Eni e al centinaio di imprese italiane che hanno fino a oggi operato in quel Paese. In queste condizioni, e per quanto difficile ciò possa essere, identificare per tempo i possibili interlocutori della «nuova Libia» e aiutarli in tutti i modi, anche finanziariamente, sia ora, contro i colpi di coda del regime morente, sia dopo, nel periodo della ricostruzione, è per l’Italia ancora più vitale che per gli altri Paesi occidentali. La sospensione del trattato Italia-Libia potrebbe non bastare. Se non avremo un ruolo da protagonisti in questa fase, non potremo sperare di averne uno a rivoluzione conclusa. C’è poi l’Europa. I suoi interessi in Medio Oriente sono troppo importanti perché essa possa permettersi il lusso di non adottare, sia pure in accordo con l’alleato americano, una posizione al tempo stesso energica e lungimirante. I primi segnali sono pessimi. Scegliere, come le democrazie nordiche europee hanno fatto in questi giorni, lo «scaricabarile» , rifiutare anche in via ipotetica l’idea di una gestione europea del possibile afflusso di profughi dal Nord Africa, la dice lunga sulla condizione in cui versa l’Unione. Lo tsunami politico mediorientale può essere quella «sfida esterna» ai più vitali interessi della sicurezza dell’Europa in grado di far fare un salto di qualità all’integrazione europea. Oppure, può essere lo scoglio che la farà definitivamente naufragare. La relazione è nei due sensi: la sfida mediorientale potrebbe indurre più coesione in Europa e più coesione le sarebbe necessaria per influenzare, magari ponendo mano a un piano straordinario di aiuti, il futuro del Medio Oriente: al fine di scongiurare derive fondamentaliste in Paesi privi di un passato democratico, e di impedire che la regione venga sconvolta, fra qualche tempo, da nuove guerre. Concludo osservando che non bisognerebbe farsi prendere troppo la mano della cronaca perdendo di vista i tempi più lunghi della storia. Molti osservatori oggi dicono che le attuali rivoluzioni mediorientali condotte in nome della libertà segnano una sconfitta delle tesi sui conflitti di civiltà. A parte il fatto che non sappiamo ancora come andranno a finire quelle rivoluzioni, si consideri il caso dell’Arabia Saudita. Immaginiamo che la rivoluzione arrivi anche lì. Qualcuno può seriamente sostenere che a Riad si installerebbe un «governo democratico» ? A vincere, proprio là dove il mondo più si rifornisce di energia, sarebbe, più facilmente, un fondamentalismo fanatico: un conflitto di civiltà al quadrato. La prudenza è una virtù indispensabile per commentare gli eventi di questi giorni.
Bernard-Henri Lévy: " Ascolto Piazza Taharir,vedo rinascere l'Egitto "

Bernard-Henry Lévy
È qui che tutto è cominciato. Ed è qui che, più che mai, tutto si gioca. Dobbiamo immaginare una piazza grande come due volte, per esempio, piazza della Repubblica a Parigi. Carri armati all’incrocio di ogni strada adiacente. Bambini che vi salgono sopra e fanno amicizia con i soldati. Una folla gioiosa, 500 mila persone, forse di più, ragazze giovanissime e col capo scoperto mescolate a ragazzi con le gote dipinte dei tre colori della bandiera egiziana. Stendardi agitati sopra le teste. Trombe e corni. Fuochi d’artificio. Striscioni in onore dei «martiri» , degli «scomparsi» o, semplicemente, dell’ «Egitto» su cui non scorgo, per tutta la sera, un solo slogan antioccidentale. Una kermesse? Una tifoseria da partita di calcio? Sì, forse. Del resto, uno dei miei compagni di viaggio viene scambiato per un allenatore portoghese. Così, lo fanno salire su un podio improvvisato e gli chiedono di dire qualcosa. «Viva Tahrir. Avete preso Tahrir come la Francia ha preso la Bastiglia. State facendo la prima rivoluzione del XXI secolo» . Al che gli risponde un clamore. Quello della «Comune del Cairo» che, da tre settimane, senza interruzione o quasi, tiene in mano la piazza Tahrir. Talvolta si rimprovera a Tahrir di non avere un programma né un leader. Ma Tahrir è il programma. E il popolo, a Tahrir, è, come per Sartre, il leader di se stesso. La mattina dopo. Sempre Tahrir. Sono di fronte al museo che i sicari di Mubarak hanno tentato di saccheggiare e che una catena di cittadini ha protetto. Incontro Aalam Wassef, incrociato a Parigi vent’anni fa e mai più rivisto. Ha conservato, a 40 anni, lo stesso aspetto giovanile. Lo stesso interesse per la letteratura e la filosofia. Solo che, nel frattempo, è diventato uno dei campioni di Internet, all’origine della scia di polvere democratica che oggi va fino all’eroica insurrezione libica. Nel suo caso, è stato molto semplice. Fin dal gennaio del 2007, ha cominciato col comprare la parola-chiave «Mubarak» . Ha fatto in modo che, ogni volta che un internauta, nel mondo, scriveva la parola del tiranno, si imbattesse in un messaggio che lo metteva in ridicolo. Ha lanciato l’operazione «Presidente Mubarak, avete ricevuto una mail» : gli internauti hanno inviato migliaia di messaggi, feroci o spassosi, che egli trasformava in micropubblicità su Google. Ha messo su YouTube, sotto lo pseudonimo diventato leggendario di Ahmad Sherif, video che sono stati visti da milioni di egiziani. Tanto che l’ambasciata americana ha deciso di prendere contatto con lui, e l’Amn el Dawla, la polizia segreta del regime, di mettere le sue attività sotto sorveglianza. Intanto però la rivoluzione, scoprendo che il re era nudo e decisa a non aver più paura, aveva già rilevato la sfida. È il compleanno di un amico, nella città artificiale di Beverly Hills, a un’ora d’auto dal Cairo, in pieno deserto. Sono venuto a questa festa primaverile con un’idea in testa: incontrare un altro esperto di Internet, Abdelkarim Mardini, che, nei primi giorni della sommossa, quando il governo ha bloccato la Rete, avrebbe trovato il modo di aggirare il divieto. «È esatto— mi spiega con eleganza disinvolta e priva di esaltazione —. Non l’ho fatto da solo. È vero che, nella notte fra il 27 e il 28 gennaio, con un certo numero di persone abbiamo escogitato un piano per aggirare la polizia della Rete. E quella notte, fra Zurigo, dove mi trovavo, la California, dove ha sede Google e, naturalmente, l’Egitto, abbiamo avuto l’idea elementare di unire la voce e Internet» . In breve, Mardini ha attivato tre linee di telefono fisse. La gente chiamava quei numeri per registrare brevi messaggi (comunicando, in particolare, il luogo, l’ora, la parola d’ordine delle manifestazioni); messaggi che si potevano ascoltare componendo gli stessi numeri di telefono (o, se possibile, andando sul sito «speak2tweet» ). Della mia giovinezza althusseriana ho mantenuto una sana diffidenza verso le spiegazioni tecniciste della storia. Ma al tempo stesso... Quanti, fra i giovani di ieri sera sulla piazza Tahrir, si sono mossi grazie a persone come Mardini? Quanti hanno trovato, attraverso di lui, il coraggio di questa rivolta pacifica? E perché non rendere giustizia alle reti sociali che, Twitter in testa, hanno contribuito a far sì che il popolo del Cairo si assumesse il rischio di morire per difendere la libertà? Ricordate il ministro che Mubarak aveva tentato di piazzare alla direzione dell’Unesco, Faruk Hosni, che si era impegnato a bruciare «con le proprie mani» qualsiasi libro scritto in ebraico che fosse sfuggito alla vigilanza delle sue polizie e si trovasse ancora nella Biblioteca d’Alessandria? Ebbene, ho davanti a me, nel ristorante Estoril, vicino alla via Kasr El Nil, una delle persone più adatte a raccontare il tipo di dittatura che questo personaggio fece pesare sulla cultura. Si chiama Karima Mansour. È ballerina e coreografa. Negli spettacoli allestiti, per esempio, a Lisbona, in cui condivideva la scena con un uomo nudo, ebbe la capacità — e il talento — di sottrarsi al cliché della ballerina orientale tradizionale. Salvo il fatto che, negli anni del regno di Hosni, fu vittima di una fatwa laica che le vietava di lavorare, emessa da Walid Aouni, il favorito del ministro, direttore della danza al Teatro dell’Opera del Cairo. Subisce persecuzioni, vessazioni, umiliazioni. Fino al 25 gennaio, quando scoppia la rivoluzione e lei si trova a Berna per le repliche di uno spettacolo che interrompe per accorrere qui, sulla piazza Tahrir e ritrovare gli amici e la famiglia. Oggi, Karima può parlare, può dire tutto. E racconta del regno di un re Ubu colto ma ladro di antichità, cacciatore di menti libere e di blogger, che solo la credulità dell’Occidente ha potuto prendere, per un momento, sul serio. Considero il posto delle donne nei movimenti sociali come un indicatore sempre eloquente della loro tenuta democratica. Karima, dunque. Le ragazze di Tahrir. Ma anche Nada Mobarak, fondatrice dell’Ong «Il Faro» , che ritrovo nel mio albergo, un mattino in cui tutti gli impiegati si sono messi in sciopero per protestare contro i loro 50 euro di salario medio mensile. O Nada Doraid, copta, tant’è dire cristiana d’Oriente, rientrata in gran fretta dagli Stati Uniti. O Magy Mahrous, anche lei copta, che ha passato tutti gli ultimi anni a lottare in Iraq, in Afghanistan, nel Darfur, e che è tornata con l’idea fissa di costruire scuole nelle campagne più povere dell’Alto Egitto. O Syada Gneiss, la più anziana, che fu deputata nel quartiere Al Moqatam, secondo la quale la rivoluzione deve anche rendere la dignità al popolo di miserabili che vi vive, una dignità sepolta dalla spazzatura della città. O Ayyam Sureau, americana di nascita e francese di cultura che, con la madre Habiba, incarna quel che il grande Egitto cosmopolita può produrre di più raffinato: anche lei è al centro del movimento. O infine, magnifica sotto la sua criniera bianca, mentre balla come una ragazzina il giorno del garden party di Beverly Hills, Nawal Saadawi, un incrocio fra Simone Veil e Simone de Beauvoir, che racconta il proprio passato di lotte femministe; la sua campagna presidenziale, 5 anni fa, quando gli sbirri di Mubarak venivano a interrompere i suoi meeting; poi, adesso che una commissione di otto membri è incaricata di riflettere sulla futura Costituzione senza che si sia pensato di mettervi una sola rappresentante del «secondo sesso» , la sua ferma intenzione di far sentire, più che mai, la voce delle donne. Non c’è stato un solo slogan antiamericano, dunque. Ma antisraeliano? Sono al bar «Le notti della felicità» , nel cuore del quartiere popolare di Sayyeda Zenab. Non so più come sia successo. Ma il proprietario, Sayed, 30 anni, come tutti i cairoti in questo periodo, sta riflettendo ad alta voce sui meriti comparati, per succedere a Mubarak, del leader della Lega araba, Amr Moussa, e dell’ispettore dei siti nucleari iraniani, Mohammed El Baradei. Mi racconta la storia della vicina moschea, costruita sulle rovine della chiesa Santa Maria che, anch’essa, poggiava sulle fondamenta di un tempio di Iside. Ed ecco che affronta la questione di Israele e i timori dell’Occidente che il nuovo regime rimetta in causa il trattato di pace firmato da Sadat. «È Mubarak che vi ha fatto credere a questa sciocchezza» , dice scoppiando a ridere. «È lui che, per giustificare il proprio terrore, vi ha detto che noi siamo dei selvaggi il cui unico scopo, dopo la sua caduta, sarebbe stato di buttare nella spazzatura il trattato. Non è gentile verso di noi, che non siamo cani arrabbiati. Né verso Israele, che non merita di vivere nell’ansia. Ma soprattutto è falso. Infatti, con questo trattato siamo nati, siamo cresciuti, fa parte di noi» . Non credo che l’antisemitismo egiziano — in bella mostra ancora un anno fa, durante un mio precedente viaggio, nelle vetrine delle librerie che vendevano senza alcun complesso i Protocolli dei savi di Sion — si sia dissolto in Twitter e Facebook. Credo però che Tahrir significhi, anche, una maturazione politica accelerata e che questa maturazione abbia, fra altri effetti, quello di raffreddare, ridurre e forse, un giorno, circoscrivere l’antisemitismo di Stato e popolare. — questa maturità politica la ritrovo, sebbene sotto un’altra forma, in un uomo meraviglioso, Ahmed Bayoumi, di professione idraulico, che, dopo anni passati, nei momenti liberi, a versare l’olio di spurgo nell’acqua e ad osservare le forme che prendeva, ha finito per farne un’arte: le sue opere, fotografate con un cellulare, sono esposte in una galleria del Cairo. «Esistono due tipi di persone, mi dice, seduto davanti alla sua casa, lungo una stradina di terra battuta, in uno dei quartieri cairoti dove si vive con meno di due dollari al giorno. C’è chi ritiene che tutto questo sia durato abbastanza, che abbiamo avuto quel che volevamo con la caduta di Mubarak e che ci si debba rimettere al lavoro. E chi pensa che abbiamo tagliato la testa del tiranno, ma il corpo è sempre lì...» . E aggiunge, prendendo a testimone la vicina, una matrona piena di capelli che si dà da fare attorno a una pentola di verdure ripiene: «I soldi, per esempio, tutti i soldi che hanno rubato e che dormono nelle vostre banche: aspettate prima di restituirli, aspettate che noi abbiamo eletto un presidente degno di questo nome; infatti, quelli che se ne sono andati avevano mangiato abbondantemente, mentre quelli che sono rimasti, assicurando l’interim, hanno fame e non faranno complimenti per far man bassa sul malloppo. Custoditeli voi, i soldi...» . In effetti, il problema centrale è proprio la corruzione. Gli elementi che mi fornisce Ahmed Elsayed Elnaggar, l’elegante responsabile del Centro di studi politici e strategici che ha gli uffici all’undicesimo piano del palazzo del mitico quotidiano Al-Ahram, sono sbalorditivi. Per le cifre: decine di miliardi di dollari risucchiati, in trent’anni, da Mubarak e dai suoi adepti. Ma, ancora di più, per la sofisticazione di un sistema di contabilità nazionale doppia, tripla, quadrupla che quella gente ha messo a punto; un sistema di cui Elnaggar ha passato la vita a tentare di smontare le menzogne. Un esempio, mi dice: «La cifra della popolazione attiva passata, senza che nessuno vi trovasse nulla da ridire, da 32 a 23 milioni, per mascherare la cifra della disoccupazione» . Un altro esempio (mi tende un fascicolo che il giudice bloccava da cinque anni e che ha recuperato stamattina in previsione del nostro appuntamento): «Il sistema di sottrazione di fondi messo a punto proprio qui, dai dirigenti di questo giornale» . E conclude, con sulle labbra un sorriso di vittoria e di gioia: «Finora, ero io ad aver paura; per quanto...» . Mostra il dito senza la vera: «Non sono sposato, non ho figli, quindi ho potuto resistere alle intimidazioni; ma loro...» . E con lo sguardo indica i piani inferiori, poi superiori: «Sono loro, adesso, che dovranno dare spiegazioni; è così, vede, che la paura cambia campo» . Egitto, anno zero. Vertigine di una democrazia che, a tentoni, elabora le sue prime procedure. Lo si voglia o no, verità e diritto si stanno muovendo... Certo, in un reportage come questo, ci sono le inevitabili delusioni. Penso per esempio a Boutros Boutros Ghali. Non l’avevo più rivisto dal giorno in cui, segretario generale dell’Onu, era stato bombardato di pomodori, a Sarajevo, da una folla esasperata per la sua politica di appeasement. Ma ora, nel suo lussuoso appartamento di viale El Nil, la sua mediocrità è ancora più penosa. Tutto sommato, è vivace. In piena forma intellettuale. Quasi felice di aver l’occasione di evocare i nostri incontri bosniaci. Ma, sulla gioventù della piazza Tahrir, sa solo borbottare che «non sa quel che vuole» né «dove va» . Del vento di democrazia che spazza il suo Paese sa solo ripetere con insistenza che «costerà caro» e che nessuno «se ne preoccupa» . Delle manifestazioni dei primi giorni, vuole solo tenere a mente che il suo ufficio è stato incendiato, come la sede del partito di Mubarak, nello stesso edificio. E se parlo dell’Iran che ha appena presentato, come per sottoporre a un test il nuovo potere egiziano, due navi da guerra all’imbocco del canale di Suez, questo signore di 90 anni, che fu uno degli artefici del trattato di pace con Israele, perde la calma e, nel suo francese perfetto, urla che non vede perché Netanyahu avrebbe diritto alla bomba atomica e Ahmadinejad no... Ci sono momenti bizzarri, dove si ha l’impressione di trovarsi in un brutto romanzo di Le Carré. Ali, per esempio. Lo chiamerò semplicemente Ali, per non mettere in imbarazzo l’amico che me l’ha presentato. Ma quale messaggio vuole far passare, questo grande borghese, legato, attraverso la sua famiglia, a un’importante impresa di turismo, quando viene a dirmi che sono i Fratelli musulmani — li avrebbe «visti» e «riconosciuti» — ad avere difeso la piazza, la notte del 27 gennaio, scagliando le prime pietre contro i sicari di Mubarak giunti a dorso di cammello? Perché propone la teoria assurda, completamente tirata per i capelli, secondo cui, sui 365 martiri, ci vengono mostrati sempre gli stessi 25 volti e che — visto che i Fratelli hanno il culto del segreto e il martire discreto — questa sarebbe la prova che gli altri 340 sono dei loro? E chi è il misterioso «Zayed» , presentatomi da Ali come un parlamentare del partito di maggioranza che avrebbe pagato personalmente i famosi sicari, ma che alcuni gentili militari, venendo a sapere da uno di questi sicari pentiti che egli si apprestava a rinnovare l’operazione il giovedì seguente, avrebbero subito arrestato e messo in condizione di non nuocere? Se si volesse darmi l’impressione che i Fratelli sono in azione e che solo la virtù dell’esercito consente di bloccarli; se si volesse ripetere il colpo di Mubarak, cioè la legittimazione della dittatura esagerando il pericolo del radicalismo islamico, non si agirebbe diversamente. Ci sono momenti in cui si ha la sensazione di essersi gettati nella gola del lupo. Come in un tardo pomeriggio, quando mi trovo, in via El Malek, nel quartiere generale dei Fratelli musulmani. Sono di fronte a Saad Al-Hoseiny, un altro ex deputato incarcerato il 28 gennaio, poi liberato con migliaia di delinquenti rilasciati da Mubarak per seminare paura nella città, di cui notiamo subito, oltre alla corpulenza da gigante, le dita senza unghie e le falangi stritolate— ricordo dei delicati metodi di una polizia egiziana che, del resto, non è sicuro sia tanto cambiata... Durante la nostra conversazione, si mostra modesto e discreto. Mi assicura che la Confraternita non pesa più del 15 per cento. Mi garantisce che, fra sei mesi, non presenterà un candidato alle elezioni presidenziali. Mi giura su tutti gli dèi che comunque, per il momento, non ha altro programma se non la libertà, la dignità, la giustizia. Ma aggiunge, con occhi ironici, che i «problemi dell’Egitto» sono troppo «enormi» perché la modesta Confraternita ne assuma la schiacciante responsabilità. Poi, con lo sguardo improvvisamente più duro, dice che, quanto all’altro programma, quello vero, che la Confraternita professa dal 1928 e ha perfezionato durante la sua lunga stagione hitleriana e che è, pressappoco, lo stesso che il suo ramo palestinese applica già a Gaza: «Il tempo è lungo, abbiamo tutto il tempo...» . Alla fine del nostro incontro, mi chiede se, con il nome che porto, non sono per caso un po’ «ebreo» . Quando gli rispondo di sì, mi considera con un’aria di confusione stupefatta che, stranamente, mi gela il sangue. Poi ci sono gli incontri che lasciano addosso un senso di malessere. Mi trovo dall’ambasciatore di Francia. C’è un giornalista di origine marocchina brillante e informato. Un personaggio meraviglioso, avvocato e difensore dei diritti dell’uomo, Amir Salem. Ma c’è anche un certo Mounir Abd El Nour, che mi ispira, invece, un’immediata antipatia. Vengo a sapere che è stato appena nominato ministro del Turismo in sostituzione di quello che il Consiglio supremo delle forze armate ha gettato in pasto all’opinione pubblica sbattendolo in carcere per corruzione. Capisco che, come lui, è un potente uomo d’affari, un tempo legato all’ «Africa Middle East Petroleum Company» , compromessa nei grandi scandali di corruzione attorno al petrolio di Saddam Hussein. Capisco poi che egli, ex leader del laicissimo partito Wafd, non ha niente da obiettare sul fatto che i Fratelli musulmani si inseriscano nel processo democratico in corso. Infine, mentre discutiamo tranquillamente del posto che occupa la laicità nell’Islam, si interrompe e del tutto inaspettatamente, con l’indice minaccioso, mi butta lì: «Non vi lasciate ingannare; la sofferenza palestinese è una ferita aperta in ogni egiziano» . Poiché, un po’ sorpreso dal suo passare di palo in frasca, gli chiedo se la sofferenza dei libici massacrati, nel momento stesso in cui parliamo, dal carnefice Gheddafi non sia, anch’essa, una ferita aperta, si imporpora, si infuria, stringe il suo cellulare fino a stritolarlo e mi risponde: «Non può paragonare un massacro tra fratelli con lo scandalo permanente che è l’occupazione della Palestina» . Sospetto di corruzione... Esercito... Indulgenza verso il radicalismo islamico... E per finire, il sistema due pesi e due misure perfettamente accettato... Questo personaggio mi appare come l’immagine di quello contro cui si costruisce la nuova Repubblica d’Egitto. L’indomani, ad Alessandria, poi nei pressi della frontiera libica, incontro egiziani rispettabili che in Gheddafi vedono la vergogna del mondo arabo. All’università Al-Azhar, nobile luogo di spiritualità e di studio, sento il consigliere del grande imam al-Tayeb pronunciarsi contro la partecipazione dei Fratelli al governo. Rivedo gli attivisti di Tahrir, al cui cospetto fatico a immaginare per quale miracolo dovrebbero passare dalle loro ebbrezze liberali-libertarie, dalla loro passione per il diritto e la parola, dal sentimento di aver acceso la miccia che sta facendo saltare il folle regime di Tripoli, all’accettazione della Sharia. Ma la verità è che l’Egitto è avviato in una corsa contro il tempo e dobbiamo sperare che il calendario elettorale gli consentirà di vincerla. Sono tre, le possibilità che abbiamo di fronte: la regressione islamista, in cui stento a credere, ma che, certo, non può essere completamente esclusa. Uno scenario militare-civile, «putiniano» più che «iraniano» , dove l’esercito di Nasser, Sadat e Mubarak riprenderebbe le cose in mano, un’ultima volta, e offrirebbe al mondo arabo il modello di una rivoluzione congelata in un’autocrazia costituzionalizzata. Oppure l’evento, quello vero, quello che ho visto svolgersi e che proseguirebbe la sua corsa incerta e magnifica. Questo si chiamerebbe democrazia. (traduzione di Daniela Maggioni)
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