Cari amici, lo sappiamo tutti, anche se non amiamo ammetterlo, esiste un fascino della violenza e della morte. Tadeusz Kantor, che se ne intendeva, insegnava che l'attore di teatro deve apparire allo spettatore come un cadavere e spiegava che la gente si ferma a guardare i morti di un incidente stradale. Esiste poi una pornografia della violenza, come quei vecchi film tipo "Mondo cane"; e le esecuzioni capitali nella storia hanno attratto un pubblico numeroso ed entusiasta, chiunque fossero le vittime.
Dato che la rivoluzione fa certamente parte della categoria della violenza, anche queste hanno i loro voyeur ed estimatori, magari per via indiretta. Libri come "I dieci giorni che sconvolsero il mondo" o "La lunga marcia" ebbero enorme successo anche per questo. Gli intellettuali occidentali progressisti non hanno mai rinunciato alle emozioni rivoluzionarie, anche se dirette contro tutto quel che rappresentavano, la loro patria, la loro classe sociale, il loro stile di vita. A partire dal fascismo, che affascinò (e pagò) tutti gli artisti, i giornalisti e gli intellettuali italiani (solo 12 professori universitari su un migliaio non li giurarono fedeltà, quando lo pretese); da Hitler che piaceva tanto a gente raffinata come Céline, Heidegger, Schmitt, Pound; e a Stalin che non dispiaceva a Moravia e Pasolini, per parlare solo dei nostri.
Così Sartre e tanti altri si entusiasmarono per i combattenti algerini che li avrebbero volentieri fatto saltare in aria, mezza gioventù italiana di figli di papà – me compreso, per quel che conta - si mise a scimmiottare quarant'anni fa la "rivoluzione culturale" che si proponeva di eliminare esattamente i borghesi indisciplinati come loro. Inutile dire che quando Khomeini prese il potere in Iran, fu acclamato da una massa di intellettuali e giornalisti di sinistra, gente atea, libertaria e magari omosessuale come Foucault, senza neanche l'attenuante della minore età, che l'ayatollah avrebbe impiccato all'albero più vicino se li avesse avuti fra le sue mani, come fece regolarmente con i loro pari fra i suoi concittadini.
Perché vi racconto queste cose? Mah, perché il riflesso condizionato "e noi faremo come la Russia / e suoneremo la campanella / e chi non lavora non mangerà" scatta in questi giorni anche per il "magnifico spettacolo" delle piazze arabe. E già c'è qualcuno che auspica anche da noi una cacciata del nostro "dittatore" (come lo chiama Camilleri) in stile tunisino o egiziano. Anche noi dovremmo occupare una piazza, ci spiegano e stare lì facendo rumore finché non cacceremo il governo. Con l'idea che la "vera democrazia", quella sostanziale, sia quella lì, delle manifestazioni e degli scontri, magari dei "martiri" e che la nostra banale abitudine di infilare dei foglietti di carta in certe scatole una domenica l'anno sia poco significativa, soprattutto se che premia l'odiato nemico. Be', magari anche noi potremo fare Eurabia nella democrazia e congiungere le "adunate oceaniche" di mussoliniana memoria con quelle di stile iraniano. E' nera la divisa delle loro donne, era nera la camicia dei nostri uomini – una differenza, ma di dettaglio.